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Notariato | Innovazione | Società
Aggiornato: 9 ore 27 min fa

La via stretta per la servitù di parcheggio

Ven, 04/19/2024 - 08:30
Commento a Cass., Sezioni Unite, 13 febbraio 2024, n. 3925 (.PDF)

Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso – 3. La tesi contraria alla costituzione della servitù di parcheggio – 4. La tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio – 5. Gli argomenti di Cass. 3925/2024 – 6. Il rapporto tra servitù di parcheggio e diritto d’uso in ambito condominiale – 7. Tecnica redazionale

1. Premessa

La Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 13 febbraio 2024, n. 3925, è stata chiamata a pronunciarsi sulla possibilità per i privati di costituire una servitù di parcheggio, intesa quale peso gravante il fondo servente che è tenuto a subire la facoltà del proprietario del fondo dominante, chiunque esso sia[1], di accedere al fondo servente e di parcheggiare l’auto, tendenzialmente in perpetuo.

Come si dirà in seguito, la servitù di parcheggio – pur essendo la servitù un diritto reale tipico a contenuto atipico[2]in quanto il legislatore ha dettato lo schema o la cornice, consentendo all’autonomia privata di riempirlo in maniera libera, mediante l’individuazione delle utilità a favore del fondo dominante e il corrispondente peso a carico del fondo servente, nel rispetto del perimetro delineato dal legislatore[3] – è un istituto molto travagliato perché risente di una rigida applicazione dello storico principio della assolutezza del diritto di proprietà, che porta a guardare con sospetto la costituzione di pesi imposti a carico della proprietà di natura reale ed a tempo indeterminato. Per questo motivo, per un certo periodo, la giurisprudenza ammetteva la concessione di un diritto personale di parcheggiare l’auto, non trasmissibile agli aventi causa del beneficiario, ma non la costituzione di una servitù perpetua. Si riteneva che la facoltà di parcheggiare l’auto su un’area altrui potesse costituire oggetto di un contratto di contenuto obbligatorio come la locazione o il comodato oppure oggetto di un diritto reale temporalmente limitato come l’usufrutto o l’uso, ma non di una servitù poiché l’autonomia privata avrebbe creato una servitù irregolare perpetua a favore delle persone titolari del fondo e non del fondo dominate[4].

2. Il caso

Con atto notarile del 2011 due venditori hanno costituito una servitù di parcheggio “a carico dei loro mappali 10 e 1083 del fol. 18 del Comune di S. e in favore dei mappali 436, 843 e 1803 alienati alla Arredo 3 Srl col medesimo atto”. Colui che ha successivamente acquisto il fondo servente dai costituenti la servitù ha proposto domanda di accertamento della nullità della servitù, respinta sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello con la seguente motivazione.

L’acquirente era a conoscenza dell’esistenza della servitù di parcheggio, riportata nell’atto di trasferimento; non si trattava di servitù irregolare perché dalla chiara lettera dell’atto costitutivo si ricava la predialità; era dimostrata l’utilità a favore del fondo dominante, consistente nella possibilità di fornire piazzali adeguati alla società titolare del fondo dominante, e quindi nel più comodo sfruttamento del fondo dominante a vocazione industriale; residuava una qualche utilità per il fondo servente, potendosi sfruttare il sottosuolo e potendosi comunque compiere le attività non incompatibili con il parcheggio; non difettava il requisito della localizzazione della servitù[5], essendo state individuate le particelle catastali interessate dalla servitù (tutta la superficie dei mappali 10 e 1803 del fol 18); sussistevano anche gli altri requisiti tipici della servitù (specificità, determinatezza e inseparabilità rispetto ai fondi dominante e servente).

3. La tesi contraria alla costituzione della servitù di parcheggio

Un orientamento più risalente della Cassazione ha ritenuto che il parcheggio di autovetture su di un’area può costituire legittima manifestazione di un possesso a titolo di proprietà del suolo ma non anche estrinsecazione di un potere di fatto riconducibile al contenuto di un diritto di servitù, diritto caratterizzato dalla cosiddetta “realitas”, intesa come inerenza al fondo dominante della utilità così come al fondo servente del peso, mentre la mera “commoditas” di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedano al fondo (anche numericamente limitate) non può in alcun modo integrare gli estremi della utilità inerente al fondo stesso, risolvendosi, viceversa, in un vantaggio affatto personale dei proprietari[6]. Questo orientamento aveva come corollario che venisse negata l’azione di reintegrazione nel possesso di una servitù di parcheggio ai condomini di uno stabile che lamentavano di essere stati spossessati di un’area condominiale utilizzata ai fini di parcheggio (nei confronti di chi avesse recintato l’area nella asserita qualità di proprietario)[7], sul presupposto che il parcheggio dell’auto non rientra nello schema del diritto di servitù, difettando la realità (inerenza al fondo dominante dell’utilità e al fondo servente del peso), in quanto la comodità di parcheggiare l’auto per specifiche persone che accedono al fondo non può valutarsi come una utilità inerente al fondo stesso, trattandosi di un vantaggio del tutto personale dei proprietari. In alcune circostanze la Cassazione ha affermato che semplice sosta di autovetture, senza la presenza di opere visibili e permanenti, impedisce l’acquisto per usucapione della servitù di parcheggio[8].

Si è affermato, inoltre, che il nostro sistema non ammetterebbe “servitù irregolari” di parcheggio poste a carico di un fondo ed a favore del proprietario del fondo vicino, con la conseguenza che siffatta convenzione negoziale va inquadrata nello schema del contratto di locazione o dei contratti affini, quali l’affitto o il comodato. Il diritto trasferito, stante la natura personale ed il carattere obbligatorio, non può ritenersi trasmissibile, in assenza di una ulteriore apposita convenzione stipulata dall’avente diritto con il nuovo proprietario del bene “asservito”. La Cassazione ha, infine, affermato il principio della nullità del contratto costitutivo di servitù di parcheggio per impossibilità dell’oggetto[9].

4. La tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio

In prevalenza si ritiene che le facoltà di transitare e parcheggiare un’autovettura all’interno di un fondo altrui possono dare luogo sia ad un rapporto di natura reale (attraverso l’imposizione del relativo peso a carico sul fondo servente per l’utilità del fondo dominante, creando una relazione di asservimento del primo al secondo che si configura come qualitas fundi) sia ad un rapporto di natura obbligatoria con corrispondente diritto di parcheggiare a vantaggio e per la comodità della persona o delle persone specificamente indicate nell’atto costitutivo, senza alcuna funzione di utilità fondiaria[10]. La facoltà di parcheggiare l’autovettura sul fondo servente è certamente idonea ad arrecare utilità al singolo ma, allo stesso tempo, anche un vantaggio per il fondo dominante rendendolo maggiormente utilizzabile. L’esempio classico è quello del fondo a destinazione abitativa che vede accrescere la sua utilità dal diritto di parcheggiare sul fondo vicino.

A partire dal 2017 si consolida un orientamento della Cassazione favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio[11], a condizione che, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione[12]. La utilitas per il fondo dominante, ed il corrispondente peso per il fondo servente, possono avere contenuto assai vario, come dimostrato dall’art. 1028 c.c. secondo cui “l’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Può del pari essere inerente alla destinazione industriale del fondo”.

È stata anche accolta la domanda proveniente dai condomini di un edificio di essere dichiarati titolari di un diritto di servitù, acquistato per usucapione, avente quale contenuto la facoltà di parcheggiare i propri autoveicoli in un adiacente terreno di proprietà di altro soggetto[13].

Posto che la tipicità della servitù è di carattere strutturale e non contenutistico, occorre verificare che in concreto sussistano tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie astratta: appartenenza dei due fondi a soggetti diversi; immediatezza, nel senso che non è necessaria l’altrui collaborazione per l’esercizio della servitù; inerenza del peso al fondo servente e dell’utilità al fondo dominante[14], in modo che la relazione di asservimento configuri una qualitas fundi inseparabile da entrambi i fondi[15]; l’incremento di utilizzazione del fondo dominante deve poter essere conseguito da chiunque sia proprietario del fondo stesso e non può essere legato ad una attività personale del soggetto; l’utilizzo del fondo servente non può mai risultare del tutto inibito.

Poiché la servitù consiste nella conformazione del diritto di proprietà in modo divergente dallo statuto legale, essa non è compatibile con lo svuotamento delle facoltà del proprietario del fondo servente, al quale deve residuare la possibilità di utilizzare il fondo, pur con le restrizioni e le limitazioni che discendono dal vantaggio concesso al fondo dominante. Il proprietario del fondo dominante deve poter continuare a svolgere ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utilitas concessa. Diversamente si è fuori dallo schema tipico della servitù[16].

5. Gli argomenti di Cass. 3925/2024

Le sezioni unite con la sentenza che si commenta si pongono nel solco della giurisprudenza della Cassazione favorevole all’ammissibilità della servitù di parcheggio, a condizione che la conformazione concreta del diritto, effettuata nell’atto costitutivo della servitù, rispetti tutti i requisiti prescritti dalla fattispecie astratta.

Le sezioni unite richiamano, a favore dell’ammissibilità di dedurre il diritto di parcheggiare l’auto all’interno dello schema reale della servitù, la legislazione sui vincoli di parcheggio: con l’art. 18 della legge 6 agosto 1967, n. 765 il legislatore ha introdotto l’art. 41-sexies della legge urbanistica che, prevedendo che nelle nuove costruzioni debbano essere riservati spazi a parcheggio in misura non inferiore ad un metro quadro per ogni dieci metri di costruzione[17], ha condizionato l’edificabilità del fondo alla disponibilità del parcheggio. La giurisprudenza ha costantemente inquadrato il diritto sulle aree a parcheggio come diritto reale d’uso in favore dei condomini[18]. Ne consegue che, sul piano sistematico, diventa difficile negare che l’utilità del parcheggio è strettamente inerente (anche) al fondo e l’ammissibilità della costituzione di una servitù volontaria di parcheggio per difetto di inerenza al fondo, perché ciò comporterebbe una contraddizione in termini: il parcheggio non sarebbe utile al fondo nonostante ne condizioni addirittura l’edificabilità.

La tesi favorevole alla costituzione della servitù, oltre ad essere in linea con il sistema, esalta il fondamentale principio dell’autonomia negoziale e non vi è ragione di negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’art. 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori.

La sentenza pone l’accento sul limite concesso all’autonomia privata nella costituzione della servitù di parcheggio: la servitù «non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso… nel suo nucleo fondamentale; insomma, la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, pur se commisurata al contenuto e al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente». Su questo aspetto fondamentale nella costituzione di una servitù di parcheggio è stato affermato in giurisprudenza che l’asservimento del fondo servente deve essere tale da non esaurire ogni risorsa ovvero ogni utilità che il fondo servente può dare e il proprietario deve poter continuare a fare ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utilitas concessa[19]. Il “peso” non può sostanziarsi in tutte le facoltà di godimento del fondo servente, fattispecie che porta a ravvisare la costituzione di un altro diritto reale, ad es. usufrutto o uso, necessariamente temporanei[20].

La sentenza in commento mette in evidenza la necessità di valutare due requisiti specifici richiesti per la valida costituzione della servitù di parcheggio: la specificità dell’utilità riservata (la servitù di parcheggio non potrà riguardare genericamente il godimento dell’area assegnata ma dovrà concretizzarsi nella sua specificità in quanto il proprietario del fondo dominante avrà diritto ad utilizzare l’area assegnata sul fondo servente al solo scopo di parcheggiare la propria autovettura); la localizzazione, intesa quale individuazione esatta del luogo di esercizio della servitù, non essendo concepibile una servitù di parcheggio che si estenda, a mera discrezione del titolare del fondo dominante, in qualsiasi momento e indistintamente su qualsiasi punto del fondo servente.

6. Il rapporto tra servitù di parcheggio e diritto d’uso in ambito condominiale

Una volta ammessa la servitù di parcheggio, pur con le precisazioni e le limitazioni indicate dalla Cassazione, risulta veramente sfumata la distinzione con alcune fattispecie di riconoscimento di un uso esclusivo in ambito condominiale[21].

Mi riferisco, ad esempio, a quei casi, in passato abbastanza frequenti nella prassi, in cui veniva riconosciuto dai condomini ai proprietari dei negozi il diritto di utilizzare più intensamente l’area condominiale prospicente il negozio per il parcheggio delle auto, durante l’orario di apertura del negozio. Nella fattispecie descritta ricorrono tutti i requisiti prescritti dalla giurisprudenza per la servitù di parcheggio, comprese la localizzazione della servitù e la facoltà per i condomini di utilizzare l’area per il parcheggio delle auto al di fuori dell’orario di apertura dei negozi.

A ben vedere, anche nelle altre ipotesi in cui il diritto d’uso sia stato concesso ai condomini su un’area condominiale, di regola, rimangono delle “facoltà residue” di utilizzo dell’area da parte dei condomini: i) facoltà di transito pedonale dei condomini attraverso i posti auto in uso esclusivo; ii) facoltà di manovrare con la propria auto nell’area comune per accedere al posto auto in uso esclusivo[22]; iii) passaggio tubazioni interrate nell’area comune che attraversa i posti auto in uso esclusivo; iv) beneficio per gli appartamenti affacciati sull’area comune di ricevere aria e luce ed esercitare la veduta in appiombo sull’area comune nella quale sono ubicati i posti auto in uso esclusivo[23].

Rimane, tuttavia, imprescindibile il principio espresso da Cass., sezioni unite, 17 dicembre 2020, n. 28972[24], e richiamato dalla sentenza in commento, che il diritto di uso esclusivo (ad esempio della porzione di area comune destinata a posto auto) non può impedire qualunque forma di utilizzo del bene comune da parte degli altri condomini e svuotare di contenuto il diritto di comproprietà degli altri condomini. Con l’ulteriore corollario che si creerebbe un diritto reale atipico dell’utilizzatore dell’area, senza alcun limite temporale, in contrasto con il principio di tipicità dei diritti reali[25] e, soprattutto, con il principio in base al quale i limiti alla proprietà, diversi dai diritti reali tipici, creati dall’autonomia privata, non possono avere durata indeterminata e non sono opponibili ai terzi per il principio di relatività del contratto[26].

7. Tecnica redazionale

Per costituire validamente una servitù di parcheggio l’atto costitutivo deve rispettare i requisiti prescritti per la servitù dalla fattispecie astratta: appartenenza dei fondi dominante e servente a due soggetti diversi; inerenza del peso al fondo servente e dell’utilità al fondo dominante; immediatezza, consistente nella facoltà per il titolare del fondo dominante di esercitare la servitù senza la collaborazione altrui; inoltre, al fine di rispettare i requisiti indicati dalla giurisprudenza per  evitare che la proprietà del fondo servente venga, di fatto, svuotata di qualsiasi utilità, deve indicare chiaramente la specificità dell’utilità riservata e la localizzazione della servitù in un punto preciso del fondo servente.

Si propone di seguito una formula di atto costitutivo di servitù di parcheggio[27]:

Il signor Tizio, proprietario del fondo servente Alfa, distinto nel Catasto Terreni del Comune di … al foglio …, part. …, costituisce a favore del fondo dominante Beta, costituito da abitazione posta in …, distinta nel Catasto Fabbricati del Comune di … al foglio …, part. … sub. …, per il quale accetta il proprietario signor Caio, una servitù di parcheggio, avente ad oggetto la facoltà di accedere al fondo servente e parcheggiare una autovettura, in qualsiasi ora del giorno e della notte, nella zona delle dimensioni di ml. per ml., confinante con …, con …. e con …, evidenziata con colore … nella planimetria che si allega sotto la lettera … Tizio garantisce il pacifico godimento dell’area asservita che non potrà essere recintata o chiusa, salvo che sia consentito al proprietario del fondo dominante l’accesso all’area; Caio provvederà, a sua cura e spese, a delimitare in loco l’area asservita in maniera visibile e non potrà fare un uso dell’area diverso dal parcheggio dell’auto; le spese per la manutenzione dell’area sono a carico del proprietario del fondo dominante”.

Note

[1] È stato sottolineato che il vantaggio è a favore del fondo dominante e del suo titolare in quanto tale, precisando che il diritto o il corrispondente obbligo è a favore o a carico non dei fondi, che non sono soggetti di diritto, ma del proprietario del fondo dominante o del fondo servente fin quando sono proprietari dei fondi (Vitucci, Servitù prediali, in Digesto, Discipline privatistiche, XVIII, Torino, 1998, 500).

[2] Vitucci, Utilità e interesse nelle servitù prediali, Milano, 1974, 46; Triola, Le servitù, in Il cod. civ. commentario, fondato da Schlesinger diretto da Busnelli, Milano, 2008, 23. L’art. 616 del codice civile del 1865 disponeva: «I proprietari possono stabilire sopra i loro fondi od a benefizio di essi qualunque servitù, purché sia solamente imposta ad un fondo e a vantaggio di un altro fondo, e non sia in alcun modo contraria all’ordine pubblico». La norma non è stata riprodotta nel codice civile vigente perché ritenuta superflua (Branca, Delle servitù prediali, in Comm. Scialoja-Branca, libro terzo, Della proprietà, sub. artt. 1027-1099, Bologna-Roma, 1957, 327).

[3] È stato affermato che «La legge enuncia non un tipo concreto di servitù, bensì una formula logica: sì che basta che si tratti di peso, stabilito tra fondi per l’utilità di uno di questi, perché possa attribuirsi alla data servitù in concreto qualsiasi contenuto» (Messineo, Manuale di dir. civ. comm., II, Milano, 1965, 633 s.).

[4] Sulle servitù irregolari cfr. Musolino, Uso, abitazione e servitù irregolari, Bologna, 2012, 505 ss. L’art. 2645-ter c.c. consente ora di la trascrivibilità dei vincoli d’asservimento della proprietà immobiliare a favore della persona anziché del fondo; la fattispecie ricorda le c.d. servitù irregolari e consente la creazione di autentici vincoli di destinazione opponibili ai terzi per effetto della pubblicità ora ammessa dall’art. 2645-ter c.c., con la fondamentale differenza che il peso imposto sul fondo può avere durata massima di novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria (Calvo, Vincoli di destinazione, Torino, 2012, 158 s.).

[5] La localizzazione della servitù, intesa come delimitazione dell’area gravata dal peso e sulla quale viene esercitata l’utilità del fondo dominante, a cui è collegata l’individuazione delle residue facoltà di godimento che rimangono al titolare del fondo servente, è l’aspetto più delicato della servitù di parcheggio.

[6] Cass. 28 aprile 2004, n. 8137; Cass. 21 gennaio 2009, n. 1551.

[7] Cass. 22 settembre 2009, n. 20409, Cass. 13 settembre 2012, n. 15334.

[8] Cass. 7 marzo 2013, n. 5769; Cass. 13013/2013; Cass. 22 settembre 2009, n. 20409, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 1, 3, 279.

[9] Cass. 6 novembre 2014, n. 23708, in Foro it., 2014, I, 3416 secondo cui, dato il carattere meramente personale del vantaggio, il contratto volto a costituire una servitù prediale di parcheggio sarebbe nullo per impossibilità dell’oggetto e potrebbe convertirsi nella costituzione di un diritto reale d’uso o in un diritto personale di godimento (locazione o comodato). La sentenza in questione si riferiva ad una clausola di un atto notarile che dava atto dell’esistenza di una servitù di parcheggio a favore di un terzo del seguente tenore “Si dà atto tra le parti che il terreno compravenduto è gravato da servitù di parcheggio limitatamente a due auto a favore della proprietà di Tizio, nipote della venditrice, rappresentata da un fabbricato di civile abitazione ubicato ad ovest del terreno servente”; per un commento alla citata sentenza cfr. Mecenate, La servitù di parcheggio – Validità ed invalidità dell’atto di costituzione, Studio approvato dal CNN n. 1094-2014/C.

[10] Afferma Musolino, Uso, abitazione e servitù irregolari, cit., 529 che «ogni servitù può alternativamente formare oggetto di un rapporto obbligatorio. A quest’ultimo riguardo, anzi, in linea generale, il vantaggio che un fondo trae da un altro costituisce un dato meramente economico e, perciò, giuridicamente amorfo. Esso è indispensabile all’esistenza ed al permanere della servitù (artt. 1027 e 1074 c.c.), ma non serve per distinguere quest’ultima da un’obbligazione, potendo essere assicurato – con diverse conseguenze sul piano giuridico – anche mediante la costituzione di rapporti obbligatori. Affinché l’utilità costituisca oggetto di servitù, occorre che essa sia stata voluta dalle parti non come risultato di una prestazione, bensì come peso imposto al fondo, ossia come effetto di un rapporto di servizio, diretto e valido erga omnes, tra quel fondo, che per questo si dice servente, ed un altro, che diviene dominante».

[11] Anche in precedenza si riscontrano pronunce favorevoli alla costituzione della servitù di parcheggio come Cass. 24 aprile 2009, n. 9834 e Cass. 23 marzo 2005, n. 3370. Si può, anzi, affermare che alcune pronunce apparentemente contrarie alla costituzione della servitù di parcheggio siano dovute alla situazione di fatto sottostante in cui mancavano tutti i requisiti strutturali richiesti per la valida costituzione di una servitù.

[12] Cass. 6 luglio 2017, n. 16698; Cass. 18 marzo 2019, n. 7561, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 945, con nota di Casini, Sulla configurabilità della servitù di parcheggio.

[13] Cass. 26 giugno 2001, n. 8737.

[14] È stato efficacemente affermato che «In presenza di una servitù prediale, il contenuto ed i limiti reciproci dei diritti di proprietà sui fondi, dominante e servente, ricevono modificazioni: si configurano cioè in modo diverso da quello che, mancando le servitù, discenderebbe dal regime legale… Delle facoltà, il cui esercizio è sottratto o limitato al proprietario del fondo servente, trae immediato beneficio il titolare del diritto reale contrapposto» (Vitucci, Servitù prediali, cit., 496 s.). Il requisito dell’inerenza ai due fondi assorbe anche quello della vicinanza: la mancanza di una vicinanza tra i fondi impedirebbe in concreto che l’utilità sia inerente sul lato attivo, cioè che possa costituire fruizione contemporanea del fondo dominante insieme a quello servente (Mecenate, La servitù di parcheggio, cit.).

[15] Questo concetto è stato espresso in dottrina come inscindibilità necessaria (Biondi, Le servitù, in Tratt. Cicu-Messineo, XII, Milano, 1967, 82 s.) o come vera e propria inseparabilità (Triola, Le servitù, cit., 25). Sul piano concreto ciò significa che il trasferimento del fondo dominante o servente comporta il trasferimento ex lege anche della servitù, anche quando non ne sia fatta menzione nell’atto. Viceversa, la servitù è incedibile in modo autonomo (Mecenate, La servitù di parcheggio, cit.).

[16] Osserva correttamente Mecenate, La servitù di parcheggio, cit. che la diversa conformazione del diritto di proprietà non può avere carattere generico ed indistinto ma soltanto specifico e determinato, perché costituisce una deroga alla situazione legale, e che la servitù è un’eccezione alla normale configurazione della proprietà fondiaria e quindi la convenzione costitutiva dev’essere interpretata in modo restrittivo.

[17] Inizialmente lo standard urbanistico era di un metro quadro ogni venti metri cubi di costruzione ed è stato raddoppiato dall’art. 2 della legge 24 marzo 1989, n. 122 (c.d. legge Tognoli).

[18] Secondo l’impostazione granitica della giurisprudenza la disciplina legale delle aree destinate a parcheggio impone un vincolo di destinazione, di natura pubblicistica, per il quale gli spazi in questione sono riservati all’uso diretto delle persone che stabilmente occupano le singole unità immobiliari, anche a titolo di locatari o comodatari; la normativa non impone all’originario proprietario dell’intero immobile la cessione in proprietà delle aree unitamente ai singoli appartamenti, purché il vincolo di destinazione venga rispettato con il riconoscere e garantire a coloro che occupano le singole unità immobiliari uno specifico diritto reale d’uso delle aree stesse (Cass., Sezioni unite, 18 luglio 1989, n. 3363, in Foro it., 1989, I, 2739; in Riv. not., 1989, 708; da ultimo cfr. Cass. 29 ottobre 2010, n. 22194). Per un commento all’evoluzione normativa dei posti auto legge ponte cfr. Domenici, La circolazione degli spazi a parcheggio alla luce delle recenti modifiche legislative, in Notariato, 2013, 73; Laurino, Il posto auto “obbligatorio” in condominio: il diritto vivente, abrogato, ancora in vigore, in Immob. & propr., 2019, 33; Torroni, Posti auto legge ponte e posti auto legge Tognoli: doppio tentativo di liberalizzazione, in Riv. not., 2014, 1045 ss.

[19] Cass. 6 luglio 2017, n. 16698; in dottrina è stato affermato che non è ammissibile un peso il cui contenuto non limiti ma esaurisca ed assorba tutto il contenuto della dominazione generale del fondo servente (Triola, Le servitù, in Comm. Schlesinger, Giuffrè, 2008, sub. artt. 1027-1099, 8 s.).

[20] Del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 427.

[21] Sul tema cfr. Torroni, Usi esclusivi e perpetui su beni condominiali: problemi e soluzioni, in FederNotizie, 18 giugno 2021; Del Prato, Uso esclusivo permanente in favore di un condomino e tipicità dei diritti reali, cit.; Bertani, Uso esclusivo: reviviscenza dell’inquadramento come servitù, in Immob. & propr., 2022, 577.

[22] Cass. 18 ottobre 1991, n. 11019, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, a cura di Cendon, Torino, 2004, 407 ha attribuito rilevanza all’esigenza di un utilizzo condominiale dell’intera area adibita a parcheggio, per effettuare le manovre di accesso e di uscita dai singoli posti auto con reciproche immissioni nelle proprietà confinanti, nella valutazione della legittimità di un divieto condominiale di recintare i singoli posti auto.

[23] Questa facoltà di utilizzo dell’area comune è stata evidenziata da Cass. 16 ottobre 2017, n. 24301.

[24] In Riv. not., 2021, 1, 53, con nota di Torroni; in Notariato, 2021, 2, 200, con nota di Gallelli; in Giur. it., 2021, 3, 549, con nota di Calvo; in Nuova giur. civ., 2021, 2, 243, con nota di Carpinelli.

[25] Il principio di tipicità dei diritti reali ha come scopo evitare che il contenuto tipico dei diritti reali, cioè quelle facoltà che per legge competono al titolare di un diritto reale, sia modificato dall’autonomia privata. La regola è diretta a favorire la sicura circolazione dei diritti stessi, evitando al titolare di dover esperire indagini, ad esempio nei pubblici registri, sulle facoltà associate a quel determinato diritto. La pubblicità immobiliare postula necessariamente una standardizzazione dei diritti ed una loro conseguente tipizzazione. La presenza di un sistema di pubblicità legale esclude, già di per sé, che la sola autonomia privata possa generare nuovi diritti reali perché il Conservatore deve ricusare di ricevere gli atti che non siano previsti dalla legge (art. 2674 c.c.) e nessun sistema di pubblicità legale potrebbe funzionare se i privati avessero il diritto di trascrivere qualunque atto (Morello, Tipicità e numerus clausus dei diritti reali, in Gambaro, Morello, Trattato dei diritti reali, Milano, 2008, I, 77, nota 28; Gambaro, La proprietà, in Tratt. di dir. priv. a cura di Iudica e Zatti, 67 ss.). Per esemplificare le esigenze sottese al principio di tipicità, è stato proposto l’esempio del coniuge romantico, ma prudente, il quale nomini la propria consorte “Regina” dell’appartamento di sua proprietà esclusiva, lasciando i terzi nell’incertezza circa le facoltà ed i poteri inerenti alla carica di “Regina della Casa” (Gambaro, La proprietà, in Tratt. di dir. priv., cit., 74).

[26] Il principio di necessaria relatività degli effetti del contratto di cui all’art. 1372 c.c. impedisce all’autonomia privata di andare ad intaccare la sfera patrimoniale di terzi soggetti mediante la creazione di situazioni giuridiche atipiche ad essi opponibili.

[27] Una proposta di atto costitutivo di servitù di parcheggio si trova in Mecenate, La servitù di parcheggio, cit.

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Patto di famiglia e tassazione: arriva l’atteso “revirement” della Cassazione

Mer, 03/06/2024 - 08:30
a cura dell’avvocato Nicole Pasquale
e del notaio Massimo Linares

L’Agenzia delle Entrate di Milano alla fine del dicembre 2023 ha emesso un avviso di liquidazione dell’imposta e irrogazione delle sanzioni relativamente a un atto portante un patto di famiglia sottoscritto nell’ottobre 2022, ai sensi degli articoli 768-bis e seguenti del codice civile, con il quale i genitori trasferivano le quote di partecipazione di una società a responsabilità limitata in parti uguali ai propri figli; contestualmente i figli legittimari assegnatari si sono obbligati a trasferire alle due sorelle (legittimarie non assegnatarie) una somma in denaro.

In particolare, nell’avviso in questione l’Agenzia delle Entrate testualmente assumeva: “L’amministrazione finanziaria, con la Circolare n. 3 punto 8.3.2. del 22 gennaio 2008 (.PDF), ha chiarito che le attribuzioni poste in essere dall’assegnatario dell’azienda o della partecipazione sociale verso gli altri partecipanti ai contratti rientrano nell’ambito di applicazione dell’imposta sulle successioni e donazioni. Il denaro attribuito al legittimario non assegnatario proviene dal patrimonio del discendente assegnatario e non da quello del disponente, pertanto i trasferimenti eseguiti dall’assegnatario verso gli altri legittimari devono essere tassati in base al rapporto di parentela tra essi esistente.

In applicazione delle disposizioni del D.L. 262/2006, i trasferimenti a titolo gratuito tra fratelli e sorelle scontano l’imposta sulle successioni e donazioni con l’aliquota del 6% sul valore eccedente l’importo di 100.000,00 euro.

Tale assunto risulta coerente con la precedente Circolare n. 18/E dell’Agenzia delle Entrate del 29 maggio 2013 (.PDF) [1], la quale si è posta come guida operativa, un vademecum per la tassazione degli atti notarili ai fini di un’uniforme applicazione dell’Imposta di Registro.

L’avviso in questione si pone altresì indubbiamente in linea con alcune pronunce della Corte di Cassazione, la quale – con un orientamento che ha trovato piede fino all’Ordinanza n. 32823/2018 (.PDF) [2] – è giunta a qualificare l’attribuzione che il figlio assegnatario dell’azienda o delle quote di partecipazione effettua a favore dei suoi fratelli, liquidandoli, come una donazione tra fratelli e non come donazione indiretta fatta dal disponente al figlio non assegnatario.

Conseguentemente, seguendo il ragionamento fino ad allora sposato della Cassazione, troverebbe applicazione in siffatti casi l’aliquota del 6% per il valore dell’attribuzione che ecceda la franchigia di euro 100.000,00 per ciascuna attribuzione. 

Se quindi quanto sostenuto dall’Agenzia delle Entrate nell’avviso di liquidazione avrebbe potuto trovare ragion d’essere nel suesposto orientamento della Cassazione, si deve a oggi necessariamente fare i conti con quella che è l’attuale posizione dei giudici di legittimità, espressa a chiare lettere nella più recente Sentenza n. 29506 del 24 dicembre 2020 (.PDF), la quale offre una disamina dettagliata e completa dell’istituto, giungendo a conclusioni non solo condivisibili ma probabilmente le sole sostenibili.

In particolare, la sezione Tributaria della Corte di Cassazione nella suddetta sentenza afferma che ciò che caratterizza il patto di famiglia è proprio la necessaria presenza del conguaglio a favore dei legittimari non assegnatari, disponendo espressamente che la liquidazione ai soli fini impositivi deve essere trattata come una donazione dello stesso disponente a favore del legittimario non assegnatario, realizzata per il tramite dell’onere gravante sul legittimario assegnatario[3].

Il disponente, difatti, fa pervenire ai legittimari non assegnatari quanto loro spettante mediante il legittimario assegnatario: pertanto la liquidazione posta in essere dal cessionario del bene produttivo ha funzione surrogatoria rispetto al disponente[4].

In tal modo sembra condivisibile la tesi che sostiene trattarsi di un onere apposto alla liberalità, in modo molto simile alla donazione modale[5].

Per comprendere a pieno il suddetto “revirement” della Cassazione[6], la quale in modo innovativo riscrive l’inquadramento giuridico ed il trattamento fiscale dell’istituto che qui ci occupa, si deve partire da una disamina del medesimo.

Detto istituto è stato introdotto dal nostro legislatore con la legge 14 febbraio 2006, n. 55, al fine di consentire al titolare di un’azienda o al detentore di partecipazioni societarie, di trasferire l’azienda o le quote ai propri discendenti con un contratto inter vivos che possa compiutamente regolare le sorti dell’impresa, senza che la stessa subisca, in seguito alla morte del suo titolare, il rischio di una sua disgregazione.

In tal modo, il titolare ha la possibilità di scegliere colui tra i suoi discendenti che possa essere il più idoneo a continuare l’attività senza dover aspettare la sua morte per effettuare tale trapasso generazionale, ma dando un assetto definitivo alla gestione aziendale, mettendola in tale modo al riparo dagli eventi successori, che potrebbero negativamente incidervi.

Al contempo, ai sensi dell’art. 768-quater c.c., è previsto che al patto di famiglia devono partecipare, quali parti necessarie del contratto, anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore. È inoltre previsto dal co. 4 che gli assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri partecipanti al contratto, ove questi non vi rinunzino in tutto o in parte, con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli articoli 536 e seguenti” del Codice civile.

L’assetto di tale istituto rende facilmente intuibile che con esso il legislatore, al fine di perseguire i suddetti interessi meritevoli di tutela, abbia posto in essere una vera e propria deroga espressa al divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. Con il patto di famiglia, infatti, si realizza una sorta di successione a titolo particolare anticipata e riguardante soltanto l’azienda o le partecipazioni sociali, regolata contrattualmente.

Se la natura giuridica dell’istituto è tuttora controversa, nessuno tuttavia dubita circa la sua funzione e utilità nel senso sopra esposto.

Va da sé, quindi, che l’obbligo da parte dell’assegnatario di liquidare la quota spettante ai legittimari non assegnatari è parte integrante del patto stesso, trattandosi di un’operazione unitaria destinata, come ribadito dalla sentenza della Cassazione del 2020, alle finalità di regolare l’intera vicenda successoria dell’imprenditore.

È chiaro, infatti, che nel rispetto del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della nostra Costituzione, dovendosi trattare in modo uguale le situazioni uguali, la valutazione tributaria nella fattispecie del legittimario non assegnatario non può essere diversa da quella del legittimario assegnatario, per il solo fatto che la liquidazione sia eseguita dal beneficiario del trasferimento con denaro o beni propri.

Partendo da tale assunto, non si può in alcun modo ravvisare nella liquidazione da parte dell’assegnatario agli altri legittimari una donazione del primo nei confronti dei secondi. Il dato letterale parla appunto di “dovere”, di un obbligo a carico del primo nei confronti dei secondi, che nulla ha a che vedere con lo spirito di liberalità che caratterizza imprescindibilmente l’intento donativo.

Già nel 2007 con lo Studio n. 43 il CNN si esprimeva nel senso che, ai fini dell’applicazione della corretta imposta, deve prendersi a riferimento in ogni caso il rapporto di parentela in linea retta o di coniugio (con applicazione della relativa franchigia legale) intercorrente tra il disponente da un lato e i legittimari non beneficiari del bene produttivo dall’altro, e non già (laddove la ‘liquidazione’ avvenga per il tramite del discendente beneficiario) del rapporto (di regola di parentela in linea collaterale) intercorrente tra questi e quei legittimari.

In tal modo si può favorevolmente commentare la presa di posizione della Cassazione in sede tributaria, proprio sulla base della considerazione che assimila il riferimento dell’assegnatario ed altri partecipanti al patto a quella di un “modus” od onere donativo, sia pure di fonte legale, considerando perciò l’attribuzione effettuata dal discendente quale liberalità “indiretta” del disponente a favore dei legittimari non assegnatari e quindi con conseguente applicazione dell’imposta di donazione con le franchigie previste fra parenti in linea retta[7].

Qualora al contrario si aderisse alla interpretazione sul punto fornita più volte dall’Agenzia delle Entrate, si avrebbe come risultato un ancor più scarso utilizzo del patto di famiglia per il suo elevato costo fiscale, così vanificando, di fatto, la Raccomandazione della Commissione CE del 7 dicembre 1994 (.PDF), con la quale si sollecitavano gli Stati membri a rendere più razionali ed efficienti le norme successorie che regolano il trasferimento delle imprese di piccole e medie dimensioni alla morte dell’imprenditore.

Si ripropone, nella fattispecie di cui trattasi, la questione di fondo in ordine al rapporto fra il diritto civile (“rectius“, comune) e il diritto tributario (ovvero il tema dell’autonomia del diritto tributario rispetto alle altre branche dell’ordinamento)[8][9]; nel merito, è evidente che l’interpretazione dell’istituto del patto di famiglia da parte della Cassazione Tributaria del 2020 è in contrasto con i documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate.

Se la funzione impositiva si configura come un dovere inderogabile di solidarietà economica e sociale, previsto dall’articolo 2 della Costituzione, si rende ove tuttavia necessaria una diversa considerazione della situazione passiva di soggezione del contribuente.

Questi non dovrebbe più essere titolare di una mera soggezione, in quanto destinatario di una pretesa impositiva autoritaria, ma soggetto passivo di una funzione sempre impositiva che però acquista rango costituzionale solo nella misura in cui realizzi l’equo riparto del carico fiscale.

A tale proposito, si ricorda la pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite n. 13.378 dell’anno 2016 (.PDF), la quale ha stabilito che il contribuente possa sempre opporsi, in sede contenziosa, alla maggiore pretesa tributaria allegando l’errore di fatto e di diritto commesso, incidente sull’obbligazione tributaria.

In tale ottica, è necessaria una rivalutazione del ruolo della volontà del contribuente non più solo contenuta in una disposizione negoziale, ma manifestata con una dichiarazione (priva di efficacia negoziale) e in funzione di semplificazione, rapidità e di maggiore certezza nella realizzazione dell’entrata tributaria.

Nel caso che ci occupa, per l’appunto, lo stesso Notaio rogante, nell’atto ricevuto, inseriva la clausola di natura tributaria si seguito riportata: “con riferimento alla liquidazione delle somme compensative delle quote di legittima dagli assegnatari, è applicabile il disposto dell’art. 58, comma 1, del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, intendendosi tale liquidazione, ai soli fini impositivi, donazione dei disponenti in favore dei legittimari non assegnatari, con conseguente determinazione dell’aliquota e della franchigia previste con riferimento al corrispondente rapporto di parentela; il tutto come espressamente sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 29506 del 24 dicembre 2020.”, cercando in tal modo di chiarire la situazione di fatto e quindi di prevenire un qualsiasi intervento incongruo da parte dell’Agenzia delle Entrate.

Prendendo in considerazione tali dichiarazioni “non negoziali” e utilizzando questo concetto, potrebbe essere possibile conciliare, con minore preoccupazione per il contribuente e maggiore semplicità per tutti gli operatori del diritto, il principio di indisponibilità e il ruolo stesso del contribuente, dando veste sistematica ai dubbi interpretativi legati alle varie forme negoziali di determinazione del carico fiscale.

Di tali ultime considerazioni si è fatto carico il Notaio rogante mediante l’inserimento della clausola di natura tributaria sopra riportata. E ciò per consentire all’Agenzia proprio quel riscontro con la giurisprudenza della Corte Suprema, che la stessa evidentemente non conosce o non ha intenzione di valutare all’interno della motivazione dell’avviso di liquidazione.

Alla luce di quanto sopra esposto è indubbiamente auspicabile da parte dell’Agenzia delle Entrate un intervento che possa adeguare la propria operatività alla reale natura giuridica del patto di famiglia e alla più recente pronuncia della Corte di Cassazione.

Note

[1] Dello stesso avviso Circ. 3/E/2008, par. 8.3.2, Agenzia delle Entrate (PDF).

[2] Cfr. A. Fedele, Ord. n. 32823/2018, Brevi note, in Rivista telematica di diritto tributario, 2018; La cassazione e il “patto di famiglia”, in Riv. Dir. Trib., 22 gennaio 2019.

[3] Per approfondire sul punto, M. Peta, in Notariato, Rassegna bimestrale sistematica di diritto e tecniche contrattuali, 2/2021, pagg. 219 ss.

[4] Si veda a riguardo il Quesito Tributario n. 46-2016/T.

[5] Ex multis P. Puri, Prime riflessioni sul trattamento fiscale del patto di famiglia, in Diritto e pratica tributaria, 2008, 603.

[6] Sul punto A. Fedele, La Cassazione aggiusta il tiro sul regime fiscale del patto di famiglia, in Rivista telematica di diritto tributario, 31 dicembre 2020.

[7] Cfr. CNN, Studio 36-2011/T, Profili fiscali del passaggio generazionale d’impresa (.PDF), 16: “non si può considerata come tale tipizzazione [del patto di famiglia in quanto contratto] non sia stata accompagnata da una specifica regolamentazione di diritto tributario, ciò che ha comportato una inevitabile incertezza applicativa, con un notevole effetto disincentivante rispetto alla concreta adozione dello strumento”.

[8] Si veda “La disciplina dell’obbligazione tributaria in raffronto alla disciplina delle obbligazioni di diritto privato”, testo della relazione tenuta al Corso “Il giudice civile ed il giudice tributario: fattispecie comuni e profili differenziali” (in collaborazione con il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria), Scuola Superiore della Magistratura, Corte di Cassazione, Aula Magna, 20 novembre 2018.

[9] Si veda “Diritto civile e diritto tributario. Verso una progressiva autonomia” su Contratto e impresa, Dialoghi con la giurisprudenza civile e commerciale, Volume 3/2019.

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Nessuna imposta di successione a carico del curatore dell’eredità giacente

Ven, 02/23/2024 - 08:30

Il presente contributo, prendendo spunto da alcune recenti sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia (Sentenza n. 1626/2023 del 15 febbraio 2023 e Sentenza n. 2867-1 del 27 settembre 2023), si propone di esaminare alcuni profili controversi della disciplina tributaria/fiscale della curatela dell’eredità giacente, con particolare riguardo all’imposta di successione, occupandosi, poi, incidentalmente anche dei profili civilistici di tale istituto.

Il fatto

L’Agenzia delle Entrate di Milano notifica al curatore di un’eredità giacente un avviso di liquidazione dell’imposta di successione, ritenendolo obbligato al pagamento dell’imposta liquidata.

Il curatore presenta ricorso contro l’atto notificato e la Commissione tributaria provinciale di Milano con sentenza del 2 marzo 2022 accoglie il ricorso, riconoscendo che il Curatore non sia tenuto al pagamento dell’imposta di successione, non rientrando, giusto quanto disposto dall’art. 36 del T.U.S., nel novero dei soggetti obbligati al pagamento della predetta imposta, in quanto non nel possesso dei beni ereditari ma esclusivamente nella detenzione degli stessi.

L’Agenzia delle Entrate propone gravame alla pronuncia di primo grado, lamentando l’erroneità del primo deciso per violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 28 e 36, comma 3 del D. Lgs. n. 346/90, richiamando, altresì, una risalente sentenza della Suprema Corte (Cassaz. n. 16428 del 15 luglio 2009), ove era stato ritenuto legittimo l’atto notificato in quanto il curatore dell’eredità giacente era soggetto “obbligato alla presentazione della dichiarazione di successione ai fini della relativa imposta, ex art. 38 T.U.S., nonché, nei limiti del valore dei beni ereditari dei quali era in possesso, al pagamento del tributo“.

Il Curatore dell’eredità giacente, debitamente autorizzato dal giudice, si costituisce in giudizio per vedere respinto l’appello dell’Ufficio, ritenendolo infondato e adducendo a proprio favore le seguenti argomentazioni:

  1. il Curatore dell’eredità giacente non ha il possesso dei beni ereditari in quanto svolge unicamente un’attività di amministrazione del patrimonio ereditario, sulla base dell’incarico ricevuto dal Tribunale e sotto il diretto controllo di quest’ultimo; e per l’effetto, non ha il possesso sui beni ereditari, non potendo disporne a piacimento come fosse il proprietario, potendosi se del caso ravvisare in capo al medesimo la mera detenzione sugli stessi;
  2. in vigenza della giacenza dell’eredità non si assiste ad alcun trasferimento di diritti sui beni amministrati alla curatela né quest’ultima può in alcun modo assurgersi al rango di erede;
  3. gli artt. 28 e 36 del T.U.S. dispongono l’obbligo della sola presentazione della dichiarazione di successione e la responsabilità delle imposte nel solo limite dei “beni posseduti“; con la conseguenza che, non essendovi possesso, vi è per il Curatore solo un obbligo dichiarativo.

Il Collegio di secondo grado con la pronuncia n. 1626 del 15 febbraio 2023, sopra citata, conferma la sentenza appellata, considerandola incensurabile e scevra da errori nonché perfettamente aderente all’istituto giuridico dell’eredità giacente; statuendo espressamente che il Curatore, sebbene obbligato alla presentazione della dichiarazione di successione, non sia soggetto tenuto al pagamento delle imposte a essa connesse.

Il Collegio si discosta, così, definitivamente dalla risposta a interpello dell’Agenzia delle Entrate n. 587/21 del 15 settembre 2021, più volte richiamata dalla medesima Agenzia  nel corso del giudizio, in quanto l’Ufficio con “una interpretazione a solo suo beneficio, pretende di richiedere il pagamento delle imposte di successione, ipotecarie e catastali al curatore dell’eredità giacente, ignorando la natura giuridica dell’istituto civilistico”.

In tal senso si è pronunciata anche la Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia con la sentenza n. 2867-1 del 27 settembre 2023, statuendo che a carico della curatela non può pretendersi alcuna imposta a nessun titolo in particolare quando l’asse ereditario sia devoluto allo Stato e di valore negativo.

Anche alla luce dei precedenti di merito della stessa Commissione tributaria provinciale di Milano, di cui alle sentenze n. 1632/2021, n. 945/2021, n. 604/2022 e n. 725/2022 e a quello della Commissione tributaria provinciale di Torino, di cui alla sentenza n. 545/2020, e in particolare della prevalente giurisprudenza di merito della Lombardia (CGT II grado Lombardia, sez. 22, n.4078/2022; CTG I grado Milano, sez. 5, n.2973/2022; CTG I grado Milano, sez. 20, n.3594/2022; CGT II grado Lombardia, sez.6, n.1626/2023;  CGT I Milano 2973/2022), tra cui ricorderei da ultimo la sentenza n. 112/1/2023 della Commissione tributaria provinciale di Lecco (Presidente e relatore Dott. Catalano), sarebbe auspicabile che l’Agenzia delle Entrate rivedesse il proprio orientamento espresso con la risposta all’interpello n. 587 del 2021 e, discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale di legittimità, di cui alla sentenza n. 16428 del 2009, sopra citata, disattendesse definitivamente la tesi ivi sostenuta, escludendo “tout court” l’obbligo di versamento dell’imposta di successione in capo al Curatore dell’eredità giacente, in quanto diversamente si finirebbe col travisare quanto previsto dallo stesso Legislatore sia in materia di capacità contributiva, con particolare riguardo all’imposta di successione, sia in materia civilistica, con riguardo all’istituto del possesso.

Può affermarsi che l’accoglimento della tesi dell’Agenzia delle Entrate generi, sul piano pratico, evidenti distorsioni, difficilmente conciliabili con la ratio stessa dell’istituto della curatela.

Anche il dato letterale delle norme depone a favore di tale assunto: infatti, l’Art. 28 del T.U.S. elenca tra i soggetti obbligati alla presentazione della dichiarazione di successione i curatori dell’eredità giacente, mentre l’Art. 36 non ricomprende tra i soggetti tenuti al versamento dell’imposta di successione il Curatore, con la conseguenza che può ragionevolmente affermarsi che, se il Legislatore avesse inteso onerare i curatori anche di tale obbligo contributivo, l’avrebbe fatto espressamente.

Dall’esame dell’Art. 1  del T.U.S., secondo il quale l’imposta di successione è un prelievo che si applica “ai trasferimenti di beni e diritti per successione per causa di morte“,  e dell’Art. 5 del T.U.S., secondo il quale l’imposta di successione è dovuta “dagli eredi e dai legatari“, può desumersi che secondo il Legislatore il presupposto del tributo altro non è che l’incremento patrimoniale conseguito dall’erede e/o dal legatario, che assolutamente manca nella curatela di eredità giacente, dove tra la data di apertura della successione e quella dell’effettiva trasmissione ereditaria, non si verifica nessun tipo di arricchimento dei chiamati né il trasferimento dell’eredità nella sfera giuridica/patrimoniale del Curatore.

Concludendo, può pertanto affermarsi che, se tra i principali obblighi di natura fiscale imposti dalla legge al Curatore dell’eredità giacente, vi sia senza dubbio quello della compilazione e successiva trasmissione della dichiarazione di successione, adempimento indispensabile per una corretta amministrazione del patrimonio ereditario da parte del Curatore, consentendogli di accedere ai conti correnti del defunto e, in generale, di sbloccare i valori detenuti presso le banche, sicuramente non può ricomprendersi quello del pagamento dell’imposta di successione (“pur se nei limiti del valore dei beni ereditari posseduti“, come sostenuto dall’Amministrazione Finanziaria), in quanto, diversamente, il Curatore sarebbe tenuto a rispondere di persona, anche anticipando il pagamento dell’imposta con proprie risorse e “in incertam personam“, ove il patrimonio ereditario risultasse privo di liquidità corrente, in quanto magari in prevalenza immobilizzato o investito in titoli oppure fosse costituito da soli beni immobili.

Se si seguisse la tesi dell’Amministrazione finanziaria, con molta probabilità più nessuno accetterebbe l’ufficio di curatore di eredità giacente, soprattutto se si considera che l’imposta di successione applicata è dell’8% (la Curatela viene infatti considerata soggetto “estraneo”).

Per completezza si ricorda che secondo l’Agenzia delle Entrate il Curatore dell’eredità giacente, quando presenta una denuncia di successione con immobili, deve corrispondere, in autoliquidazione, anche le imposte ipotecarie e catastali, l’imposta di bollo, la tassa ipotecaria e i tributi speciali e ciò, in ossequio a quanto previsto dall’Art. 5 2° comma T.U.S. secondo cui la trascrizione della denuncia di successione deve comunque essere effettuata a seguito della sua presentazione, benché tale trascrizione abbia effetti esclusivamente fiscali (“La trascrizione del certificato è richiesta ai soli effetti stabiliti dal presente testo unico e non costituisce trascrizione degli acquisti a causa di morte degli immobili e dei diritti reali immobiliari compresi nella successione”) e a quanto previsto dall’Art. 76 del Regolamento 8 dicembre 1938, n. 2153 “Voltura in caso di eredità giacente” secondo cui “Verificandosi il caso di un’eredità giacente, deve essere chiesta la voltura ed eseguirsi in catasto il trasporto dei beni dal nome del defunto alla eredità giacente, con l’indicazione del cognome, nome e paternità dell’amministratore legale […] ma se poi i beni vengono devoluti a eredi che siano successivamente scoperti, la voltura deve essere fatta senza pagamento di ulteriori diritti catastali”

Sulla base delle richiamate disposizioni sussiste, dunque, in capo al Curatore dell’eredità giacente anche l’obbligo di volturare gli immobili compresi nell’attivo ereditario con intestazione catastale in capo alla procedura (“Eredità giacente di ___ “) e indicazione di sede e codice fiscale della procedura stessa (.PDF), con conseguente corresponsione, in relazione a detta formalità, della relativa imposta catastale, nella misura proporzionale prevista dall’art. 10, comma 1, del D. Lgs. n. 347 del 1990.

Anche qui si potrebbe replicare,  per coerenza di sistema e in ossequio a quanto recentemente statuito dalla giurisprudenza tributaria di merito in tema di imposta di successione, che è onere del Curatore adempiere agli obblighi dichiarativi e a quelli, sempre dichiarativi, del sostituto di imposta previsti dalla legge (si pensi alle imposte dirette), ma che sullo stesso non dovrebbero gravare, oltre all’imposta di successione, neanche le imposte ipotecarie e catastali, in quanto altrimenti, ancora una volta, verrebbe ignorata la natura giuridica dell’istituto civilistico della curatela dell’eredità giacente.

Il Curatore dell’eredità giacente è tenuto a presentare la dichiarazione di successione entro dodici mesi dal giorno in cui ha avuto notizia legale della sua nomina (in luogo dei dodici mesi dalla data di apertura della successione).

Il pagamento dei tributi dovuti per le volture, in presenza di successione con immobili, deve essere effettuato dal Curatore, non all’atto della presentazione della dichiarazione di successione (telematica), ma al momento della presentazione della relativa domanda di voltura direttamente agli uffici che eseguono tali adempimenti (come accade quando nella denuncia di successione si esclude la voltura automatica, barrando la relativa casella del frontespizio della denuncia).

Con riguardo alla modalità di compilazione della denuncia di successione si segnala che sulla base dei modelli di istruzioni fornite dall’Amministrazione finanziaria:

  • Nel frontespizio, Parte riservata a chi presenta il modello, si deve indicare il Codice fiscale del Curatore e quale Codice Carica il n. 5 (curatela di eredità giacente) nonché quale Termine di decorrenza per la presentazione della denuncia di successione quello della notifica della nomina di curatore;
  • Nel Quadro EA (Eredi, legatari e altri soggetti) si deve indicare il Codice fiscale della procedura della Curatela di eredità giacente, quale Denominazione: Curatela di eredità giacente di ______, quale Tipo soggetto il n. 6 (altro) e quale Grado parentela il n. 35 (estraneo).

La denuncia di successione (.PDF) verrà poi trascritta contro il “de cuius” e a favore della “Curatela di ____________“.

Si segnala che con Decreto Interministeriale del 22 giugno 2022 n. 128 del Ministero dell’Economia e delle Finanze è stata dettata una disciplina ad hoc per l’acquisizione, anche mediante sistemi telematici, dei dati e delle informazioni rilevanti al fine di individuare i beni ereditari vacanti nel territorio dello Stato. In base a detta disciplina, i Curatori dell’eredità giacente e le Cancellerie del Tribunale devono effettuare una serie di comunicazioni all’Agenzia del Demanio.

Al Curatore, in particolare, viene richiesto di trasmettere entro sei mesi dalla nomina un elenco provvisorio dei beni ereditari, per la cui veridicità e completezza deve effettuare dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, contenente altresì dichiarazione di aver provveduto a effettuare la ricerca prevista dall’Art. 155-sexies Disp. Att. c.p.c. (ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare).

Da ultimo, a completamento degli obblighi di natura fiscale imposti al Curatore dell’eredità giacente, si segnalano, sul fronte delle imposte dirette, due norme di particolare interesse.

Art. 187 del T.U.I.R.

Prevede due distinte fasi di tassazione dell’eredità giacente:

  • • una prima, a titolo provvisorio, nel caso in cui la giacenza prosegua oltre l’esercizio di apertura della successione (“Se la giacenza dell’eredità si protrae oltre il periodo di imposta nel corso del quale si è aperta la successione, il reddito dei cespiti è determinato in via provvisoria” secondo le regole proprie dell’Irpef o dell’Ires, a seconda della qualifica del chiamato all’eredità);
  • • una seconda, che assume carattere definitivo, quando si ha l’accettazione dell’eredità da parte dell’erede (“Dopo l’accettazione dell’eredità il reddito di tali cespiti concorre a formare il reddito complessivo dell’erede per ciascun periodo di imposta, compreso quello in cui si è aperta la successione, e si procede alla liquidazione definitiva delle relative imposte“).

Il Legislatore ha così voluto, da un lato, assicurare le esigenze di gettito, evitando la sospensione della tassazione per l’intervento della giacenza, e dall’altro attuare il prelievo solamente in capo agli eredi effettivi.

Il Curatore in tale sede provvede al pagamento degli eventuali debiti scaturenti dalle dichiarazioni dei redditi presentate, previa autorizzazione da parte del tribunale e salvo opposizione da parte dei creditori o legatari, utilizzando alternativamente eventuali giacenze liquide o quanto derivato a seguito di dismissione di beni mobili e/o immobili, sempre nel limite del valore dell’eredità.

Art. 5-ter del D.P.R. n. 322/1998 

Stabilisce le competenze in merito agli adempimenti formali relativi all’eredità giacente, stabilendo che il Curatore sia tenuto:

  • alla presentazione, nei termini ordinari, delle dichiarazioni dei redditi di cui all’art. 187 del T.U.I.R., relative al periodo d’imposta in cui ha assunto le funzioni e ai periodi d’imposta successivi, fino al periodo d’imposta anteriore a quello in cui cessa la curatela;
  • alla presentazione, entro sei mesi dalla data di assunzione delle funzioni, della dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel quale si è aperta la successione, se anteriore a quello in cui ha assunto le funzioni, nonché delle dichiarazioni dei redditi relative agli altri periodi d’imposta già decorsi anteriormente a quest’ultimo;
  • alla presentazione, entro sei mesi dalla data di assunzione delle funzioni, della dichiarazione dei redditi posseduti dal defunto nell’ultimo periodo d’imposta e, se il relativo termine non era ancora scaduto alla data del decesso, quella dei redditi posseduti nel periodo d’imposta precedente, sempre con dichiarazione dei redditi a nome del “de cuius” perché, come precisato dalla stessa Agenzia delle entrate, il Curatore di eredità giacente, operando nella veste di rappresentante “in incertam personam” e curando la gestione del patrimonio per conto di un soggetto non ancora individuato, non assume “un’autonoma soggettività tributaria“.
Nozione – ratio – natura giuridica – compiti

Il curatore dell’eredità giacente è colui che, in attesa dell’accettazione dell’eredità da parte dei chiamati (se esistenti) o della devoluzione del patrimonio ereditario allo Stato, in presenza dei presupposti di cui all’art. 528 c.c. (assenza di accettazione di eredità e del possesso dei beni ereditari da parte dei chiamati) viene nominato dal Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, su istanza di qualsiasi interessato (spesso si tratta di creditori del defunto) o d’ufficio, al fine di custodire e amministrare il patrimonio ereditario (quale che sia il valore economico e anche se si tratti soltanto di debiti) rimasto di fatto temporaneamente privo di un titolare e, comunque, allo scopo di evitarne la dispersione dei beni e consentire ai terzi di poter esercitare i propri diritti (spesso, di credito) nei confronti dell’eredità.

Il curatore non può essere considerato né un rappresentante legale né un sostituto del chiamato all’eredità. Da un lato, infatti, il curatore non è un rappresentante dei chiamati all’eredità, né del futuro erede, né del defunto né dei creditori di questi, né dello Stato, in quanto agisce in nome proprio, benché non per un proprio interesse; dall’altro lato, non è un sostituto del chiamato all’eredità, in quanto non agisce nell’interesse del medesimo.

Il curatore è, semplicemente, il titolare di un ufficio di diritto privato non rappresentativo (secondo la teoria preferibile), che esercita una funzione (ossia un potere conferitogli dalla legge a tutela di un interesse pubblico o, comunque, per un interesse altrui o alieno), consistente nell’amministrare una massa patrimoniale oggettivamente intesa e priva di soggettività giuridica.

Trattasi di ufficio a costituzione dativa in quanto la giacenza dell’eredità non si verifica “ipso iure” allorché vi sia un chiamato non in possesso di beni ereditari, ma sorge solo per effetto del provvedimento di nomina del curatore dell’eredità giacente, che ha carattere costitutivo della giacenza, iniziando questa solo dalla data in cui esso è efficace, e a investitura dativa in quanto sorge solo per effetto della nomina del curatore a seguito del provvedimento del Giudice.

Il provvedimento in questione fa venire meno il potere del chiamato di amministrare l’eredità, che gli è devoluta mediante l’esercizio di azioni possessorie o atti conservativi ai sensi dell’Art. 460, comma 3, c.c.

Inoltre, la giacenza impedisce l’iscrizione di ipoteche giudiziali sui beni ereditari, anche in base a sentenze rese prima della morte del debitore (art. 2830 c.c.). Ciò, evidentemente, al fine di evitare una violazione della “par condicio” tra i creditori ereditari.

La curatela è un ufficio a insediamento volontario perché presuppone l’accettazione da parte del Curatore, che è libero di accettare o rifiutare, e la prestazione del giuramento.

Il provvedimento di nomina deve essere notificato alla persona nominata e, divenuto definitivo, a cura del cancelliere deve essere pubblicato per estratto sul Foglio Annunci Legali della Provincia e iscritto nel Registro delle successioni presso la cancelleria del Tribunale.

Il Curatore, per essere immesso nell’esercizio delle sue funzioni, deve prestare giuramento di bene e fedelmente adempiere al proprio ufficio avanti al Tribunale (in composizione monocratica) e deve procedere immediatamente e nel più breve tempo possibile, ai sensi dell’Art. 529 c.c., all’inventario dell’eredità.

L’inventario può essere redatto o dal cancelliere del Tribunale nel cui circondario si è aperta la successione o da un notaio.

Il curatore può compiere tutti gli atti di conservazione materiale e giuridica del patrimonio ereditario, che l’Art. 460 c.c. consente al chiamato e, in genere, ogni atto di ordinaria amministrazione senza dover chiedere alcuna autorizzazione. Per gli atti di straordinaria amministrazione occorre, invece, l’autorizzazione del Tribunale (in composizione collegiale), pena l’inefficacia degli stessi. L’autorizzazione del Tribunale è necessaria anche per il pagamento dei debiti ereditari e dei legati.

A seguito delle modifiche introdotte dall’art. 21 del D.lgs. 149/2022, l’autorizzazione per il compimento di un atto di straordinaria amministrazione (per es. vendita di un immobile) può oggi essere richiesta dal Curatore, in alternativa rispetto all’autorità giudiziaria, anche al notaio rogante, avendo costui per tutti gli atti pubblici e le scritture private autenticate che abbiano a oggetto beni ereditari una competenza concorrente e alternativa a quella giudiziale.

In caso di compravendita di immobile nell’ambito di procedura di Curatela di eredità giacente, la trascrizione dell’atto verrà effettuata contro il “de cuius” e a favore dell’acquirente e quindi non contro la Curatela benché la denuncia di successione sia stata trascritta a favore della Curatela dell’eredità giacente (.PDF).

Il Curatore è tenuto a depositare presso le casse postali o presso un istituto di credito designato dal Tribunale il danaro che si trova nell’eredità o quello che si ritrae dalla vendita dei beni mobili o immobili; deve sempre rendere conto della propria amministrazione.

Il Curatore possiede la legittimazione processuale, sia attiva che passiva, in tutte le cause che concernono l’eredità ed è tenuto alla liquidazione del patrimonio ereditario, normalmente mediante il soddisfacimento individuale dei creditori e legatari, a seguito di loro specifica richiesta, con pagamenti a misura che si presentano, previa sempre l’autorizzazione del Tribunale oppure mediante liquidazione concorsuale, qualora ne venga fatta richiesta dai creditori o legatari, oppure il Tribunale, non autorizzando pagamenti individuali, disponga in tal senso.

Ai sensi dell’art. 532, infine, il Curatore cessa dalle proprie funzioni quando l’eredità viene accettata.

È stato sostenuto che all’accettazione dell’eredità è da equipararsi l’accettazione della carica da parte dell’esecutore testamentario in quanto l’amministrazione dell’esecutore prevarrebbe su quella del Curatore.

In contrario è stato sostenuto che il Curatore resterebbe in carica, sebbene la sua attività amministrativa sia sospesa, sia per controllare l’operato dell’esecutore sia per riprendere le sue funzioni qualora, cessato dall’incarico l’esecutore, i chiamati non avessero ancora accettato l’eredità.

Secondo la migliore Dottrina la cessazione della curatela opera di diritto e senza la necessità di alcun espresso provvedimento giudiziale.

La cessazione della procedura di eredità giacente può aversi anche quando, in assenza di successibili o in presenza di chiamati non accettanti, sia trascorso il termine decennale dalla data di apertura della successione oppure vi sia la rinunzia all’eredità da parte di tutti i chiamati: in queste ipotesi, il Curatore dovrà fare istanza al Tribunale affinché sia dichiarata l’estinzione della procedura e il patrimonio caduto in successione sia devoluto allo Stato.

La curatela cessa anche se viene revocata la nomina del Curatore qualora venga a mancare uno dei presupposti della giacenza stessa o qualora, conclusasi la liquidazione individuale o concorsuale, si sia esaurito tutto l’attivo ereditario.

La cessazione del Curatore (per dimissioni, sostituzione, morte, incapacità) non determina la cessazione della situazione di giacenza dell’eredità, dovendosi solo procedere alla sostituzione del curatore. Viceversa, la fine della giacenza fa cessare il Curatore dalla sue funzioni.

Questione da sempre dibattuta, che non ha trovato soluzioni unanimi e concordi né in dottrina né in giurisprudenza, posto che il legislatore non ha esplicitamente previsto la fattispecie, è quella se sia configurabile l’istituto dell’eredità giacente pro quota o giacenza parziale, che si verifica quando alcuni dei chiamati si trovano nel possesso dei beni ereditari o hanno accettato l’eredità e sono divenuti eredi mentre altri no.

Prevale al riguardo nella giurisprudenza maggioritaria l’opinione negativa (si veda da ultimo Cassaz. 22 febbraio 2001 n. 2611) benché in Dottrina vi siano posizioni possibiliste.

Nessuna imposta di successione a carico del curatore dell’eredità giacente ultima modifica: 2024-02-23T08:30:00+01:00 da Daniela Riva

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Niente imposta di registro per caparre e/o acconti in preliminari soggetti a IVA

Ven, 02/16/2024 - 08:30

Segnaliamo due recenti sentenze emesse dalla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Pesaro (le prime in materia di preliminari in ambito IVA, a quanto consta), che accolgono appieno quanto sostenuto in questa rivista, nell’articolo del 6 luglio 2022 (“La tassazione di caparre confirmatorie e acconti nei trasferimenti onerosi esenti o agevolati“) al quale si rinvia.

Nel caso oggetto della sentenza n. 60/2024, una società prometteva di vendere ad altra società un immobile strumentale ex art. 10, comma 1, n. 8 ter) del D.P.R. n. 633/1972, convenendo le parti che, al definitivo atto di vendita, la venditrice non avrebbe optato per l’assoggettamento a IVA della cessione.

Dal preliminare risultava che la promissaria acquirente 1) aveva versato una somma a titolo di caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c. e acconto prezzo e 2) si impegnava a versare altra somma a titolo di acconto (esente da IVA) entro una certa data (antecedente alla stipula del definitivo atto di compravendita).

In sede di registrazione, il notaio versava soltanto l’imposta di registro di euro 200,00, mentre nulla versava a titolo di imposta di registro per la caparra e gli acconti, ritenendo che niente fosse dovuto perché il definitivo atto di compravendita era destinato a scontare imposta fissa (art. 40 del DPR n. 131/1986).

L’Agenzia delle Entrate recuperava l’imposta dello 0,50% per la somma versata a titolo di caparra e acconto e il 3% per la somma promessa a titolo di acconto (si noti, anche se si trattava di acconto IVA, seppur esente).

Il notaio presentava ricorso.

La sentenza n. 62/2024 esamina invece il caso di un preliminare di vendita di immobile da costruire ex D.Lgs. n. 122/2005, con vendita destinata ad essere assoggettata a IVA ex art. 10, comma 1, n. 8 bis) del D.P.R. n. 633/1972.

Da questo preliminare risultava che il promissario acquirente 1) aveva versato una somma a titolo di caparra confirmatoria ex art. 1385 c.c. e 2) si impegnava a versare altra somma a titolo di acconto, oltre IVA, entro una certa data (antecedente alla stipula del definitivo atto di compravendita).

In sede di registrazione, il notaio versava soltanto l’imposta di registro di euro 200,00. Anche qui non versava alcunché a titolo di imposta di registro per la caparra e gli acconti, ritenendo che niente fosse dovuto, ancora una volta perché il definitivo atto di compravendita era destinato a scontare imposta fissa (art. 40 del DPR n. 131/1986).

L’Agenzia delle Entrate recuperava l’imposta dello 0,50% per la somma versta a titolo di caparra ed euro 200 per la somma promessa a titolo di acconto, soggetto a IVA.

Il notaio impugnava anche questo avviso.

Entrambi i ricorsi sono stati accolti.

Inizia dunque a farsi strada presso i giudici tributari il principio per il quale, in caso di preliminari di compravendite (che saranno) assoggettate a IVA (seppur esenti ex art. 10 comma 1 n. 8 -ter cit.) – e, in generale, per i preliminari di atti destinati a scontare imposta di registro in misura fissa (cfr. Cass.  n. 35396/2022 e n. 35390/2022, entrambe per caparre versate in relazione a preliminari di vendita di immobili situati all’estero, e Cass. 17904/2021, per acconti versati in relazione a preliminare di cessione di quote sociali) o a non scontare affatto imposta -, la richiesta erariale di assoggettare a tassazione le somme versate a titolo caparre e/o acconti, al momento della registrazione del contratto preliminare, è priva di fondamento.

Si ricorda, comunque, che, come pure esposto nel predetto articolo, anche chi sostiene la tesi contraria conclude per il recupero dell’imposta eventualmente versata, a seguito della stipula del contratto definitivo (con istanza di rimborso, evidenziando, però, che attualmente l’Agenzia delle Entrate, consente anche il recupero, al momento della registrazione del definitivo, mediante imputazione all’imposta fissa di registro, di euro 200,00, ove dovuta). E in caso di mancata stipula del definitivo? Nel ripetuto articolo del 6 luglio 2022 si sostiene che il promissario acquirente possa richiedere il rimborso di quanto indebitamente versato.

Ormai consolidato può dirsi l’orientamento, ribadito in entrambe le sentenze, per il quale i documenti di prassi sono di per sé irrilevanti per la decisione delle controversie.

Vale, infine, evidenziare che, in entrambi i casi, i giudici hanno condannato l’Agenzia a rifondere le spese di lite.

Niente imposta di registro per caparre e/o acconti in preliminari soggetti a IVA ultima modifica: 2024-02-16T08:30:00+01:00 da Redazione Federnotizie

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Conclusione, pubblicità ed esecuzione degli accordi di conciliazione

Ven, 02/09/2024 - 08:30
a cura di Massimo Saraceno [1]

Sommario: 1. La conclusione dell’accordo di conciliazione e sua opportuna contestualità rispetto all’atto notarile necessario a fini pubblicitari – 2. Natura giuridica dell’accordo di conciliazione – 3. Il problema dell’accertamento di patologie negoziali in mediazione – 4. Aspetti formali dell’accordo di mediazione – 5. L’accordo di mediazione nella mediazione telematica alla luce dell’art.8 bis del D.Lgs.28/2010 – 6. L’esecuzione dell’accordo di mediazione: cenni.

1. La conclusione dell’accordo di mediazione e sua opportunità contestualità rispetto all’atto notarile necessario a fini pubblicitari

La conclusione dell’accordo di conciliazione, espressione dell’autonomia negoziale generalmente – ma non necessariamente – riconducibile al paradigma negoziale della transazione, costituisce l’epilogo di un percorso spesso lungo e travagliato che si caratterizza per la tendenziale non istantaneità delle reciproche concessioni di cui esso consta.

Si verifica molto spesso che le parti non abbiano chiarito, nel corso della sessione di mediazione in cui è raggiunto l’accordo di massima, tutti i punti dello stesso o, pur avendoli chiariti, non vi sia la possibilità di rivestire nell’immediatezza l’accordo della forma idonea per l’accesso alla pubblicità immobiliare o commerciale (atto pubblico o scrittura privata autenticata). Può utilmente soccorrere, a tal fine, e ciò costituisce una best practice da valorizzare, la tecnica della puntuazione, di particolare significatività nella progressione del percorso conciliativo, che può essere connotato da uno o più pre-accordi finalizzati a porre le basi per potenziali accordi futuri definitivi. Potrà, poi, trattarsi, di puntuazioni vincolanti o non vincolanti, secondo l’insegnamento della sentenza della Cassazione a sezioni unite[2] secondo cui le mere puntuazioni (non vincolanti) sono quelle in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative, mentre la puntuazione diventa vincolante quando, pur mancando l’accordo su tutti i punti essenziali, su alcuni profili l’intesa contrattuale è irrevocabilmente raggiunta, restando da comporre secondo buona fede ulteriori aspetti conflittuali della controversia.

La tecnica della puntuazione (in particolare quando le parti convengano puntuazioni vincolanti) consente al mediatore rinviare le parti all’incontro finale nel quale si chiariranno gli aspetti di dettaglio; lasso di tempo durante il quale i professionisti incaricati – in particolare il notaio – potranno effettuare i necessari controlli per arrivare al detto incontro con la contestuale stipula dell’atto, secondo una delle tecniche redazionali in uso nella prassi, nella forma idonea alla trascrizione nei registri immobiliari o all’iscrizione al registro delle imprese.

Questo iato temporale fra la definizione delle puntuazioni vincolanti e la formalizzazione dell’accordo definitivo sarà colmato con il compimento dell’attività istruttoria necessaria la formazione di un titolo idoneo alla pubblicità, anche sul piano della legittimazione a disporre dell’alienante (ivi compresa l’analisi dei profili relativi al regime patrimoniale coniugale), della rappresentanza, dell’effettuazione dei controlli ipocatastali, nonché del rispetto delle norme fiscali, quali ad esempio la previa presentazione delle dichiarazioni di successione eventualmente omesse e, ovviamente, dell’integrazione dell’accordo con le menzioni urbanistiche, sulla conformità catastale e, ove necessario, con l’allegazione dell’attestato di prestazione energetica. Sotto questo profilo, non può non rilevarsi che l’intervento notarile a valle dell’accordo di mediazione abbia un raggio d’azione complementare e ulteriore rispetto a quello degli avvocati, chiamati a rendere l’attestazione e la certificazione di conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico, come previsto dall’art.12 D.lgs.28/2010, strumentale all’acquisizione della forza di titolo esecutivo dell’accordo, in quanto il filtro di legalità notarile non è solo diretto a confermare la delibazione di non contrarietà dell’accordo a norme imperative o all’ordine pubblico ma è altresì propedeutico all’immissione dell’accordo, sotto ogni profilo giuridicamente rilevante, nei pubblici registri.

La contestualità fra la conclusione dell’accordo definitivo di mediazione e la sua trasfusione in un atto notarile idoneo alla pubblicità è di fondamentale importanza solo che si consideri che la domanda introduttiva di una procedura di mediazione non è, allo stato, trascrivibile e, pertanto, non può escludersi che l’invitato in mala fede, con il quale l’istante abbia raggiunto un accordo in mediazione che abbia ad oggetto diritti reali su beni immobili, alieni a terzi l’immobile (o subisca trascrizioni o iscrizioni pregiudizievoli) nelle more fra la conclusione dell’accordo e il perfezionamento dell’atto notarile idoneo alla pubblicità.

L’intrascrivibilità della domanda di mediazione discende, in primo luogo, dalla circostanza che essa non delimita l’oggetto del futuro accordo, che pertanto potrebbe avere un contenuto affatto diverso, come invece accade nei rapporti fra domanda giudiziale o arbitrale e sentenza o lodo, ma soprattutto dal principio generale secondo il quale l’effetto conservativo della trascrizione della domanda giudiziale presuppone i) che il giudizio si concluda con una sentenza di accoglimento della domanda; ii) che la sentenza di accoglimento sia corrispondente al contenuto della domanda[3].

L’effetto conservativo della trascrizione della domanda giudiziale deve necessariamente saldarsi con la corrispondente sentenza di accoglimento e viene meno nel caso in cui il giudizio si definisca attraverso una composizione convenzionale della controversia, quand’anche venga trascritto un atto negoziale che componga tale controversia mediante il riconoscimento della pretesa dell’attore. 

La trascrizione della domanda giudiziale ex artt.2652 e 2653 c.c., espressione del generale principio chiovendiano secondo il quale la durata del processo non può mai ritorcersi a danno dell’attore che si vede, nel corso del giudizio, accogliere la domanda, svolge una funzione prenotativo-conservativa degli effetti della sentenza di accoglimento della domanda che abbia un contenuto strettamente corrispondente a quest’ultima[4]. Pertanto, tale trascrizione non può mai saldarsi, ed è questo un punto da tenersi nella massima considerazione in relazione ad eventuali accordi di mediazione di contenuto corrispondente a quello della domanda giudiziale trascritta, con un accordo negoziale, sicché il terzo avente causa dall’acquirente in base a un titolo per il quale sia stata trascritta tale domanda giudiziale, relativa a un procedimento poi conclusosi con un accordo (eventualmente a seguito di mediazione), prevarrà sull’alienante[5], e ciò per la semplice ragione che la trascrizione della domanda giudiziale perde i propri effetti se ad essa non faccia seguito una corrispondente sentenza.

La prevalenza dell’alienante in base a titolo risolto (o nullo, rescisso o revocato ex art.2652 c.c.) sugli aventi causa dall’acquirente presuppone in ogni caso la permanenza di un nesso processuale strutturale e funzionale fra la domanda e la successiva sentenza di accoglimento, il quale viene reciso in tutte le ipotesi in cui la controversia venga composta con atto di autonomia privata. A parte la profonda diversità strutturale fra le convenzione e la sentenza, che viene pronunciata all’esito di un giudizio connotato da garanzie di obiettività e di presunzione di conformità al diritto della relativa pronuncia, vi è che l’analogia funzionale fra la convenzione e la sentenza ai fini della risoluzione della controversia non può spingersi a onerare il terzo che contratta con l’acquirente a verificare che il contenuto della convenzione sia esattamente corrispondente a quello della domanda proposta dall’alienante. Senza considerare, inoltre, che ove si ritenesse la convenzione (rectius la sua trascrizione) suscettibile di saldarsi alla domanda giudiziale al fine di determinare la prevalenza dell’attore (alienante) sul terzo avente causa dal convenuto (acquirente), la convenzione fra l’attore e il convenuto potrebbe anche fraudolentemente essere posta in essere, almeno in teoria, per frodare le ragioni del terzo avente causa dal convenuto.

E’ per questo motivo che l’art.5, comma 5, rimasto invariato anche a seguito della riforma Cartabia, lascia impregiudicata per l’istante la possibilità di trascrivere la domanda giudiziale per l’ipotesi in cui, concluso negativamente il procedimento di mediazione, il giudice accolga la domanda.

Quindi la contestualità risolverebbe, o quanto meno attenuerebbe, i problemi della mancanza di alcuna efficacia prenotativa dell’istanza di mediazione e quelli relativi alla perdita dell’efficacia conservativo-prenotativa dell’eventuale trascrizione della domanda giudiziale a seguito dell’accordo di mediazione.

2. Natura giuridica dell’accordo di conciliazione

L’accordo di conciliazione è sempre espressione dell’autonomia negoziale delle parti, anche quando ciò avvenga a seguito dell’accettazione della proposta del mediatore.

A differenza delle procedure eteronome di risoluzione stragiudiziale delle controversie, il tratto dell’eteronomia della decisione è sempre fisiologicamente assente nel procedimento di mediazione, sia nella declinazione della “mediazione facilitativa” che in quella della “mediazione valutativa”, all’esito del quale nel primo caso il mediatore aiuta semplicemente le parti a ricercare i loro interessi attraverso la conclusione di un accordo di conciliazione, trasfuso in un negozio tipico o atipico, il cui contenuto è comunque esplicazione della loro autonomia negoziale, mentre nel secondo le parti recepiscono nel proprio accordo di conciliazione il contenuto della proposta formulata dal mediatore ex art.11 D.Lgs.28/2010.

Nel caso di “mediazione facilitativa” le parti non hanno neanche l’onere di operare all’interno delle pretese e delle posizioni originarie della parte istante (o delle deduzioni della parte invitata), non incontrando quindi il limite del petitum, che invece caratterizza l’attività del giudice e dell’arbitro. Con l’aiuto del mediatore le stesse potranno pienamente esplicare la propria autonomia negoziale attraverso un accordo di conciliazione che incide su rapporti anteriori o futuri, o comunque estranei rispetto alla materia del contendere e, quindi, dar luogo alla particolare figura negoziale della transazione novativa riconducibile al disposto dell’art.1965 comma 2 c.c.

Anche nella mediazione “valutativa” o “aggiudicativa” in cui il mediatore formula la proposta, con un meccanismo apparentemente eteronomo, ora potenziato dal nuovo art. 11 D.lgs.28/2010, come modificato dal D.lgs.149/2022, che consente al mediatore di formulare la proposta anche indipendentemente dalla richiesta delle parti e con l’indicazione di un termine per l’accettazione anche superiore ai sette giorni originariamente previsto, in realtà si rimane sempre nell’ambito di un accordo espressione del potere di autodeterminazione delle parti.

La funzione del mediatore nella “mediazione valutativa” potrebbe essere prima facie ricondotta a quella dell’arbitratore, il quale determina, su incarico delle parti, uno degli elementi del rapporto contrattuale, del quale però le parti devono aver determinato la causa e aver precisato la natura delle prestazioni principali (art. 1349 c.c.). Rimane, peraltro, il fondamentale tratto distintivo costituito dalla circostanza che l’arbitraggio si fonda su rapporti giuridici vertenti su di una controversia economica e non giuridica[6].

L’arbitraggio è, pertanto, incompatibile con lo schema del negozio transattivo, proprio per la ragione testé evidenziata, cioè perché la transazione presuppone una controversia giuridica e non meramente economica, non trattandosi in questo caso di riempire di contenuto economico un accordo già formato[7].

Atteso che le parti sono libere o meno di accettare la proposta del mediatore, salve le conseguenze processuali previste dall’art.13 D.lgs.28/2010, nella formulazione modificata, secondo cui “Quando il provvedimento che definisce  il  giudizio  corrisponde interamente al  contenuto  della  proposta,  il  giudice  esclude  la ripetizione delle spese  sostenute  dalla  parte  vincitrice  che  ha rifiutato  la  proposta,  riferibili  al  periodo   successivo alla formulazione della stessa, e la  condanna  al  rimborso  delle  spese sostenute dalla  parte  soccombente  relative  allo  stesso  periodo, nonché  al  versamento  all’entrata  del  bilancio  dello  Stato  di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo  unificato dovuto”, la conclusione dell’accordo mediazione tramite accettazione della proposta del mediatore è solo una particolare modalità procedimentale di conclusione dell’accordo, in cui la proposta contrattuale non proviene da una delle parti secondo la sequenza tipica di cui agli artt.1326 ss c.c., ma da un terzo e s’indirizza ad entrambe le parti senza che ciò incida sul contenuto del negozio concluso, imputabile in ogni caso alla volontà delle parti[8].

Si è già detto che, nella generalità dei casi, l’accordo di conciliazione è riconducibile al paradigma della transazione caratterizzata dal tratto delle reciproche concessioni.

Né può dirsi che lo stesso presenti una propria tipicità negoziale, in quanto “l’accordo di mediazione non è un tipo contrattuale a se stante, ma solo l’involucro esterno, l’occasione in cui viene concluso il contratto, il quale conserva perciò la tipologia che gli è propria e non si trasforma, solo perché stipulato in sede di mediazione in qualcos’altro, con la sola particolarità che, ai fini della sua trascrizione, è espressamente richiesta l’autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un notaio, ai fini della verifica della conformità del contenuto del contratto alle prescrizioni di legge”[9].

Ad esempio, se la controversia ha ad oggetto lo scioglimento di una comunione ereditaria, è possibile che le parti addivengano a una divisione transattiva[10], cioè alla stipula di un contratto che produce l’effetto dello scioglimento della comunione senza comporre alcuna lite sulla proporzionalità fra la quota di diritto sull’intera massa e le porzioni materiali attribuite a ciascun condividente (salvo conguaglio), soltanto superando in mediazione “amichevolmente” alcune questioni afferenti le operazioni divisionali; negozio divisorio che, per giurisprudenza costante[11], si distingue dalla transazione divisoria[12], avente anch’essa l’effetto di scogliere la comunione senza, peraltro, tener conto di detta proporzionalità con il preciso ed esclusivo fine di dirimere o prevenire controversie insorgenti dallo stato di comunione.

E’ anche possibile che una delle parti in mediazione riconosca integralmente il buon fondamento delle ragioni dell’altra e che, quindi, l’accordo si concluda senza alcuna reciproca concessione per avere una delle parti riconosciuto in capo all’altra: i) un diritto di credito, producendo esclusivamente l’effetto processuale dell’inversione dell’onere della prova di cui all’art.1988 c.c.; ii) il diritto di proprietà o altro diritto reale su un bene immobile per effetto del protrarsi del possesso per tutto il tempo richiesto dalla legge per il perfezionamento dell’usucapione, come ora consentito dall’art.2643 n.12 bis c.c.; iii) il diritto di proprietà o altro diritto reale sulla base sulla base di un titolo pregresso costituente la fonte costitutiva del diritto medesimo.

Sotto questo profilo, per gli accordi che abbiano ad oggetto diritti reali, che pertanto richiedano a valle l’intervento notarile, può affermarsi che il richiamo all’art.2643 c.c. (in particolare, per quel che qui interessa all’art.2643 n.13) contenuto nell’art.11 D.lgs.28/2010 non esaurisca il novero delle fattispecie negoziali suscettibili di perfezionarsi in sede di accordo di mediazione e, quindi, trascrivibili, dovendosi ritenersi esteso a tutti gli atti soggetti a trascrizione o a iscrizione sia nei registri immobiliari che al registro delle imprese[13].

In particolare, è significativa la vicenda giudiziaria conclusasi con una sentenza del Tribunale di Roma in data 4 novembre 2015 RG.12136/2015, con la quale è stato accolto il ricorso presentato da un notaio di Roma avverso la trascrizione con riserva ex art.2674 bis c.c. effettuata dal Conservatore di Roma 2 relativo a un accordo di mediazione con sottoscrizioni autenticate dal notaio ricorrente portante una divisione immobiliare. La riserva era stata giustificata dal Conservatore con il rilievo che il richiamo all’art.2643 c.c. contenuto nell’art.11 comma 3 D.lgs.28/2010 doveva intendersi come tassativo e che, pertanto, non potendo l’accordo concluso in sede di mediazione avente quale effetto lo scioglimento della comunione essere sussunto sotto la categoria dei negozi di divisione (art.2646 c.c.) o transazione (art.2643 n.13 c.c.) non potesse essere trascritto in assenza di una norma espressa che lo consenta. Il Tribunale ha ravvisato, in primo luogo, un’aporia sistematica nell’omesso richiamo ad altre norme, quali l’art.2646 c.c., che disciplinano la trascrizione, sia pure ad effetti diversi di quelli tipicamente dichiarativi; aporia che finirebbe per diventare vera e propria contraddizione, ove si ritenesse non consentita la trascrivibilità di un accordo di mediazione avente ad scioglimento della comunione ereditaria, atteso che l’art.5 D.lgs. 28/2010 ricomprende la divisione fra le materie per le quali la mediazione costituisce condizione di procedibilità.

Lo stesso discorso può essere esteso alle altre forme di trascrizione, non contemplate espressamente nell’art.11 D.lgs.28/2010, quale quella di cui all’art.2647, 2645 ter c.c., o anche agli atti soggetti ad annotamento, il che amplia ulteriormente l’ambito dell’intervento notarile oltre il perimetro dell’art.2643 c.c.

E ciò non tanto per gli annotamenti con funzione di pubblicità notizia, quale quello dell’art.2668 comma 3 c.c. (avveramento della condizione sospensiva o mancato avveramento della condizione risolutiva), quanto per gli annotamenti che spiegano effetti rilevanti ai fini della successiva circolazione degli immobili, in particolare ai fini della continuità delle trascrizioni[14].

Così, non è dubbio che in mediazione possa essere accertato l’avveramento di una condizione risolutiva (o il mancato avveramento della condizione sospensiva pur in assenza di espressa previsione normativa) o stipulato un negozio risolutorio agli effetti dell’art.2655 c.c. (senza entrare nel merito della vexata quaestio dell’ammissibilità dei negozi risolutori, che sembrano ormai essere ritenuti leciti dalla giurisprudenza di legittimità, da ultimo Cass., sezione V, 6 ottobre 2011 n. 20445).

3. Il problema dell’accertamento di patologie negoziali in mediazione

Molto più delicata è la verifica se, nell’ipotesi in cui l’istante instauri una mediazione avente ad oggetto l’accertamento di una patologia negoziale e l’invitato non si opponga, sia possibile[15] che la mediazione si concluda con un accertamento convenzionale della nullità, annullabilità, revocazione, rescissione di precedenti negozi giuridici.

Il tema classico, e trasversale, del negozio di accertamento, a cui va ricondotta la questione dell’ammissibilità degli accordi di mediazione che accertino patologie negoziali, verrà marginalmente toccato in questa sede solo in via strumentale all’obiettivo di trarne i dovuti corollari per verificare i margini di ammissibilità di un accertamento negoziale che non ha ad oggetto fatti, diritti o rapporti giuridici, ma vizi di precedenti negozi.

Superando la tradizionale diffidenza che ha tralatiziamente circondato il negozio di accertamento, dovuta alla difficoltà di ammettere che ai privati fosse data la possibilità di accertare situazioni giuridiche[16] per l’immanente potere dispositivo e non accertativo di diritti e rapporti concesso dall’ordinamento all’autonomia privata, è ormai condivisa in dottrina e giurisprudenza l’idea della meritevolezza di tutela dell’interesse posto a fondamento del negozio di accertamento[17]. La funzione accertativa di tale negozio ha riguardo a fatti e situazioni giuridiche già avvenuti e, naturalmente, ad esso va riconosciuta efficacia retroattiva fra le parti[18], quale tratto necessariamente distintivo della fattispecie negoziale, che cristallizza, per convenzione, il fatto o il diritto accertati sin dal momento in cui il primo si è avverato o il secondo è sorto, salvo ovviamente che le parti non abbiano espressamente pattuito una deroga a questo principio, stabilendo che la determinazione del loro rapporto valga soltanto a far data da un certo momento, così lasciando impregiudicata la questione per il tempo anteriore[19]. Tale retroattività incontra, ovviamente, il limite dell’inopponibilità nei confronti dei terzi i cui diritti non possono essere pregiudicati da accordi inter alios che hanno accettato consensualmente di stare a una certa configurazione della realtà preesistente.

Si considerino i seguenti casi.

1.Tizio istituisce erede universale Caio e, successivamente, viene dichiarato interdetto.

Dopo la pronuncia di interdizione, Tizio istituisce erede universale Sempronio.

Alla morte di Tizio, in seno al procedimento di mediazione intercorso fra Caio e Sempronio, le parti intendono, con l’accordo di mediazione, accertare l’annullamento del secondo testamento e dar corso alla successione testamentaria in favore di Caio.

2.Tizio vende a Caio il fondo Tuscolano al prezzo di euro 100.000,00.

Tizio invita in mediazione Caio per far valere la simulazione relativa del contratto di compravendita e dare atto che in realtà lo stesso dissimula una donazione.

Le parti intendono, con l’accordo di mediazione, accertare la simulazione relativa del contratto di compravendita, atteso che lo stesso riveste la forma (atto pubblico e presenza dei testimoni) della dissimulata donazione.

3. Tizio vende a Caio il fondo Tuscolano al prezzo di euro 50.000,00, da corrispondersi in dieci rate mensili di pari importo.

A seguito dell’inadempimento di Caio, Tizio lo invita in mediazione.

Le parti intendono, con l’accordo di mediazione, accertare la risoluzione del contratto per inadempimento.

Il tenore letterale dell’ultimo comma dell’art. 2655 c.c., con il dichiarato intento di assicurare l’osservanza del principio di continuità delle trascrizioni[20] e di consentire che – una volta eseguito l’annotamento ivi previsto – producano effetto le successive trascrizioni e iscrizioni contro l’alienante in favore del quale sia stata pronunciata la sentenza o sia verificato il fatto risolutore dell’effetto reale, sembrerebbe far propendere per una soluzione positiva.

La citata disposizione equipara, da un lato, tra i titoli risolutori dell’effetto reale già prodottosi, la “sentenza” alla “convenzione” e, dall’altro, accosta, senza alcuna distinzione, all’interno dei fatti suscettibili di produrre la risoluzione di quell’effetto, la nullità all’annullamento, alla risoluzione, alla rescissione, alla revocazione e all’avveramento della condizione risolutiva.

Tale generalizzazione normativa, sia in ordine al titolo che ai fatti risolutori dell’effetto reale, comporterebbe, ove intesa in termini letterali, che le parti potrebbero indifferentemente adire l’autorità giudiziaria ovvero accertare convenzionalmente una delle citate patologie negoziali ai fini dell’annotamento di cui all’art.2655 c.c.

In realtà, la posizione della dottrina e della giurisprudenza sul punto è molto più articolata rispetto a un’interpretazione letterale, che presenta più d’un lato oscuro in ordine all’accostamento, sul piano sistematico, di patologie negoziali affatto differenti fra loro, e non può dirsi formato un orientamento condiviso e utile a guidare l’operatore pratico verso scelte negoziali immuni da censure. 

Secondo un certo orientamento, occorrerebbe distinguere a seconda che si tratti di nullità o risoluzione stragiudiziale (quale quella dipendente da diffida ad adempiere, clausola risolutiva espressa o termine essenziale ex art.1454, 1456 e 1457 c.c.), fatti questi che sarebbero suscettibili di costituire oggetto di un mero accertamento e, pertanto, di una convenzione annotabile, oppure di fatti che dovrebbero essere posti a base di una sentenza di carattere costitutivo (annullamento, risoluzione giudiziale, rescissione e revocazione), non surrogabile attraverso una convenzione fra privati; e ha fondato tale distinzione sul verbo “risultare” contenuto nell’ultimo comma dell’art.2655 c.c., nel senso che tale termine presupporrebbe un’attività di mero accertamento che non si riscontra in realtà nelle ipotesi in cui sul fatto risolutore dell’effetto deve pronunciarsi il giudice con sentenza ad efficacia costitutiva[21].

Si è autorevolmente replicato[22] che tale termine si riferisce indifferentemente alle sentenze e alle convenzioni e, quindi, non si vede come rispetto a queste ultime l’interprete possa immaginare un più ristretto ambito di applicazione.

Sul piano sostanziale, si è poi osservato[23] come non possa considerarsi preclusa all’autonomia privata la facoltà di prevenire o comporre una controversia sull’annullamento attraverso il riconoscimento fatto da una delle parti del buon fondamento della domanda preannunciata o proposta dall’altra; riconoscimento che può essere puro e semplice, o comportare reciproche concessioni configurandosi in tale ultimo caso come transazione.

Si potrebbe semmai discutere, ove si accedesse a tale orientamento, in chiave notarile, cioè nell’ottica del notaio, chiamato a valle dell’accordo di mediazione che abbia accertato la nullità[24] o l’annullamento a prestare la propria opera professionale, se annotare la convenzione ex art.2655 c.c. in ogni caso oppure, laddove vi siano i caratteri della transazione che abbia implicato un riconoscimento di nullità o di annullabilità, se trascriverla ex art.2643 n.13 c.c.

Al fine di verificare se la pronuncia del giudice sia surrogabile tout court da una convenzione tra privati che abbia ad oggetto l’accertamento di un vizio dal quale discenda la risoluzione degli effetti (anche reali) già prodottosi, appare più corretto svolgere un’analisi differenziata in ordine al tipo di vizio dal quale si assume essere affetto il negozio più che in ordine al carattere meramente dichiarativo o costitutivo della corrispondente pronuncia giudiziale.

In tale prospettiva, non può che rilevarsi come la declaratoria di nullità, annullabilità, rescindibilità e revocabilità, patologie tutte accomunate dalla presenza di un vizio, non necessariamente di invalidità, che afferisce alla fase genetica di formazione del negozio, sia rimessa, sul terreno del diritto positivo, in via esclusiva al giudice o all’arbitro, sia pure con graduazioni diverse, a seconda dell’interesse protetto. La presenza di un vizio genetico implica un giudizio di disvalore sociale che, ex post, non può che essere rimesso al giudizio dell’autorità giudiziaria o arbitrale.

L’art.1421 c.c., per la nullità assoluta, temperato dalle norme speciali in tema di nullità di protezione[25] in ordine alla legittimazione a far valere la causa di nullità,  l’art.1441 c.c., per l’annullabilità, gli artt.1447 e 1448 c.c. per la rescindibilità, e l’art.2901 c.c. per la revocabilità, sono tutte norme le quali, ricondotte ad unità sistematica, costituiscono indice della riserva all’autorità giudiziaria del potere esclusivo di accertare, ora con efficacia dichiarativa ora con efficacia costitutiva, l’esistenza di un elemento patologico (come si è visto, non necessariamente costituente un vizio di invalidità) che attiene alla fase genetica di costituzione del rapporto e che impedisce la stabile esplicazione degli effetti propri del negozio considerato.

Una riflessione a parte merita, invece, l’accertamento della risoluzione giudiziale, che attiene – in tutte le ipotesi normativamente considerate (inadempimento, impossibilità sopravvenute ed eccessiva onerosità) – all’esistenza di un vizio funzionale della causa, che altera il normale funzionamento del sinallagma per cause sopravvenute rispetto alla formazione del negozio, il quale nasce peraltro in maniera perfettamente conforme alla legge.

La risoluzione, quale rimedio finalizzato allo scioglimento del rapporto a seguito di eventi perturbatori suscettibili di rendere la prosecuzione della relazione oggettivamente impossibile, diseconomica e contraria agli interessi di uno o entrambi i contraenti[26],  non si presenta quale fenomeno omogeneo né con riguardo alle cause che legittimano la sua esperibilità né, soprattutto, in ordine alla fonte dell’effetto risolutorio.

Alla risoluzione automatica, che opera al verificarsi dei presupposti di fatto, prescindendo dall’intervento giudiziale (condizione risolutiva, clausola risolutiva espressa, scadenza del termine), e a quella giudiziale (risoluzione per inadempimento, per impossibilità sopravvenuta o per eccessiva onerosità), si sovrappone la risoluzione negoziale, rimessa interamente alle scelte pattizie delle parti o all’iniziativa stragiudiziale di una di esse (mutuo dissenso e recesso).

La risoluzione convenzionale assorbe tutte le altre ipotesi di risoluzione nel senso che se le parti pattuiscono, secondo il paradigma generale di cui all’art.1372 c.c., la risoluzione di un precedente contratto, ciò determinerà comunque la caducazione dei suoi effetti, rendendo superfluo qualsiasi ulteriore accertamento giudiziale e irrilevanti i motivi per i quali è avvenuto il concorde scioglimento del rapporto, se non in ordine ai profili obbligatori dei rimborsi e restituzioni che ne conseguono[27].

La risoluzione negoziale diventa allora un rimedio generalizzato e liberamente esperibile dall’autonomia privata, quale espressione generale della libertà contrattuale, che trova negli art.1321 e 1372 c.c. i propri sicuri referenti normativi.

Senza addentrarsi nella vexata quaestio della natura giuridica del negozio risolutorio di un precedente atto traslativo, onde verificare se esso abbia funzione di contrarius actus o contro-negozio, cioè come un negozio avente un contenuto uguale e contrario a quello che si scioglie, ovvero come vero e proprio negozio risolutorio con il quale i contraenti pongono nel nulla, sia per il futuro che per il passato, l’originario contratto[28], non è dubitabile che esso sia ampiamente recepito nella prassi e nella giurisprudenza[29], che lo considera quale generale espressione dell’autonomia negoziale, al pari delle fattispecie negoziali costitutive o modificative di rapporti giuridici.

Una riflessione ancora diversa va svolta in relazione all’accertamento convenzionale della simulazione, assoluta o relativa, a torto spesso ricondotta nell’alveo della nullità, che in realtà attiene a una fattispecie negoziale geneticamente valida, destinata a non produrre gli effetti apparentemente riconducibili al negozio simulato o a produrre effetti diversi in virtù di una controdichiarazione dalla quale risulta la reale volontà delle parti.

L’accertamento, pertanto, avrà riguardo all’emersione della controdichiarazione, fino a quel momento tenuta segreta fra le parti, al fine di attribuire al negozio dissimulato la rilevanza giuridica mantenuta quiescente per un certo tempo e ad assoggettarla, ove necessario, a pubblicità immobiliare. In particolare, nel caso di simulazione assoluta, l’emersione dell’accordo simulatorio produce una situazione analoga, ma solo sul piano effettuale, a quella della nullità, con conseguente necessità di annotazione dell’accordo ex art.2655 c.c.; mentre in caso di interposizione fittizia di persone, esso sarà soggetto a trascrizione contro l’interposto e favore delle interponente, non già ai fini dell’art.2644, non potendosi ravvisare tra l’interposto e l’interponente una vicenda circolatoria, ma ai sensi dell’art.2650 c.c.[30].

Più delicato è il caso della simulazione relativa (oggettiva), che ha riguardo alle ipotesi in cui il negozio dissimulato produce effetti diversi da quello simulato (ad esempio la compravendita che dissimula una donazione, della quale abbia i requisiti di sostanza e di forma).

Se si condividesse l’idea che oggetto della trascrizione è l’effetto prodotto e non l’atto che lo produce, la reiterazione della trascrizione dell’accordo finalizzato a palesare la controdichiarazione simulatoria rispetto alla trascrizione del contratto simulato non avrebbe alcun senso.

D’altro canto, potrebbe obiettarsi che dall’ispezione della nota di trascrizione il terzo sarebbe in grado di desumere se il trasferimento è stato, ad esempio, a titolo gratuito o oneroso, con tutte le conseguenze sul piano della riducibilità da parte dei legittimari lesi o pretermessi del donante, ma soprattutto per gli aspetti conflittuali che potrebbero derivare dalla trascrizione. La trascrizione della compravendita, cui non seguisse la trascrizione dell’accordo simulatorio finalizzato a rendere palese ai terzi il mutamento causale del titolo, non consentirebbe, infatti, agli eventuali legittimari della parte alienante di agire in riduzione e di trascrivere la propria domanda giudiziale agli effetti dell’art.2652 n.8 c.c.

Se, per converso, si considera che per tale via si darebbe luogo a una trascrizione (non prevista) con efficacia diversa da quella tipica di cui all’art.2644 c.c., cioè al fine di risolvere conflitti fra più aventi causa dallo stesso autore, potrebbe ipotizzarsi di procedere anche in questo caso (come nella simulazione assoluta), a un annotamento con efficacia, ovviamente, diversa da quella di cui all’art.2655 c.c., ma di carattere meramente notiziale, sempre che si condivida l’idea del superamento del principio (o del dogma) di tassatività delle fattispecie annotabili[31].

Proseguendo nella ricognizione normativa dell’accertamento delle patologie negoziali, è agevole scorgere come sul terreno del diritto positivo nessuna norma consenta alle parti del negozio di svolgere una mera attività ricognitiva di vizi genetici di precedenti negozi, ma solo di porre in essere un’attività convenzionale recuperatoria dell’efficacia del negozio viziato che ha come presupposto la dichiarazione delle parti in ordine all’esistenza del vizio.

In tal senso è la granitica posizione assunta dall’unico precedente giurisprudenziale di legittimità[32] edito in tema di conferma di testamento nuncupativo (affermandone la validità).

In altri termini, la dichiarazione delle parti in ordine all’esistenza del vizio, semplicemente funzionale al compimento dell’atto recuperatorio, non può equivalere, sul piano degli effetti, all’accertamento giudiziale con efficacia generalizzata, sempre nel rispetto dell’art.2909 c.c. in materia di limiti soggettivi del giudicato, dell’esistenza del vizio negoziale[33].

Sulla stessa scia interpretativa possono essere collocate le altre disposizioni le quali, distribuite tra il codice civile e le leggi speciali, consentono il recupero del negozio viziato, come la conferma della donazione nulla (art.799 c.c.), la convalida del negozio annullabile (art.1444 c.c.), la conferma dell’atto nullo per carenza di menzioni urbanistiche o perché privo delle dichiarazioni sulla conformità catastale oggettiva (artt.30 e 46 D.P.R. 380/01, art.1 comma 29 ter della legge 52/85) e presuppongono, senza accertarlo sic et simpliciter, l’esistenza di un vizio genetico.

Se anche volesse ammettersi un accertamento convenzionale dei vizi genetici di precedenti negozi, dovrebbe riconoscersi che esso avrebbe comunque un’efficacia limitata inter partes, non potendo l’attività negoziale incidere, con effetti sfavorevoli, nella sfera giuridica dei terzi; avrebbe in ogni caso carattere solo pattiziamente retroattivo e non sarebbe opponibile ai terzi[34], se non nei limiti dell’art.2655 c.c.

Appare allora più corretto ricondurre tale esplicazione di autonomia negoziale alla risoluzione convenzionale che, come si è detto, può avvenire per i più svariati motivi e che, senza interferire con attività riservate all’autorità giudiziaria, potrebbe anche presupporre la dichiarazione (non l’accertamento di una verità in sé considerata) delle parti in ordine alla ritenuta (ma non accertata) esistenza di un vizio genetico di un precedente negozio.

La dichiarazione delle parti in ordine all’esistenza di un vizio genetico di un precedente negozio costituirebbe, in tale prospettiva, un motivo del negozio risolutorio o, al più, colorerebbe la causa concreta del medesimo, ma in ogni caso sarebbe riconducibile a un fenomeno negoziale di tipo estintivo – risolutorio di un precedente rapporto giuridico più che di accertamento della patologia negoziale.

Del resto, nella medesima prospettiva va letto l’art.1972 c. c, norma alla quale – nella più volte richiamata ottica del mediatore di favorire accordi conformi a norme imperative – occorre prestare la massima attenzione, atteso che se la transazione verte su titolo nullo, anch’essa è nulla ove il titolo sia illecito, mentre negli altri casi di titolo nullo essa è annullabile solo ad istanza di chi ignorava la causa di nullità. Indipendentemente dal carattere conservativo[35] o novativo[36] della transazione su titolo nullo, non è dubbio che quest’ultimo costituisca un presupposto del contratto transattivo e non il risultato di un’attività accertativa: la transazione eviterà l’insorgere della lite o porrà fine alla fine già insorta mediante lo strumento delle reciproche concessioni ma non si sostituirà all’autorità giudiziaria nell’accertamento della nullità del negozio viziato, che rimarrà produttivo dei suoi effetti, in assenza di un accertamento giudiziale della nullità, salva loro eventuale risoluzione consensuale. Anche la pacifica ammissibilità della rinnovazione[37] del negozio nullo, quale attività negoziale recuperatoria realizzata mediante la formazione di un titolo in tutto identico al precedente, affetto da nullità insanabile, previa rimozione del vizio di nullità (si pensi ai casi di una compravendita immobiliare in rinnovazione della precedente avente ad oggetto un immobile abusivo quando difettano i presupposti per la conferma e, nelle more, l’abuso sia stato sanato) conferma la tesi che tale negozio di secondo grado trova il proprio presupposto logico nell’esistenza di un titolo viziato al quale si sostituisce, replicandone gli effetti, ma non accerta con efficacia erga omnes il vizio dal quale il negozio primario era affetto.

Per tali motivi è fuori dal sistema l’accertamento convenzionale della nullità o annullabilità di un testamento: essendo per gli eredi impossibile dar luogo a un’attività negoziale di tipo risolutorio (a cui, come si è visto, va comunque ricondotta, al di là del nomen, qualsiasi ipotesi di accertamento di patologie negoziali), gli stessi non potranno surrogare con una propria manifestazione di volontà, neanche ove concordata a seguito di un procedimento di mediazione, la pronuncia giudiziale che, in questo caso, sarebbe l’unico titolo idoneo a far venir meno la delazione testamentaria.

Ritornando agli esempi sopra prospettati:

  1. Non è possibile che le parti accertino l’annullamento del secondo testamento dando corso alla successione sulla base del primo testamento. Il secondo testamento, in quanto cronologicamente successivo al primo e con esso incompatibile, pur essendo annullabile, è efficace e revoca il primo. L’accordo di mediazione, preso atto della qualità di erede del secondo erede testamentario Sempronio, potrebbe comportare una cessione a titolo transattivo dell’eredità o di uno o più beni facenti parte dell’asse ereditario da Sempronio a Caio[38].
  2. L’accordo di mediazione consisterà nell’accertamento della simulazione relativa, atteso che il negozio simulato (compravendita) riveste i requisiti di forma del negozio dissimulato (donazione), cioè la forma dell’atto pubblico e la presenza dei testimoni.
  3. L’accordo di mediazione consisterà nella risoluzione convenzionale della compravendita, in cui le parti potranno far emergere “i motivi” o la “causa concreta” del negozio risolutorio.
4. Aspetti formali dell’accordo di conciliazione

Una volta raggiunto l’accordo, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo (art.11 comma e D.lgs.28/2010).

La distinzione fra verbale e accordo è netta[39], sia che quest’ultimo venga allegato al primo che nell’ipotesi in cui l’accordo faccia parte integrante del verbale; così come altrettanto evidente è la differente imputazione soggettiva dei due documenti: il verbale è atto proprio ed esclusivo del mediatore, l’accordo fa capo alle parti, le quali lo redigeranno – se del caso – con l’ausilio dei rispettivi avvocati[40].

Il verbale conclusivo della mediazione, costituente espressione dell’epilogo della mediazione, è redatto esclusivamente dal mediatore ed “è sottoscritto dalle parti, dai loro avvocati e dagli altri partecipanti alla procedura nonché dal mediatore, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere” (art. 11 comma 4 d.lgs. cit.).

Nonostante il tenore letterale dell’art.11 comma 4 D.lgs.28/2010 sembri orientare per una lettura che imponga la sottoscrizione dell’accordo anche da parte del mediatore (il verbale contenente l’accordo è sottoscritto..), la distinzione fra verbale e accordo – anche sul piano delle sottoscrizioni – va mantenuta ferma, nel senso che il potere di certificazione dell’autografia delle sottoscrizione da parte del mediatore è limitato solo al verbale (anche quando esso contenga nel suo corpo l’accordo) e non può mai estendersi al contenuto negoziale dell’accordo, anche quando lo stesso non sia destinato alla pubblicità immobiliare o commerciale[41].

Il potere certificativo del mediatore, cui la legge non ha assolutamente attribuito il ruolo di pubblico ufficiale, rimane confinato all’autenticità delle sottoscrizioni delle parti in calce al verbale-documento, quale scrittura privata ricognitiva del fatto storico dell’esito del procedimento di mediazione, senza alcuna valenza di autentica in senso formale, propria degli artt.2702, 2703 c.c. e dell’art.72 della legge notarile[42].

Ne è conferma proprio l’art.11 comma 7 del D.lgs.28/2010 il quale, con tecnica legislativa migliorata rispetto alla precedente formulazione (che prevedeva l’autenticazione del verbale), impone che la sottoscrizione dell’accordo debba essere autenticata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato (il notaio) in tutti i casi in cui lo stesso accordo debba essere trascritto nei registri immobiliari. 

Stando alla lettera dell’art.11 comma 3 del D.lgs.28/2010, come novellato dal D.lgs.149/2022, l’accordo di conciliazione deve contenere l’indicazione del valore. I criteri per la determinazione del valore sono rimessi al decreto attuativo del ministro della giustizia di cui all’articolo 16 del decreto  (art. 17 co. 5 D.Lgs. n. 28/2010).

La funzione primaria dell’indicazione del valore è senz’altro quella di consentire la verifica di congruità del compenso richiesto dall’avvocato nella procedura, per l’ammissione al gratuito patrocinio (art. 15 septies D.Lgs. n. 28/2010). Essa non è invece di rilievo quanto alla determinazione dell’ammontare dell’indennità di mediazione (art. 17 co. 5 D.Lgs. n. 28/2010). Tale determinazione deve avvenire infatti all’inizio della procedura ed essere riferita al valore di lite, determinato o determinabile sulla base della domanda introduttiva. Non può essere successivamente modificata con riferimento al valore di un accordo, meramente eventuale e, per sua natura, imprevedibile nel contenuto, che le parti possono liberamente negoziare, senza vincoli di corrispondenza con l’oggetto della domanda.

Non sembra da escludersi che il valore dell’accordo possa costituire la base imponibile per l’applicazione dell’imposta di registro (e il calcolo della franchigia di agevolazione[43]) da parte dell’Agenzia delle Entrate, laddove le parti non abbiano fatto riferimento ai criteri di determinazione della base imponibile di cui all’art.43 D.P.R. 131/86, fatta in ogni caso salva la richiesta del meccanismo del c.d. prezzo valore di cui all’art.1 comma 497 della legge 23 dicembre 2005 n.266, sempre che ricorrano i requisiti soggettivi e oggettivi.

5. L’accordo di mediazione nella mediazione telematica alla luce dell’art.8 bis del D.lgs.28/2010

Conclusa la fase emergenziale, durante la quale la previsione normativa di cui all’art. 83, comma 20-bis, del D.L.17 marzo 2020, n. 18 convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27 (d’ora in avanti art. 83, comma 20-bis) aveva superato la necessità che lo svolgimento della mediazione a distanza fosse prevista nel regolamento dell’organismo, come fino a quel momento prescritto dall’art. 3, comma 4, d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28, la mediazione c.d. telematica[44] – ormai a regime – è ora disciplinata dall’art.8 bis del D.lgs. 28/2010 che, pur con il meritevole fine di dare spinta propulsiva alla mediazione a distanza, introduce alcuni requisiti formali sul piano della verbalizzazione ai quali prestare attenzione.

Nel precedente regime il documento (composto dal verbale con allegato accordo o dal verbale contenente nel proprio corpo l’accordo) veniva sottoscritto in maniera analogica dalla parte e inviato con modalità telematiche all’avvocato (se la parte e l’avvocato non fossero stati presenti nel medesimo luogo), il quale doveva dichiarare autografa la sottoscrizione della parte, sottoscrivere con propria firma digitale il verbale (anche ai fini dell’esecutività dell’accordo di mediazione ex art. 12 d. lgs. 28/2010), inviarlo all’avvocato o agli avvocati di controparte, i quali avrebbero dovuto operare con le medesime modalità e inviare il verbale (con l’accordo) al mediatore ai fini dell’apposizione della firma digitale di quest’ultimo.

Con la nuova disposizione è, invece, previsto che quando la procedura di mediazione telematica si conclude positivamente, l’accordo raggiunto dalle parti è documentato nel verbale, costituito da un unico documento informatico nativo digitale redatto dal mediatore, il quale lo invia alle parti per la sottoscrizione mediante firma digitale o altro tipo di firma elettronica qualificata.

Nonostante il tenore letterale dell’art.8 bis faccia riferimento all’unico documento digitale che incorpora il verbale e l’accordo, mentre l’art.11 comma 1 – nel regolare la forma dell’accordo annesso al verbale analogico – ne preveda l’allegazione, può ritenersi che le due modalità di annessione siano, sul piano sostanziale, equipollenti; da un lato, in quanto non è da escludersi che anche nella mediazione telematica l’accordo costituisca un file nativo digitale firmato digitalmente separato dal verbale, al quale viene allegato, dall’altro perché è pacifico che anche nella mediazione in presenza sia possibile che l’accordo venga contenuto nel corpo del verbale.

Ciò che, de iure condito, può affermarsi con certezza è che quando l’accordo, nella mediazione telematica, sia destinato a essere trascritto o iscritto nei pubblici registri (immobiliari o commerciali) e sia, pertanto, necessario l’intervento notarile, indipendentemente dalla tecnica redazionale utilizzata[45], le parti devono essere presenti davanti al notaio, non essendo prevista alcuna forma di stipula di un atto pubblico o autentica di una scrittura privata a distanza, salvi i casi espressamente e tassativamente previsti dalla legge.

Nulla vieta che l’atto notarile a valle del procedimento di mediazione sia stipulato su supporto digitale e conservato a norma di legge, come ora previsto 47-bis, 47-ter, 52-bis, 57-bis, 62-bis, 62-ter e 62-quater della legge notarile, come modificata dal D.lgs. 2 luglio 2010 n.110, purché le parti siano fisicamente presenti dinanzi al notaio e l’accertamento dell’identità personale sia effettuato dal notaio alla presenza fisica delle parti o dei loro procuratori speciali muniti di procura notarile.

L’eccezione a tale quadro normativo, che peraltro non interessa gli accordi di mediazione[46], è costituita dal Decreto Legislativo 8 novembre 2021 n. 183 (di recepimento della direttiva (UE) 2019/1151 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019) che consente ai notai di stipulare – telematicamente – atti costitutivi di società a responsabilità limitata e di società a responsabilità limitata semplificata[47].

Pertanto, nella mediazione telematica, qualora il notaio sia chiamato a ricevere o autenticare l’accordo di conciliazione contenuto nel verbale in maniera contestuale alla conclusione positiva del procedimento di mediazione, dovrà assicurarsi che le parti siano presenti dinanzi a lui, verificando, in particolare, che per l’ultimo incontro della mediazione telematica (in cui egli interverrà) tutte le parti abbiano richiesto al responsabile dell’organismo di partecipare in presenza (art. 8 bis comma 2).

6. L’esecuzione dell’accordo di mediazione: cenni

Le parti possono rafforzare il carattere cogente degli obblighi convenuti in via principale con l’accordo di conciliazione attraverso la pattuizione dell’obbligo di pagamento di una somma di denaro in caso di violazione o inosservanza nell’adempimento dei primi, giusta la facoltà contemplata all’art. 11, comma 7, del D. Lgs. n. 28/2010 (il cui contenuto riproduce quello dell’originario comma 3 del medesimo articolo ante riforma ex D.Lgs. 149/2022)[48].

Agevolmente riconducibile nella categoria della clausola penale, può ritenersi che anche in assenza di espressa previsione normativa la quale, pertanto, nulla aggiunge ad una regolamentazione delle condizioni contrattuali conseguibili attraverso le categorie generali dell’autonomia privata, le parti avrebbero comunque potuto inserire nell’accordo conciliativo una clausola siffatta, in applicazione dell’art. 1382 c.c.

Fino alla riforma del processo civile di cui al D.Lgs. n. 149/2022 si riteneva che tali obblighi ulteriori, configurando una normale clausola penale, necessitassero del previo accertamento giudiziale in ordine all’inadempimento[49] ai fini della loro esecutività e se ne escludeva, pertanto, la riconducibilità alle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c., comminabili solo giudizialmente insieme al provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi “diversi dal pagamento di somme di denaro”.

Con la riformulazione dell’art.614 – bis c.p.c. ad opera del D.Lgs n. 149/2022 è ora prevista la possibilità di chiedere la determinazione di queste misure al giudice dell’esecuzione, anche per titoli esecutivi diversi dai provvedimenti di condanna, purché relativi a crediti non pecuniari (art. 614-bis c.p.c.). In tal modo si sono resi all’evidenza molto più “appetibili gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie”[50].   L’accordo concluso in mediazione, anche con le modalità di  cui  all’articolo 8-bis[51], costituisce, inoltre, titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art.12 D.lgs.28/2010).

Condizioni necessarie e sufficienti perché l’accordo abbia valenza di titolo esecutivo sono che i) l’accordo sia stato raggiunto in un procedimento nel quale le parti siano state “tutte” assistite dai rispettivi avvocati; ii) l’accordo sia stato “sottoscritto” dalle parti e dagli stessi avvocati; iii) l’accordo sia allegato al processo verbale “formato” dal mediatore e che questi abbia “certificato l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere” (art. 11 comma 4); iv) esso contenga altresì l’attestazione e la certificazione degli avvocati della conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.

L’omologazione giudiziaria rimane una possibilità alternativa e residuale alla quale le parti possono ricorrere quando tutte le parti o alcune di esse non siano state assistite dagli avvocati ovvero quando gli avvocati, pur avendo assistito le parti, non abbiano «attestato e certificato» la non contrarietà alle norme imperative e all’ordine pubblico.

A ben vedere, peraltro, l’accordo di conciliazione potrebbe avere la “forza” di titolo esecutivo anche qualora, pur non ricorrendo i presupposti di cui all’art.12 D.lgs.28/2010, rivesta – ai sensi dell’art.474 c.p.c. – la forma della “scrittura privata autenticata” (per la c.d. esecuzione generica per l’adempimento forzoso delle obbligazioni di somme di denaro) ovvero quando esso sia trasfuso in un atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverlo (in questo caso consentendo di avviare l’esecuzione generica ovvero di eseguire coattivamente gli obblighi di consegna o rilascio).

E’ di particolare significatività l’idoneità, testualmente prevista dal citato art.12, dell’accordo di conciliazione ai fini dell’esecuzione anche degli obblighi di fare e non fare, costituente il risultato di un’evoluzione giurisprudenziale e normativa, che ha portato a un’interpretazione estensiva dell’art.612 c.p.c. il quale, pur essendo immutato nel suo tenore letterale, sembra ora consentire l’esecuzione degli obblighi di fare o di non fare anche sulla base di titoli non esclusivamente giudiziali[52].

Già da tempo parte della dottrina[53]aveva evidenziato che il riferimento contenuto nell’art.612 c.p.c. alla sentenza di condanna quale unico titolo idoneo per l’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare dovesse essere inteso nel senso che l’esecuzione coattiva di tali obblighi fosse subordinata ad un preventivo accertamento giurisdizionale avente ad oggetto la fungibilità e la non eccessiva onerosità delle prestazione e che, pertanto, qualsiasi provvedimento giurisdizionale recante una condanna – e non solo la sentenza –  potesse costituire valido titolo esecutivo.

Passaggio importante nell’evoluzione di questo tema si è registrato con la sentenza della Corte Costituzionale del 12 luglio 2002 n.336 che – nel rigettare la questione di legittimità costituzionale dell’art.612 c.cp.c. – ne ha offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata in riferimento agli artt. 3, 10, 24, 111 e 113 Cost. prescrivendo che detta norma debba essere intesa nel senso di consentire l’instaurazione del procedimento esecutivo per l’esecuzione coattiva degli obblighi di fare e non fare anche sulla base di un verbale di conciliazione giudiziale.

Successivamente, nel 2005, il legislatore, senza intervenire sull’art.612 c.p.c., ha inteso recepire le indicazioni provenienti dalla Consulta modificando l’art.474 c.p.c.: in particolare nel n.1 del comma 2 si è stabilito che sono titoli esecutivi (non più soltanto le sentenze e i provvedimenti), ma anche “gli altri atti” ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva.

In questo quadro s’inserisce la disposizione dell’art.12 D.lgs. 28/2010 che, in uno con quella di cui all’art.5 del D.L. 12 settembre 2014 n.132, convertito con legge 10 novembre 2014 n.162 in materia di negoziazione assistita, costituisce una significativa apertura normativa ai titoli esecutivi di matrice stragiudiziale per gli obblighi di fare e non fare, che va tenuta ben presente nella valutazione dei potenziali vantaggi, anche economici, benché non facilmente monetizzabili, nel ricorso alla mediazione civile.

La questione, di molto ridimensionata per tutti i titoli di matrice giudiziale pur non costituenti propriamente una sentenza, è rimasta aperta per gli atti di natura stragiudiziale, in particolare – tra l’altro – per gli atti pubblici (notarili), sui quali ancora non si registra unanimità di vedute, anche se la maggioranza degli interpreti sono orientati ad ammettere anche l’atto pubblico quale titolo esecutivo per l’esecuzione anche degli obblighi fare e di non fare, in quanto sarebbe eccessivamente formalistica e contraria al principio di economia processuale la soluzione di costringere il creditore ad instaurare un processo di cognizione al solo scopo di ottenere un titolo esecutivo identico a quello di origine notarile[54].

Note

[1] Relazione al corso di formazione organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura su “Gli strumenti di giustizia complementari” – Castel Capuano – 14 giugno 2023.

[2] Si tratta della sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 6 marzo 2015, n. 4628, secondo la quale “omissis..se ci si libera dell’ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due “sequenze” variabili che si avvicinano:

A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare.

B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l’accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti.

Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perché mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto”.

[3] Secondo P.LUISO, Diritto Processuale civile, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, V, 2022, p.47, la non necessità di delimitare l’oggetto della domanda di mediazione non consente la sua trascrivibilità in quanto “tanto varrebbe consentire una trascrizione in bianco”.

[4] In tal senso, chiaramente, R. TRIOLA, Della Tutela dei Diritti – La Trascrizione, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, volume IX, terza edizione, Torino, 2012, p.227.

[5] A condizione, naturalmente, che ricorrano le condizioni espressamente previste negli artt.2652 e 2653 c.c. in relazione alle eterogenee fattispecie ivi previste.

[6] Per usare le parole di un maestro come G.CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 950, p.70, l’arbitratore “è chiamato a determinare in un rapporto giuridico di per sé pacifico un elemento non definito dalle parti; (…) l’arbitratore, dunque, non dichiara diritti esistenti, non sostituisce il processo, ma completa rapporti giuridici, il che non ha importanza che per il diritto sostanziale”. Distingue l’attività del mediatore, che formula la proposta, dall’arbitratore U.CARNEVALI, La nuova mediazione civile, in I Contratti, 2010, 5, p.432, sulla base del rilievo che le parti sono libere di accettare o meno la proposta del mediatore mentre nell’arbitraggio le parti fanno propria ex ante la determinazione della prestazione da parte dell’arbitratore).

[7] Cass. civ., Sez. I, 19 aprile 2002, n. 5707 secondo cui “La diversità di funzione tra gli istituti dell’arbitrato e dell’arbitraggio – composizione di una lite quanto al primo, integrazione del contenuto negoziale quanto al secondo – comporta che presupposto fondamentale dell’arbitrato è l’esistenza di un rapporto controverso, che, invece, difetta del tutto nell’arbitraggio, con la conseguenza che quest’ultimo, pur trovando applicazione in numerosi contratti tipici, non è configurabile nella transazione, della quale è presupposto essenziale una controversia attuale o prevista”.

[8] Ritiene che la proposta del mediatore non abbia niente a che vedere con quella di cui all’art. 1326 c.c. F.P.LUISO, La “proposta del mediatore”, in Giustizia Consensuale, 1, 2021, p.32, il quale osserva che essa è un suggerimento, che quindi deve essere accettato da tutte le parti, per poter produrre effetti.

[9] Tribunale di Roma, decreto 17 novembre 2015.

[10] Cfr., ex multis, G. CAPOZZI, Successioni e donazioni,  II ed., tomo II, Milano, 2002, p. 710; G. BONILINI, voce Divisione,  in Dig., sez. civ., Torino, 1990, p. 495; C. M. BIANCA, Diritto civile, La proprietà, IV, Milano, p. 498 e ss., il quale sostiene la rescindibilità della c.d. “divisione transattiva” ex art.764 comma 1 c.c. e, delineando il contenuto del negozio, afferma che essa ricorre quando “ … tra i compartecipi sorgono questioni anteriormente o contestualmente alla divisione e queste sono risolte direttamente mediante la formazione delle porzioni”.

[11] Cass. civ., sez. II, 2 febbraio 1994 n.1029, secondo la quale “Sussiste un contratto divisorio soggetto alla rescissione laddove si riscontra la contemporanea esistenza degli elementi dell’attribuzione di valori proporzionali alle quote e dello scioglimento della comunione. Per contro, si è in presenza di una transazione, che si sottrae alla rescissione, quando con l’atto, che pone fine alla comunione, i condividenti – allo scopo di evitare le liti, che potrebbero insorgere, o di porre termine alle liti già sorte – si accordano sulla attribuzione delle porzioni, senza procedere al calcolo delle proporzioni corrispondenti alle quote”.

[12] Cfr., ex multis, G. BONILINI, op.cit.; G. CAPOZZI, op. cit. Alla transazione c.d. divisoria non sarebbe, invece, applicabile il rimedio rescissorio ex.art.764 comma 2 c.c.

[13] E’, pertanto, tecnicamente più corretta l’omologa espressione utilizzata, in sede di negoziazione assistita, dall’art.5 comma 3 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla L. 10 novembre 2014, n. 162,  secondo cui  “Se con  l’accordo  le  parti  concludono  uno  dei  contratti  o compiono uno degli atti soggetti a trascrizione, per  procedere  alla trascrizione dello stesso la sottoscrizione del processo  verbale  di accordo deve essere autenticata  da  un  pubblico  ufficiale  a  ciò autorizzato”.

[14] Vedi amplius nel testo al par.3.

[15] Sia consentito il rinvio a M.SARACENO, L’accertamento delle patologie negoziali in mediazione, in Diritto della mediazione civile e commerciale, a cura di M.MARINARO, 2023, p.295 ss.

[16] F. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine Generali del diritto civile, Napoli, 1989, p.177, il quale considera eccezionali le ipotesi nelle quali è concesso ai privati l’accertamento di un fatto, ma l’atto compiuto nell’esercizio di questo potere è per l’appunto un atto non negoziale (ad esempio l’accertamento del figlio naturale); ID, L’accertamento negoziale e la transazione, in Riv. trim. proc. civ., 1956, pp.1 ss.

[17] Cass., 9 dicembre 2015, n. 24848, in Guida al diritto, 2016, 8, p. 92 secondo cui “Il negozio di accertamento, che può avere anche struttura semplicemente unilaterale, attesa la possibilità per un soggetto di vincolarsi con una dichiarazione unilaterale a considerare per il futuro in un determinato modo una situazione precedentemente incerta, è caratterizzato, quanto alla causa, dallo scopo di imprimere certezza giuridica ad un preesistente rapporto o di precisarne definitivamente il contenuto e l’essenza quanto agli effetti; esso, laddove verta su diritti reali, non determina ex se il trasferimento di beni e di diritti da un soggetto all’altro, né costituisce fonte autonoma degli effetti giuridici da esso previsti, in quanto rende soltanto definitiva la situazione connessa con il rapporto preesistente, la quale sia, di per sé, idonea al conseguimento degli effetti definitivamente fissati dal negozio accertativo”; Cass.civ., sez.II, sentenza 22 gennaio 2019 n.1636, secondo la quale “Il negozio di accertamento è caratterizzato dall’intento di imprimere certezza giuridica ad un precedente rapporto, cui si collega, al fine di precisarne l’esistenza, il contenuto e gli effetti, rendendo definitive e immutabili situazioni di obiettiva incertezza; in particolare, ove le parti vogliano riconoscere e determinare l’esatto confine tra terreni contigui, il negozio di accertamento non è soggetto a forma scritta, potendosi perfezionare anche verbalmente o mediante attuazione”.

[18] F. CARNELUTTI, Note sull’accertamento negoziale, in Riv.Dir.Proc.Civ., 1940, I, 3 ss.

[19] M.GRADI, Teoria dell’accertamento consensuale: storia di un’incomprensione, in Giustizia consensuale, fasc. 2/2021, 303-346.

[20] Può dirsi pacifico che la pubblicità di cui all’art.2655 c.c. non costituisca una forma di pubblicità notizia, in quanto essa è idonea a incidere sugli effetti della pubblicità del negozio principale orientandoli in una determinata direzione secondo il principio generale di continuità delle trascrizioni di cui all’art.2650 c.c. di cui quella in esame costituisce una species.

[21] L.FERRI-P. ZANELLI, Trascrizione immobiliare, 3 ed., sub.artt.2654-2656, in Comm. c.c. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1995, p.371.

[22] R. NICOLO’, La trascrizione, Milano, 1973, p.82. U. NATOLI, in U. NATOLI – R. FERRUCCI, Della tutela dei diritti. Trascrizione – Prove, in Commentario del codice Civile, VI, Torino, 1971, pp.163 ss.; A. LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, pp.358, nota 140.

[23] G. GABRIELLI, La pubblicità immobiliare, in Trattato di diritto civile diretto da Rodolfo Sacco, Torino, 2012, p.168.

[24] L’unico precedente disciplinare in materia notarile è contenuto nella pronuncia Coredi Piemonte e Valle D’Aosta 11 novembre 2014 n. 10626, secondo cui “La Co.Re.Di. ritiene non responsabile il Notaio per violazione dell’art. 28 n. 1 L.N. in quanto: 1) la stipula di contratti che abbiano ad oggetto l’accertamento della nullità di un precedente negozio giuridico concluso tra le stesse parti è ammesso e sostenuto da norme di diritto positivo (artt. 2655 c.c., 1972 c.c.); 2) la legittimazione da parte dell’ordinamento del contratto di accertamento della nullità di un negozio è ribadita dallo Studio del CNN n. 176/2008; 3) una prassi recente ed autorevole (Formulario del Notaio Petrelli) fornisce una traccia del Contratto di accertamento di nullità di un precedente contratto, e ne sostiene pertanto la ammissibilità 4) l’atto non è mancante di causa in quanto le parti hanno inteso superare le incertezze relative alla causa liberale della cessione delle azioni”.

[25] Le nullità di protezione vanno annoverate fra le nullità relative per le quale la legittimazione a far valere la causa di nullità spetta ad una delle parti.

[26] G. VETTORI, Contratto e rimedi, Milano, 2021, p. 898.

[27] Cass.civ., sez.VI -3, ordinanza, 18 maggio 2021 n. 13504, secondo cui è ben possibile che la risoluzione consensuale sia fondata in ragione dell’inadempimento di una delle parti.

[28] Per una completa ricostruzione delle posizioni dottrinali sul punto cfr F. ALCARO, Il mutuo dissenso, Studio CNN n. 434-2012/C; M. C. DIENER, Il contratto in generale, Milano, 2015, p. 515; G. CAPOZZI, Il mutuo dissenso nei contratti ad effetti reali, in Studi in ricordo di Alberto Auricchio, Napoli, 1983, p. 284; M. FRANZONI, Il mutuo consenso allo scioglimento del contratto, in Il contratto in generale, Tratt. di dir. priv.diretto da M. Bessone, tomo V, Torino, 2002, p. 16; F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 2009, p. 1035; M. C. DIENER, Il contratto in generale, cit., p. 516; C.M. BIANCA, Il contratto, in Diritto civile, 3, Milano, 2015, p.735; G. CAPOZZI, il mutuo dissenso nella pratica notarile, in Vita not., 1993, p. 635; R. SCOGNAMIGLIO, Contratti in generale, in Tratt. di dir. civ., diretto da G. Grosso e F. Santoro Passarelli, IV, 2, Milano, 1972, p. 210; M. FRANZONI, Il mutuo consenso allo scioglimento del contratto, cit. p. 16; A. LUMINOSO, Il mutuo dissenso, Milano, 1980, p. 499; F. MESSINEO, voce Contratto (dir. priv.), in Enc. del. dir., Milano, 1961, p. 815; M. CEOLIN, Sul mutuo dissenso in generale e, in specie, parziale, del contratto di donazione, Studio CNN n. 52-2014/C; C. CARBONE, Formulario Notarile Commentato – Notariato e atti notarili – Atti Mortis Causa – Atti tra vivi, in Manuali Notarili – Serie operativa, a cura di L. Genghini, Padova, 2020, p. 3084; A. ALAMANNI, Retroattività del mutuo dissenso, in Rass. dir. civ., 2013; G. MIRABELLI, Dei contratti in generale, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, p. 290.

[29] Cass., sez. V, 6 ottobre 2011, n. 20445, secondo cui “Il mutuo dissenso costituisce un atto di risoluzione convenzionale (o un accordo risolutorio), espressione dell’autonomia negoziale dei privati, i quali sono liberi di regolare gli effetti prodotti da un precedente negozio, anche indipendentemente dall’esistenza di eventuali fatti o circostanze sopravvenute, impeditivi o modificativi dell’attuazione dell’originario regolamento di interessi, dando luogo ad un effetto ripristinatorio con carattere retroattivo, anche per i contratti aventi ad oggetto il trasferimento di diritti reali; tale effetto, infatti, essendo espressamente previsto ex lege dall’art. 1458 c.c. con riguardo alla risoluzione per inadempimento, anche di contratti ad effetto reale, non può dirsi precluso agli accordi risolutori, risultando soltanto obbligatorio il rispetto dell’onere della forma scritta ad substantiam”. Secondo la più recente giurisprudenza tributaria, in via di consolidamento, quando gli effetti traslativi si sono già prodotti, non di mutuo dissenso deve parlarsi, quanto di stipulazione tra le stesse parti di un diverso negozio avente effetti uguali e contrari al precedente. Cfr.Cass, civ., sez.V, ordinanza 28 settembre 2021 n.26212.

[30] GAZZONI, Trattato della Trascrizione, La trascrizione degli atti e delle sentenze, Milanofiori Assago, 2012, p.450, il quale osserva che in questo caso non è possibile procedere con l’annotamento, che suppone l’identità soggettiva fra la parti dell’atto principale, trascritto, e quello di secondo grado, da annotare, che nel caso di interposizione fittizia mancherebbe in quanto l’interponente non è stato parte del contratto simulato.

[31] G.PETRELLI, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare, Napoli, 2009, pp.173 ss..

[32] Corte di Cassazione, sezione III, 11 luglio 1996 n.6313, secondo cui ”omissis… Né può ritenersi che la convalida presupponga necessariamente un’attività di accertamento in ordine all’esistenza e alla nullità del testamento (nella specie nuncupativo), riservata all’autorità giudiziaria, così confondendola con la conoscenza e la menzione della causa di nullità, richieste come presupposto della fattispecie sanante. Entrambe le figure (la convalida e l’accertamento della nullità) hanno in comune solo l’effetto di fissare la situazione preesistente, ma l’accostamento non può andare oltre, rimanendo ferma la differenza, che nel caso della convalida riguarda il modo di essere del negozio convalidato rispetto al diritto, senza escludere una eventuale e successiva contestazione dinanzi all’autorità giudiziaria e l’accertamento definitivo di questa…Omissis La “raccolta” delle dichiarazioni dei comparenti, da parte del notaio ricorrente, e propria dell’attività notarile, non può qualificarsi come accertamento del contenuto di quelle dichiarazioni, e i suoi effetti in nessun modo possono equipararsi a quelli propri dell’accertamento giudiziario, onde non può ritenersi invasiva di attività riservata all’autorità giudiziaria e non viola il disposto dell’art.28 n.1 della legge notarile”.

[33] Ammette esplicitamente la possibilità che le parti accertino, in sostituzione dell’autorità giudiziaria, la nullità di un precedente negozio giuridico G. BARALIS, Studio del Consiglio Nazionale del Notariato n.176-2008/C, secondo cui “Dottrina e Giurisprudenza ormai ammettono in linea di massima la fattispecie dell’accertamento negoziale, ma con larghe divergenze circa i suoi presupposti, il contenuto, l’efficacia. L’accertamento sembra collegato alla riserva esclusiva dell’a.g.o, essendo invece il potere di disporre tipica “zona” dell’autonomia privata, e infatti, sia pure obiter, la Suprema Corte, in un passato non molto lontano, ha ammesso la possibilità strumentale dei privati di accertare la nullità quale passaggio per la convalida, nei casi eccezionali in cui è ammessa, ma ha altresì escluso la possibilità per gli stessi di accertare tout court tale tipo di invalidità. L’accertamento della nullità di un negozio, al di là dei casi in cui sia presupposto di una convalida negoziale, è esplicitamente ammessa dal legislatore ex art. 2655, ult. comma c.c., in sostituzione di un accertamento giudiziale”.

[34] M. LEO, Risposta a quesito CNN n.6026, il quale concorda che il negozio di accertamento della nullità di un precedente negozio (ove ammissibile) non potrà mai avere gli stessi effetti della trascrizione della sentenza conseguente alla trascrizione della domanda giudiziale ex art.2652 n.6 c.c.

[35] La transazione conservativa si limita a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni (generalmente consistenti in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un quid medium tra le prospettazioni iniziali). Cfr., in dottrina, L.V. MOSCARINI – N. CORBO, Transazione, in Enc. Giur., XXXVI, Roma, 1994, p.4; C. CICERO, La transazione, in Trattato di diritto civile, a cura di Sacco, Torino, 2014, pp.29 ss.; PICCIANO, Transazione semplice e novativa: brevi note in tema di nullità della “prior obligatio”, in Riv. dir. civ., 1999, II, 440. In giurisprudenza, si veda, tra le varie, Cass. civ. 12 aprile 2005, n. 7522.

[36] La transazione novativa implica la sostituzione dell’intero rapporto originario controverso con un nuovo rapporto non controverso. Cfr. F. SANTORO-PASSARELLI, La transazione, Napoli, p.84.

[37] A.GENTILI, La replica della stipulazione: riproduzione, rinnovazione, rinegoziazione del contratto fra ripetizione e rinnovazione, in Contratto e impresa, 2003, p.667 ss; E. FABIANI e M. LEO, Manuale della mediazione civile e commerciale. Il Contributo del notariato alla luce del D.lgs.28/2010, cit., pp.285 ss. I concetti di ripetizione e rinnovazione sono spesso utilizzati promiscuamente nella prassi negoziale, ma un criterio distintivo apprezzabile è stato quello di ricondurre la ripetizione negoziale alla forma in senso lato del negozio, nel senso che – a parità di effetti, di diritti ed obblighi fra le parti, di identità soggettiva, di connotazione temporale e spaziale del negozio ripetuto – l’atto ripetitivo consente di rivestire il negozio ripetuto della forma idonea a che lo stesso produca effetti non solo tra le parti ma anche erga omnes con il mezzo della pubblicità immobiliare o commerciale (il che, come si vedrà, dovrebbe valere anche quando l’atto ripetitivo rimuova vizi sanabili), mentre la rinnovazione esprime una casistica che ricomprende sia l’ipotesi in cui le parti i) trascurando il titolo precedente, fanno luogo alla formazione di un nuovo titolo con la stessa forma (o anche con un diversa forma) con diritti ed obblighi dello stesso tipo e sugli stessi beni, (ipotesi, questa, problematica attesa la necessità di individuare quali siano i limiti oltre i quali deve parlarsi, come si vedrà oltre, di novazione), oppure ii) le parti replicano il negozio contratto, per il resto identico, ma con una variazione della dimensione temporale del vincolo, che può riprodursi dalla scadenza del precedente per una eguale durata, o per una durata maggiore o minore (si pensi alla rinnovazione del preliminare) o ancora iii) le parti danno luogo alla formazione di un titolo in tutto identico al precedente, affetto da nullità insanabile, previa rimozione del vizio di nullità. Non vi è, peraltro, è unanimità di vedute nel riferire l’espressione rinnovazione al contenuto del negozio, dovendo piuttosto essere legata al documento contrattuale (C. M. BIANCA, Il Contratto, cit.,p.301), e di ciò vi sarebbe traccia letterale nell’art.1231 c.c. Esclude che si possa parlare di ripetizione quando si tratti sostituire un titolo nullo con uno valido N. IRTI, La ripetizione del negozio giuridico, Milano, 1970, pp.173 ss., secondo il quale la fattispecie della ripetizione presuppone la validità del negozio ripetuto sicché se il contratto ripetuto è invalido non si farebbe luogo a ripetizione.

[38] La transazione implicherebbe anche una conferma del testamento annullabile (se si ritiene applicabile a questa fattispecie l’art.590 c.c.) ovvero una convalida dello stesso previo intervento, ove necessario, di eventuali eredi legittimi.

[39] R. TISCINI, L’esito positivo della mediazione civile e commerciale del d.lgs. n. 28/2010: il verbale di accordo, tra requisiti formali e pregi/difetti sostanziali, in www.judicium.it.

[40] CAPPONI, Un nuovo titolo esecutivo, cit.; BRUNELLI, Commento all’art. 11, in La nuova disciplina della mediazione delle controversie civili e commerciali, a cura di Bandini e Soldati, Milano, 2010, 201 ss.; P.FORTI, Le tecniche redazionali dell’atto notarile per l’accordo di mediazione, in Rapporto sui conflitti e sulla conciliazione 2021, a cura dell’Osservatorio sui conflitti e sulla conciliazione, 2022, pp.153 ss.; ID, Il verbale e l’accordo in mediazione, in Diritto della mediazione civile e commerciale, cit., pp.221 ss.

[41] Su questi profili, CAPPONI, Un nuovo titolo esecutivo, cit., secondo cui “l’autentica sembra richiamare quella che l’avvocato opera nel processo riguardo alla procura ad litem, ma a ben vedere le fattispecie non sono affatto assimilabili”. Osserva l’autore che il compito del mediatore, in base al comma 3 dell’art. 11, è certamente più ampio di quello assegnato al difensore dagli artt. 83 e 125 c.p.c., non limitandosi esso all’autentica della sottoscrizione delle parti, ma potendo addirittura documentare le ragioni dell’impossibilità delle parti di sottoscrivere l’accordo (che vale comunque a vincolare le parti, ancorché non sottoscriventi). Inoltre, il potere del difensore si spiega nel contesto dello svolgimento dell’incarico di rappresentanza e difesa in giudizio, laddove il mediatore non è legato alle parti da alcun rapporto di mandato

[42] La competenza all’autenticazione di scritture private di carattere negoziale è esclusivamente del notaio: Cfr. Trib. Milano, 1° marzo 1956, in Riv. not. 1956, p. 829; Trib. Milano, 18 aprile 1961, in Riv. not., 1961, pp. 272 ss.; App. Roma 18 novembre 1967, in Riv. not. 1969, pp. 880 ss.; Cass. 3 aprile 1998, n. 3426 (in Foro it., Rep. 1998, voce Procedimento civile, n. 117) con riferimento alle autentiche amministrative.

[43] Ora aumentata a euro 100.000,00 per effetto della modifica dell’art.17 comma 2 D.lgs.28/2010.

[44] Cfr. M. LEO- M. FIORNI, La mediazione in modalità telematica, in Diritto della mediazione civile e commerciale, cit. pp.319 ss.

[45] Fatta salva l’ipotesi in cui l’accordo di conciliazione produca effetti meramente obbligatori ai quali viene data esecuzione mediante un atto notarile, di natura solutoria, che pertanto può essere stipulato anche a distanza di tempo rispetto alla conclusione della procedura di mediazione, le tecniche redazionali più diffuse nella prassi per rivestire di forma pubblica o autentica l’accordo di conciliazione da cui conseguano effetti reali immediati sono quelle: i) del c.d. “atto unico” in cui il notaio interviene direttamente all’interno della procedura di mediazione, in occasione dell’ultimo incontro, e verbalizza direttamente l’ultimo incontro in forma pubblica o autentica annettendo nel corpo del verbale l’accordo o allegandolo al verbale medesimo e ii) dell’atto ripetitivo, che si sostanzia una reiterazione del consenso espresso dalle parti nel procedimento di mediazione in forma di atto pubblico o scrittura privata autentica, generalmente allegando un esemplare originale del verbale e dell’accordo. Meno diffusa, e anche meno corretta, è la tecnica del verbale di deposito notarile (artt. 61 L.N. e 1 R.D. L. 14 luglio 1937 n. 1666) dell’accordo raggiunto in mediazione. Su tale procedura sono state avanzate, invero, talune perplessità derivanti dall’uso “anomalo” di tale istituto al fine di attribuire la forma autentica per la trascrizione (art. 2657 c.c.) ad atti che – pur rispettosi della forma per la loro validità – non ne siano muniti. Al riguardo si sottolinea che secondo una pronuncia di legittimità (Cass. 14 dicembre 1984, n. 6576, in Giur. it. 1985, 1061) il verbale di deposito non sarebbe idoneo ad attribuire alla scrittura privata il requisito dell’autenticità, richiesto per l’attuazione della pubblicità dall’art. 2657 c.c., argomentando principalmente dal fatto che detto deposito realizzerebbe un intento legale diverso e non equiparabile alla autenticazione della scrittura, né può costituire un modo di riconoscimento della scrittura stessa, essendo a tal fine necessario che la sottoscrizione non contestata venga accertata e dichiarata in una sentenza.

[46] In linea teorica non può escludersi che il procedimento si concluda con la costituzione di una società a responsabilità limitata, ma si tratta di un’ipotesi assolutamente marginale.

[47] Per maggiori approfondimenti si rinvia G. ARCELLA, S. CHIBBARO, M. MANENTE E M. NASTRI, S.r.l Online, atto telematico e atto a distanza, in Notariato, 1/2021, 31 ss.

[48] Cfr. M. FIORINI, L’esecutività dell’accordo mediativo, in Diritto della mediazione civile e commerciale, cit.pp.305 ss.

[49] E. GASBARRINI, Manuale della mediazione civile e commerciale, a cura di M. L. Cenni, E. Fabiani, M. Leo, Napoli, 012, pag. 359 e ss; B. CAPPONI, Un nuovo titolo esecutivo nella disciplina della mediazione/conciliazione, cit.

[50] A.M.TEDOLDI, La riforma dell’esecuzione forzata: le novità del D. Lgs n. 149/2022, in giustiziainsieme.it.

[51] Si tratta del c.d. titolo esecutivo telematico

[52] Risposta a quesito del Consiglio Nazionale del Notariato – Ufficio Studi – n.331-2017/C del 14 luglio 2017.

[53] V. ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, 327; DENTI, L’esecuzione forzata degli obblighi fare e di non fare, Napoli, 1966, 211.

[54] Sul punto cfr. FABIANI E. – PICCOLO L., Atto pubblico ed esecuzione forzata in forma specifica di obblighi di fare e di non fare, Ufficio Studi CNN Consiglio Nazionale del Notariato, 2021.

Conclusione, pubblicità ed esecuzione degli accordi di conciliazione ultima modifica: 2024-02-09T08:30:00+01:00 da Redazione Federnotizie

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Pegno non possessorio e quote di società a responsabilità limitata

Ven, 01/26/2024 - 08:30
a cura di Marco Reschigna 1. Introduzione al tema

Il presente scritto ha lo scopo di analizzare il rapporto tra pegno non possessorio, introdotto con il D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni, dalla L. 39 giugno 2016, n. 119 (di seguito “D.L. 59/2016”) e quote di società a responsabilità limitata, che non ha mai avuto un sostanziale applicazione pratica fino alla recente istituzione del registro informatizzato dei pegni mobiliari non possessori, con il D.M. 25 maggio 2021, n. 114 (di seguito “D.M. 114/2021) e alla successiva approvazione delle specifiche tecniche dell’Agenzia delle Entrate per la registrazione, con Provvedimento del 12 gennaio 2023. Il D.M. sopra richiamato prevede espressamente che nella domanda di iscrizione al registro suddetto siano indicati “la natura, la quantità e gli estremi identificativi delle azioni ovvero delle partecipazioni gravate”. L’art. 1 D.L. 59/2016, invece, esclude i beni mobili registrati dall’oggetto del pegno non possessorio. Queste norme appaiono incoerenti tra loro, qualora si ritenga che le quote di s.r.l. abbiano natura di bene mobile registrato, al punto da dubitare che possano essere oggetto di pegno non possessorio.

Con l’effettiva entrata in funzione del registro dei pegni non possessori l’interprete è chiamato interrogarsi sulla portata delle suddette norme, per comprendere in che termini sia ammissibile tale forma di pegno su quote di s.r.l. e quali norme del pegno ordinario siano applicabili alla fattispecie, soprattutto in tema di pubblicità nel Registro delle Imprese[1].

Ai fini dell’analisi della questione, si ritiene opportuno, in primo luogo, analizzare brevemente la disciplina del pegno non possessorio, limitandosi agli aspetti essenziali. In secondo luogo si proporranno alcune considerazioni sulla natura giuridica della quota di s.r.l., per trattare, infine, del pegno non possessorio su quota di s.r.l.

2. Le caratteristiche del pegno non possessorio in generale

Il pegno non possessorio trova la propria disciplina nell’art. 1 D.L. 59/2016[2]. Questo può essere costituito da imprenditori iscritti nel registro delle imprese a garanzia di crediti inerenti all’esercizio dell’impresa. Per quanto riguarda l’aspetto oggettivo il pegno non possessorio può essere costituito su beni mobili e crediti destinati all’esercizio dell’impresa, anche immateriali, purché non si tratti di beni mobili registrati. Vi rientrano dunque tutte le entità attive patrimoniali aziendali, che abbiano le suddette caratteristiche[3].

Il pegno non possessorio è stato introdotto come strumento a disposizione per gli imprenditori in modo da permettere il mantenimento del possesso di quanto oggetto di gravame. Manca, in tale fattispecie, una delle caratteristiche fondamentali del pegno codicistico, cioè lo spossessamento del debitore. In questo modo si permette all’imprenditore di proseguire l’attività di impresa utilizzando i beni concessi in pegno. In ogni caso, si osserva che il pegno non possessorio non perde la natura giuridica di diritto reale di garanzia, precisandosi, tra l’altro, che il comma 10 bis del medesimo art. 1 D.L. 59/2016 stabilisce che per quanto non previsto dal citato articolo, si applicano, se compatibili, le norme sul pegno codicistico (libro sesto, titolo III, capo III del codice civile)[4].

Un ulteriore tratto caratteristico del pegno non possessorio è la c.d. rotatività automatica[5]. Questo principio implica che il debitore possa trasformare o alienare i beni sui quali grava la garanzia. In tale evenienza il pegno automaticamente si trasferisce su quanto trasformato o sul corrispettivo della cessione del bene gravato, senza che ciò consista nella costituzione di una nuova garanzia. Dunque, in caso di circolazione del bene gravato da pegno non possessorio questo è trasferito libero dal gravame, quest’ultimo trasferendosi, invece, sul corrispettivo. La novità risiede nel fatto che il principio di rotatività automatica diventa la disciplina legale. Si noti, tuttavia, che è fatta salva la diversa volontà delle parti.

Quanto alla forma dell’atto costitutivo del pegno non possessorio la legge richiede, a pena di nullità, la forma scritta con indicazione del creditore, del debitore e dell’eventuale terzo concedente pegno, la descrizione del bene dato in garanzia, del credito garantito e dell’importo massimo garantito. Il D.M. 114/2021 stabilisce che, oltre alla forma pubblica, di scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente, è ammissibile anche la forma non autentica del “contratto sottoscritto digitalmente”.

Si osserva, poi, che la normativa prevede che il pegno non possessorio abbia efficacia verso terzi solo con l’iscrizione nel registro informatizzato dei pegni non possessori tenuto presso l’Agenzia delle Entrate. Tale iscrizione serve ai fini dell’opponibilità del pegno. Si tratta dunque di una pubblicità di tipo dichiarativo. Non pare che si possa sostenere che si tratti di pubblicità di tipo costitutivo, visto che le norme stesse trattano di pubblicità nel suddetto registro ai fini dell’opponibilità del gravame[6].

Infine, si precisa che le norme in tema di pegno non possessorio prevedono delle forme di escussione semplificate rispetto al pegno ordinario, che prevedono una sorta di autotutela rafforzata[7].

3. Natura giuridica della quota di s.r.l.

Se in questa sede ci si occupasse esclusivamente del pegno ordinario su quote di s.r.l., è certo che la questione della natura giuridica della quota di s.r.l. passerebbe in secondo piano, dal momento che l’art. 2471 bis c.c. lo ammette espressamente[8]. Ciò però non vale con riguardo al pegno non possessorio. In questo caso la qualificazione giuridica della quota di s.r.l. è, invece, importante dato che un’eventuale individuazione di tale natura quale bene mobile registrato ne precluderebbe l’ammissibilità. Lo stato attuale del dibattito su tale natura giuridica è, tuttavia, frammentario, senza che si sia mai pervenuti a una visione unitaria, ed è complesso da affrontare esaustivamente in questa sede[9].

Si ritiene, tuttavia, opportuno ai fini della presente analisi proporre alcune considerazioni sintetiche sui principali orientamenti di dottrina e giurisprudenza sulla tematica. Le tesi più risalenti inquadravano la quota di s.r.l. come una posizione di contitolarità del patrimonio sociale oppure come una posizione creditoria[10]. Solo più recentemente si è affermato, che la quota di s.r.l. si possa considerare una posizione contrattuale[11]. In un secondo momento, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno inquadrato, seppur con diverse declinazioni, la quota di s.r.l. come bene mobile. Tendenzialmente si parla di bene mobile immateriale e nella maggior parte delle pronunce di legittimità di bene mobile non registrato[12]. La posizione sembra consolidata. Si registra, tuttavia, un crescente interesse la posizione che identifica la quota di s.r.l. quale bene mobile registrato, anche alla luce dell’abolizione del libro soci e della “nuova” disciplina di opponibilità a terzi delle quote di s.r.l. dell’art. 2470 c.c.[13].

Si rileva, infine, che, nella prassi notarile, spesso le quote di s.r.l. sono considerate a tutti gli effetti come beni mobili registrati, quale oggetto di fondo patrimoniale e di vincolo di destinazione (artt. 167 e 2645 ter c.c.)[14].

4. Pegno non possessorio su quota di s.r.l.: analisi e prospettive

Quanto alla compatibilità della quota di s.r.l. con il pegno non possessorio, si osserva, innanzitutto, che il tema, sino ad oggi, è stato oggetto dell’attenzione di pochi autori, e per forza di cose, data la recente entrata in funzione del registro informatizzato, di nessun Tribunale. Tra coloro che si sono dedicati al tema è possibile distinguere due orientamenti dottrinali.

Vi è chi nega l’ammissibilità del pegno non possessorio su quota di s.r.l.[15]. Tale tesi si fonda sul seguente principale argomento. La quota di s.r.l. avrebbe natura di bene mobile registrato. La sua inclusione nel pegno non possessorio sarebbe, quindi, vietata dall’art. 1 c. 2 D.L. 59/2016, che esclude dall’oggetto del pegno non possessori i beni mobili registrati. Peraltro, in tale ottica la ratio di tale divieto risiede nella necessità di preservare il sistema di pubblicità relativo a tale categoria di beni, dato che quest’ultimo entrerebbe in conflitto con la pubblicità del pegno non possessorio nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate[16].

Vi è, poi, un secondo orientamento che ritiene il pegno non possessorio su quota di s.r.l. ammissibile, aderendo alla tesi per cui la quota di s.r.l. non sarebbe un bene mobile registrato[17]. In quest’ottica la quota di s.r.l. rientrerebbe nell’oggetto del pegno non possessorio ai sensi dell’art. 1 c. 2 D.L. 59/2016, senza che si verifichi alcun contrasto con il tenore letterale della norma.

Allo stato della discussione dottrinale e giurisprudenziale sul tema della qualificazione giuridica della quota di s.r.l., è ragionevole ritenere che quest’ultima non sia propriamente un bene mobile registrato, bensì un bene mobile non registrato, come da giurisprudenza consolidata[18]. Si possono semmai individuare dei tratti comuni ai beni mobili registrati, non del tutto idonei però a far ricadere le quote di s.r.l. nella suddetta categoria, con la precisazione che meritano comunque considerazione le perplessità sollevate dai fautori della tesi opposta (abolizione del libro soci e disciplina della pubblicità di cui all’art. 2470 c.c.).

Pertanto, con riferimento al pegno non possessorio su quota di s.r.l., si ritiene di poter condividere i risultati della dottrina permissiva sopra esposti. Ciò non senza, però, sviluppare alcune ulteriori considerazioni necessarie in favore della legittimità del pegno non possessorio su quota di s.r.l.

Innanzitutto, l’art. 1 DL 59/2016 precisa che oggetto del pegno non possessorio possano essere solo beni aziendali. Ci si può quindi chiedere se le quote di s.r.l. possano essere considerate beni di impresa. La risposta al quesito non può che essere positiva, seppur con le seguenti precisazioni. Deve, infatti, trattarsi di partecipazioni che siano effettivamente parte dell’azienda e, quindi, inserite nell’inventario e facenti parte dell’attivo. Non pare esservi alcun obbligo per il notaio di verificare quanto sopra, anche se è consigliabile procedere con prudenza, tenuto conto dell’ambito di specialità che la legge riserva al pegno non possessorio rispetto a quello ordinario.

La seconda tematica che l’interprete deve porsi è se sia necessaria la pubblicità nel Registro Imprese, oltre che nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate. Sul tema pare non vi siano alternative rispetto a un regime di doppia pubblicità[19]. In dottrina si parla di “doppio binario”. Non viene, infatti, meno l’obbligo di pubblicità nel Registro Imprese, che come sopra detto costituisce la garanzia dell’individuazione del preciso assetto societario in s.r.l. e dell’indicazione della presenza o meno di eventuali vincoli sulle quote. Di conseguenza è necessario che il pegno non possessorio su quota di s.r.l. sia costituto con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Sussiste, poi, l’obbligo per il notaio del deposito nel Registro delle Imprese ai sensi dell’art. 2470 c.c.. Gli ulteriori effetti del pegno non possessorio (quali in particolare la rotatività automatica e l’esecuzione semplificata) si avranno con l’ulteriore iscrizione nel registro informatizzato[20]. Da quanto appena detto si può desumere l’ulteriore considerazione che un pegno non possessorio su quota di s.r.l. non iscritto nel Registro Imprese, ma solo nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate, non sia opponibile a terzi che acquistino diritti sulla quota oggetto di gravame. Si tenga conto che comunque il problema sarebbe marginale, visto il regime legale di rotatività automatica, ed eventualmente limitato a quei casi in cui le parti abbiano derogato a tale principio.

Questa soluzione interpretativa supera l’argomento dell’incompatibilità tra i regimi pubblicitari dei due tipi di pegno utilizzato dai sostenitori della tesi più restrittiva.

Resta da chiedersi infine se si possa sostenere che la disciplina del pegno non possessorio, la quale si basa proprio sul mancato spossessamento dei beni concessi in garanzia, deroghi anche al principio espresso dal combinato disposto degli art. 2471 bis c.c. e art. 2352 c.c., in base a cui diritti amministrativi e patrimoniali spettano al creditore pignoratizio, salvi diversi accordi. Il tema non è stato oggetto dell’attenzione della dottrina e sul punto è consigliabile procedere con cautela. Quanto sopra potrebbe sembrare coerente con le caratteristiche del pegno non possessorio, dato che il mancato spossessamento potrebbe concretizzarsi nella permanenza di tali diritti in capo al socio imprenditore. Tuttavia, in assenza di una deroga espressa all’art. 2471 bis c.c., sembra difficile poter affermare che diritti amministrativi e patrimoniali rimangano ex lege in capo al socio imprenditore, salvo diversa volontà delle parti. In argomento, visti i possibili margini di discussione appena delineati, è bene che il contratto costitutivo del pegno non possessorio su quota di s.r.l. disciplini questo aspetto nello specifico.

In definitiva, seppur con qualche dubbio e con il consiglio di tenere monitorato l’andamento del dibattito sulla natura giuridica della quota di s.r.l., si ritiene che questa, allo stato attuale di tale discussione, possa essere oggetto di pegno non possessorio. Ciò, tuttavia, alla condizione che il pegno sia iscritto, non solo nel registro informatizzato, ma anche nel Registro delle Imprese, che rappresenta l’unico registro pubblico in grado di fornire indicazioni utili circa l’assetto proprietario ed eventuali gravami nella società a responsabilità limitata.

Note

[1] Si sono occupati della tematica nello specifico: S. Ambrosini, Il pegno non possessorio ex lege n. 119/2016, in www.ilcaso.it; F. Murino, Prime considerazioni sul c.d. pegno non possessorio, in BBTC, 2017, I, 231 ss.; M. Campobasso, Il pegno non possessorio. “Pegno”, ma non troppo, in NLCC, 2018, 703 ss.; A. Chianale, Il pegno non possessorio su beni determinati, in Riv. dir. civ., 2019, 951 ss.; A. Busani, Registro dei pegni fuori rotta sulle quote di srl, in Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2021, 19; Id., Pegno non possessorio iscritto anche nel Registro delle Imprese, in Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2023, 21.

[2] Sull’argomento si vedano, tra gli altri, S. Ambrosini, (nt. 1); L. De Stefano, Il pegno non possessorio – Il pegno nel sistema codicistico ed il pegno non possessorio introdotto dal D.L. 3 maggio 2016 n. 59, in Nuovi Contratti e tecniche redazionali a cura di Federnotizie, 2016, 69 ss.; V. Rubertelli, Il pegno non possessorio, 9 maggio 2016, in questa rivista; I. Baghi, L’esordio del pegno mobiliare non possessorio: riflessioni sui profili processuali, in Corr. giur., 2017, 1380 ss.; G.B. Barillà, Alcune osservazioni a margine del recepimento legislativo del pegno non possessorio, in Corr. giur., 2017, 5 ss.; Id., Pegno non possessorio e patto marciano: dalla tutela statica del credito alle nuove forme di garanzia, in Giur. comm., 2017, I, 583 ss.; E. Gabrielli, Una garanzia reale senza possesso, in Nuovi modelli di garanzie patrimoniali, a cura di E. Gabrielli e S. Pagliantini, in Giur. it., 2017, 1715 ss.; F. Murino, (nt. 1), 231 ss.; M. Campobasso, (nt. 1), 703 ss.; A. Chianale, (nt. 1), 951 ss.; L. Piccolo, Istituito il “registro del pegni”: una nuova, non conclusiva, tappa per la piena operatività del pegno mobiliare non possessorio, Segnalazioni normative esecuzioni immobiliari del 13 agosto 2021, in www.notariato.it; P. Piscitello, Il pegno rotativo ex lege, in BBTC, I, 2022, 342 ss.

[3] Si veda infra al paragrafo 5, se e in che termini le quota di s.r.l. possano essere considerate beni dell’impresa.

[4] In dottrina M. Campobasso, (nt. 1), 704, lo definisce come un “sotto-tipo di pegno”.

[5] Si osserva che, già prima che il legislatore introducesse il pegno non possessorio, la giurisprudenza di legittimità e la dottrina ammettevano la rotatività del pegno ordinario, ove previsto dalle parti ed entro determinati limiti. La vera novità rispetto al passato risiede nel fatto che per il pegno non possessorio la rotatività rappresenta il regime legale. Si può notare la rotatività automatica in questione rafforzi gli argomenti a sostegno della clausola di rotatività del pegno ordinario. Sull’argomento sia concesso il rinvio: G.B. Barillà, Pegno non possessorio, (nt. 2), 583 ss. e P. Piscitello, (nt. 2), 342 ss.

[6] Sul punto si veda M. Campobasso, (nt. 1), 706, il quale precisa che la norma: “non lascia spazio a dubbi che la garanzia è valida e vincolante tra le parti per effetto del semplice contratto, mentre la pubblicità è richiesta ai fini dell’opponibilità ai terzi.”.

[7] Per una trattazione più approfondita di questo aspetto, tra gli altri, si vedano: S. Ambrosini, (nt. 1); I. Baghi, (nt. 2), 1381 ss.; E. Gabrielli, (nt. 2), 1718; F. Murino, (nt. 1), 275 ss.; M. Campobasso, (nt. 1), 727 ss.; A. Chianale, (nt. 1), 972 ss.

[8] Proprio in questo senso si esprime L. Calvosa, Le altre vicende delle partecipazioni, in Le società a responsabilità limitata, a cura di C. Ibba – G. Marasà, I, Milano, Giuffrè, 2020, 703 ss.. Più in generale sul pegno ordinario su quota di s.r.l. si rinvia fra tutti a: C. Gattoni, Commento all’art. 2471-bis c.c., in Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, in Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, Giuffrè, 2008, 429 ss.; G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, Il Codice Civile Commentato, fondato da P. Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2010; F. Briolini, Pegno, usufrutto, sequestro, in Trattato delle società a cura di V. Donativi, Tomo III, Assago, Wolters Kluwer, 2022, 406 ss.

[9] Per un’efficace ricostruzione della discussione si vedano: M. Sciuto, Le quote di partecipazione, in Le società a responsabilità limitata, a cura di C. Ibba – G. Marasà, I, Milano, Giuffrè, 2020, 517 ss. e L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11. Sull’argomento, fra tutti, si vedano anche: P. Revigliono, Il trasferimento della quota di società a responsabilità limitata. Il regime legale, Milano, Giuffrè, 1998, 6 ss.; V. De Stasio, Trasferimento della partecipazione nella s.r.l. e conflitto tra acquirenti, Milano, Giuffrè, 2008, 80 ss.; L. Di Nella, Natura e divisibilità delle quote di partecipazione, sub. art. 2468, in Commentario delle s.r.l., dedicato a G.B. Portale, a cura di A. Dolmetta e G. Presti, Milano, Giuffrè, 2011, 270 ss.

[10] Sul punto sia concesso il rinvio a L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11.

[11] Si noti che in questo senso si è pronunciata anche di recente la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, 27 novembre 2019, n. 31051 in Società,2020, 689 ss.,con nota di M. Costanza, in Notariato, 2020, 173 ss., con nota di M. Ferrari e F. Mottola Lucano, e in Giur. it., 2020, 1679 ss., con nota di M.L. Passador).

[12] Questa posizione, che può considerarsi consolidata, è stata sostenuta varie volte negli ultimi decenni dalla Cassazione. Per una precisa indicazione di tali pronunce si rinvia a A. Ruotolo – D. Boggiali, Quote di s.r.l. e natura di bene mobile registrato ai fini dell’usucapione (Trib. Milano, 22 dicembre 2017), Ufficio Studi CNN, Sentenze annotate, 13 giugno 2018, in www.notariato.it e per completezza a L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11.

[13] Sul punto si veda Trib. Milano 22 dicembre 2017, in Società, 2018, 418 ss., con nota critica di E. Pedersoli. Secondo quest’ultimo va escluso che la quota di s.r.l. possa essere identificata quale bene mobile registrato poiché nel caso di pubblicità nel Registro delle Imprese di una cessione di quota di s.r.l., ai fini dell’opponibilità del trasferimento, non è sufficiente l’iscrizione, ma serve anche il requisito della buona fede.

[14] Rileva la questione A. Busani, Registro dei pegni, (nt. 1), 19; Id., Pegno non possessorio, (nt. 1), 21. In argomento si richiama anche la posizione della Commissione Civile del Consiglio Notarile del Triveneto che nell’Orientamento n. 14, in www.notaitriveneto.it, secondo cui, sebbene sembri che, dopo la riforma delle società di capitali e l’abolizione del libro soci nel 2008, la quota di s.r.l. possa essere assimilata a un bene mobile registrato, ai fini dell’ammissibilità del fondo patrimoniale sulle quote di s.r.l., la tematica della qualificazione giuridica passa in secondo piano, tenuto conto che l’art. 167 c.c. andrebbe letto in senso estensivo. Dunque, andrebbe inteso nel senso che è suscettibile di essere oggetto di fondo patrimoniale qualsiasi bene per il quale vi sia un’adeguata pubblicità rispetto al vincolo stesso. In quest’ottica, pertanto le quote di s.r.l., indipendentemente dalla loro natura giuridica, possono far parte di un fondo patrimoniale, proprio per il regime pubblicitario previsto dall’art. 2470 c.c. idoneo a dare adeguata pubblicità al vincolo.

[15] In questo senso: V. Rubertelli, (nt. 2); M. Campobasso, (nt. 1), 703 ss. e A. Chianale, (nt. 1), 951 ss.

[16] In questo senso M. Campobasso, (nt. 1), 706 ss.

[17] S. Ambrosini, (nt. 1); A. Busani, Registro dei pegni, (nt. 1), 19; Id., Pegno non possessorio, (nt. 1), 21. Pare esprimersi in questo senso anche F. Murino, (nt. 1), 231 ss., il quale, tuttavia, dopo aver esposto le due opposte tesi, sopra riportate, si concentra sulla compatibilità dell’esecuzione semplificata del pegno non possessorio con il sistema pubblicitario della s.r.l.

[18] Si ritiene, comunque, di non svalutare con riguardo al fondo patrimoniale (ed estensivamente anche al vincolo di destinazione) quanto ritenuto dalla Commissione Civile del Consiglio Notarile del Triveneto nell’Orientamento n. 14, (nt.15).

[19] Con riferimento al pegno ordinario su quota di s.r.l. la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono orientate a ritenere necessaria la forma pubblica (o di scrittura privata autenticata) con annessa iscrizione nel Registro Imprese, con applicazione di quanto previsto dall’art. 2470 c.c. in tema di trasferimento di quota. Infatti, la mancanza di una norma, infatti, non può autorizzare l’interprete a prescindere dai principi generali in tema di pubblicità, divenuta essenziale ai fini dell’individuazione dei soci e di eventuali vincoli sulle quote, a maggior ragione dopo l’abolizione del libro soci. Così L. Calvosa, (nt. 8), 707.

[20] Sulla compatibilità del pegno non possessorio su quota di s.r.l. e le modalità di autotutela semplificata F. Murino, (nt. 1), 248 ss.

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La capacità di intendere e di volere nell’attività notarile. Osservazioni casistiche

Mer, 01/24/2024 - 08:30
di Alessandro Torroni*

Sommario: 1. Riferimenti normativi2. L’incapacità naturale e la circonvenzione d’incapace3. Casistica4. L’incapacità naturale del testatore5. Casistica6. Conclusione

* Relazione svolta al seminario “La capacità decisionale al giorno d’oggi. Il punto di vista medico applicato alla pratica notarile” organizzato dal Consiglio notarile dei distretti riuniti di Forlì e Rimini il 1° dicembre 2023.

1. Riferimenti normativi

Il presente studio affronta, in maniera casistica, il tema della di capacità di intendere o di volere applicata all’attività notarile. È opportuno partire dall’esame delle norme del nostro sistema giuridico che disciplinano l’incapacità di intendere o di volere, e precisamente l’art. 428 del codice civile, l’art. 1425 del codice civile, l’art. 1389 del codice civile, l’art. 643 del codice penale e l’art. 591 del codice civile.

Art. 428 c.c. (Atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere)

Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore.

L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente.

L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto.

Resta salva ogni diversa disposizione di legge.

Art. 1425 c.c. (Incapacità delle parti)

Il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrarre.

È parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’articolo 428, il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere.Art. 1389 c.c. (Capacità del rappresentante e del rappresentato).

Quando la rappresentanza è conferita dall’interessato, per la validità del contratto concluso dal rappresentante basta che questi abbia la capacità di intendere e di volere, avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto stesso, sempre che sia legalmente capace il rappresentato.

In ogni caso, per la validità del contratto concluso dal rappresentante è necessario che il contratto non sia vietato al rappresentato.

Art. 643 c.p. (Circonvenzione di persone incapaci)

Chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da duecentosei euro a duemilasessantacinque euro.

Art. 591 c.c. (Casi d’incapacità)

Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge.

Sono incapaci di testare:

  1. coloro che non hanno compiuto la maggiore età;
  2. gli interdetti per infermità di mente;
  3. quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.

Nei casi d’incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

2. L’incapacità naturale e la circonvenzione d’incapace

L’incapacità di intendere o di volere consiste in una situazione di grave perturbamento delle capacità psichiche o intellettive della persona che le impedisce di valutare correttamente il contenuto e gli effetti di un atto giuridico che sta compiendo oppure di manifestare una volontà seria e consapevole di compiere quell’atto o di determinare il regolamento di interessi contrattuale. I due deficit che colpiscono rispettivamente l’intelletto e la volontà sono considerati separatamente dal legislatore (“persona … incapace d’intendere o di volere”).

L’incapacità di intendere e di volere è stata definita come “una grave alterazione dell’attitudine del soggetto ad interpretare gli atti, che egli compie, e a comprenderne il senso nel contesto della realtà che lo circonda (menomazione della sfera dell’intelligenza), oppure come una grave alterazione dell’attitudine del soggetto ad adeguare il proprio comportamento a scelte rispondenti ad una propria ideazione razionale (menomazione della volontà)”[1].

Più specificamente, la “capacità di intendere” indica l’idoneità a comprendere la portata e la rilevanza dell’atto che si compie mentre la “capacità di volere” indica l’attitudine ad autodeterminarsi coscientemente e liberamente, attraverso la valutazione critica comparativa del fine da perseguire e dei mezzi idonei per la sua attuazione. La capacità di agire deve essere esclusa sia che manchi la capacità a comprendere sia che manchi la capacità di autodeterminazione. È possibile che sussista la prima ma manchi la seconda: ad esempio, nei casi in cui il soggetto, pur essendo consapevole di ciò che fa e che dice, non è in condizione di esercitare liberamente una propria volontà, a causa di turbe psichiche o di circostanze esteriori che sopprimono in lui ogni potere di critica e di scelta. Al contrario non è concepibile che taluno sia capace di volere senza essere, altresì, capace di intendere, ossia dotato di discernimento, poiché il processo di formazione della volontà, al pari della sua estrinsecazione ed attuazione, deve sempre svolgersi sotto il controllo dell’intelligenza e della coscienza[2].

L’incapacità naturale va valutata con riferimento a un singolo atto, essendovi una netta differenza tra le qualità psichiche richieste per concludere un contratto volto a soddisfare esigenze della vita quotidiana (c.d. attività contrattuale minima) e quelle richieste per la consapevole stipulazione di un contratto più complesso[3].

La situazione di grave perturbamento psichico può derivare da malattia, degenerazioni cognitive dovute all’età avanzata, assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti. La diminuzione delle capacità intellettive o volitive del soggetto deve essere molto grave, tale che, se non fosse transitoria, ci sarebbero i requisiti per una limitazione della capacità legale della persona con le procedure di interdizione, inabilitazione o apertura di un’amministrazione di sostegno. È stato affermato che “non ogni turbamento del processo di formazione ed estrinsecazione della volontà può ritenersi sufficiente ad identificare uno stadio di incapacità rilevante: a tal fine serve un perturbamento tale da impedire una seria valutazione del contenuto e degli effetti del contratto”[4].

In giurisprudenza, non sono stati ritenuti idonei a fondare una pronuncia di annullamento gli stati d’ansia, per quanto marcati, i gravi dispiaceri, la depressione, gli eccessi di affettività[5].

Per l’annullabilità di un atto compiuto da persona incapace di intendere o di volere è richiesto l’ulteriore requisito del grave pregiudizio che l’atto può arrecare al suo autore. Nel caso di un contratto, l’ulteriore requisito richiesto l’annullabilità dello stesso è dato dalla malafede dell’altro contraente[6] di cui il pregiudizio per l’autore è uno degli indici rivelatori ma non è l’unico né è indispensabile, potendo la malafede essere desunta anche dal contenuto del contratto, ad esempio dalla sproporzione tra le prestazioni delle parti oppure da altre anomalie desumibili dal regolamento contrattuale. La malafede consiste nella semplice consapevolezza della situazione di incapacità soggettiva in cui versa l’altra parte e non richiede un concorso nella realizzazione della suddetta incapacità. L’ulteriore requisito della malafede dell’altro contraente tutela il principio di affidamento e di sicurezza della circolazione immobiliare, ogni qualvolta l’acquirente è ignaro dello stato di incapacità del contraente[7].

Nel caso la controparte abusi dello stato di infermità o di deficienza psichica di una persona e la induca a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso per lei o per altri, si consuma il reato di circonvenzione d’incapace. Elemento costitutivo del reato è rappresentato dall’approfittamento dello stato di deficienza psichica della persona; non è necessaria una totale incapacità di intendere o di volere ma è sufficiente una situazione di debolezza psichica da cui deriva, per le circostanze concrete, una soggezione psicologica del circuito che lo porta a compiere un atto contro la sua effettiva volontà. Il concetto di deficienza psichica è stato esteso dalla giurisprudenza fino a ricomprendere qualsiasi menomazione del potere di critica, qualsiasi indebolimento della funzione volitiva o affettiva che agevolino la suggestionabilità e diminuiscano i poteri di difesa del soggetto passivo, quali l’età, la debolezza di carattere, la carenza di cultura e di rapporti interpersonali[8]. Il reato di circonvenzione d’incapace può colpire soggetti affetti “da una qualsiasi forma di minorazione della sfera intellettiva e volitiva, anche se non mancanti completamente della capacità d’intendere e di volere”[9].

Mentre, nel caso dell’incapacità di intendere e di volere, la volontà del contraente è gravemente viziata a causa dello stato psichico del contraente, comportando un sostanziale azzeramento della capacità cognitivo-intellettiva e di quella volitiva[10], nel diverso caso della circonvenzione d’incapace, prevale l’abuso del contratto e la prevaricazione della parte forte nei confronti di quella debole; in giurisprudenza si parla di “anomala dinamica relazionale”[11]: è possibile che il soggetto passivo possa rappresentarsi cognitivamente gli effetti pregiudizievoli dell’atto e che non li desideri, ma non riesce a sottrarsi perché l’altrui opera di suggestione ed induzione lo priva del potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio.

In sintesi, nell’incapacità, la volontà manca o è gravemente viziata; nella circonvenzione d’incapace, il soggetto debole non riesce a resistere alla volontà altrui.

Diverse sono le conseguenze sanzionatorie delle due fattispecie.

L’atto compiuto da persona che risulta essere incapace di intendere o di volere, in presenza del grave pregiudizio all’autore o della malafede dell’altro contraente, può essere annullato nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto. Il legislatore del ’42 optò per l’annullabilità, in luogo della più grave sanzione della nullità, mentre la dottrina precedente l’entrata in vigore del codice civile era favorevole alla sanzione della nullità, sul presupposto di un difetto radicale del consenso[12].

L’atto compiuto in conseguenza del reato di circonvenzione d’incapace, secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, è nullo per contrarietà a norma imperativa, cioè la norma penale incriminatrice del reato[13].

Questa impostazione è criticata in dottrina[14] dove è stata evidenziata la contraddizione di applicare una sanzione più grave (la nullità) ad una fattispecie dove il difetto della volontà è minore mentre prevale il dolo dell’autore del reato, rispetto al caso di completa incapacità di intendere o di volere, sanzionato con l’annullabilità. La nullità dell’atto posto in essere per effetto di circonvenzione d’incapace è, al contrario, giustificata dalla giurisprudenza prevalente con la maggiore ampiezza della carica offensiva del delitto di circonvenzione d’incapace, lesivo del libero esercizio dell’autodeterminazione nella cura dei propri interessi e nella conseguente corretta ed affidabile circolazione dei beni, che estende la sua pericolosità oltre il compimento del singolo atto[15]. La disciplina dell’incapacità naturale mira a tutelare il patrimonio dell’incapace mentre la circonvenzione, imperniata su un’attività di induzione a compiere atti pregiudizievoli per sé, lede la persona dell’infermo[16] e la libertà negoziale dei soggetti deboli e svantaggiati[17].

3. Casistica Casi 1: Trib. Genova 30 giugno 2011 [18]

Vendita dell’unico immobile (con riserva di abitazione) ad una signora “vicina” al venditore, anche se non legata ad alcun rapporto di parentela, per il prezzo di euro 23.000, corrisposto al nipote dell’acquirente.

L’attore denuncia il nipote dell’acquirente per circonvenzione d’incapace e chiede l’annullamento del contratto di compravendita per incapacità di intendere e volere. Il procedimento penale si chiude con l’archiviazione.

In sede civile, il Tribunale, sulla base di una perizia d’ufficio, che si è basata su cartelle cliniche relative a ricoveri occorsi al venditore in un arco temporale comprendente anche il momento della conclusione del contratto, ha accertato l’impossibilità per l’attore di comprendere la complessità del contratto e decidere autonomamente gli atti dispositivi da compiere.

Oltre alla perizia tecnica, il Tribunale ha valutato ulteriori elementi indiziari ritenuti idonei a sostenere l’accertamento dell’incapacità: l’oggettiva mancanza di vantaggio economico per il venditore; il corrispettivo pattuito, per quanto basso, non fu mai versato; la precaria condizione economica del venditore, il quale con la vendita esauriva il proprio patrimonio, unica garanzia per il sostentamento futuro; il pagamento anomalo al nipote dell’acquirente non giustificato da alcuna causale (quali ricompense per assistenza passata o futura).

Il rapporto di vicinanza delle parti rende inverosimile l’inconsapevolezza dell’incapacità e della natura svantaggiosa dell’operazione per il venditore.

Caso 2: Cass. 16 gennaio 2007, n. 856 [19]

Una donna novantenne, pochi mesi prima della propria morte, aveva venduto un appartamento per un prezzo non commisurato al suo valore molto rilevante.

Da alcuni anni la venditrice dava segni di decadimento psichico, come risultava anche da documentazione clinica.

La figlia adottiva agiva per la dichiarazione di nullità del contratto. Da alcune testimonianze è emerso che la venditrice aveva allucinazioni; non distingueva tra giorno e notte; credeva che i medici curanti fossero suoi aggressori; nonostante avesse solamente una figlia adottiva, era convinta di avere portato a termine solo una gravidanza su tre; non riusciva più a fare calcoli; non riconosceva il valore delle cose e del denaro.

Un’altra anomalia dell’operazione era consistita nelle modalità di pagamento del prezzo: la venditrice aveva insistentemente preteso il pagamento del prezzo della compravendita in contanti, in banconote da lire centomila, e, durante i periodi di degenza in ospedale, ricorrendo a fonti esterne alla struttura ospedaliera, si era procurata farmaci di cui abusava all’insaputa dei medici.

Sono state considerate circostanze ininfluenti, ai fini della valutazione della capacità della venditrice: i) il fatto che avesse conservato una buona grafia e ii) che avesse fatto testamento pubblico, poiché la grafia non dimostra integrità delle funzioni intellettive e volitive e l’eventuale apprezzamento del notaio rogante in ordine alla sua capacità non è coperto dall’efficacia probatoria dell’atto pubblico[20].

Caso 3: Cass. 27 febbraio 2023, n. 18848

La sorella, ha venduto al fratello la nuda proprietà di un immobile e successivamente ha rinunciato al diritto di usufrutto. Nei due atti il notaio aveva dato conto che la venditrice/rinunciante era un soggetto parzialmente privo dell’udito ma capace di leggere e scrivere.

La venditrice/rinunciante ha chiesto al tribunale di accertare la nullità dei due atti poiché sosteneva di avere dichiarato di essere affetta da una grave forma di sordomutismo risultante da una certificazione e nei due atti non risultava tale dichiarazione né erano state osservare le formalità prescritte dalla legge notarile a favore del sordo (lettura dell’atto e dichiarazione di conformità del contenuto alla volontà del soggetto minorato). Le domande sono state respinte dal tribunale e la sentenza è stata confermata dalla corte d’appello, per la ragione principale che l’attrice non aveva proposto querela di falso per rimuovere l’efficacia probatoria dei due atti, con conseguente legittimo esonero del notaio dall’obbligo di adottare le formalità di cui agli articoli 56 e 57 l. not.

Il problema principale affrontato dalla sentenza riguarda la contestazione da parte dell’attrice della menzione con cui il notaio dava conto della dichiarazione della venditrice/rinunciante di essere soggetto parzialmente privo dell’udito ma capace di leggere e scrivere. La Cassazione ha confermato l’interpretazione della Corte d’appello secondo cui il notaio non ha accertato la condizione fisica della parte (l’atto pubblico non fa piena prova di affermazioni del pubblico ufficiale che si risolvono in suoi personali apprezzamenti o giudizi[21]), al contrario è stata la parte stessa a dichiarare di essere parzialmente priva dell’udito ma di sapere leggere e scrivere, con la conseguenza che la dichiarazione della parte documentata nell’atto pubblico è coperta da fede privilegiata che può essere superata solamente con la querela di falso, non trattandosi di una valutazione personale del professionista (art. 2700 c.c.).

La sentenza ha inoltre rilevato che dalle risultanze istruttore era emerso che la ricorrente era capace di gestirsi normalmente con apparecchio acustico e che aveva reso la stessa dichiarazione contenuta negli atti impugnati ad altro notaio nell’atto di acquisto dello stesso immobile pochi mesi prima; che l’immobile era stato venduto per l’acquisto di un altro immobile con l’aiuto paterno, sicché nessun raggiro era stato compiuto ai suoi danni dal fratello.

Caso 4: Trib. Milano 2 settembre 2010 [22]

Un medico specialista responsabile dell’unità operativa di urologia di una casa di cura privata stipulava un contratto di locazione finanziaria avente a oggetto l’acquisto di un macchinario. All’atto della stipula del contratto il medico non versava in condizioni di salute di normalità psichica, come accertato nel corso della consulenza medico legale, essendo affetto da esuberanza maniacale, all’interno di un disturbo bipolare.

Il tribunale rigettava la domanda di annullamento del contratto rilevando che la condotta dell’attore, nella fase delle trattative ed all’atto della stipula del contratto di leasing era priva di elementi o connotazioni oggettive idonee ad ingenerare nella controparte, secondo le nozioni di comune esperienza, il sospetto di una incapacità, ancorché transitoria o parziale, di intendere e di volere del proprio interlocutore. In particolare, il tribunale ha valutato la circostanza della pertinenza del bene rispetto all’attività professionale esercitata dall’attore, per cui doveva escludersi che la convenuta fosse in grado, adoperando l’ordinaria diligenza, di avvedersi della sussistenza di un pregiudizio a carico dell’utilizzatore all’atto del perfezionamento del contratto. Nella fattispecie il tribunale ha ritenuto che mancasse la mala fede della convenuta, in qualità di concedente.

4. L’incapacità naturale del testatore

L’annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza del significato dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, con il conseguente onere, a carico di chi quello stato di  incapacità assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere[23]. Non ogni anomalia o alterazione delle facoltà intellettuali implica incapacità di testare ma occorre, a tale effetto, che l’anomalia incida totalmente sulla coscienza dei propri atti[24]

Non ricorre l’incapacità naturale idonea ad invalidare il testamento ex art. 591 c.c. la presenza di un minimo decadimento delle facoltà mentali, desumentesi da mere anomalie comportamentali, non compromettente le funzioni volitive e la capacità critica[25].

È stato ulteriormente precisato che per aversi incapacità naturale non è sufficiente che il processo di formazione e di estrinsecazione della volontà sia un qualunque modo alterato o turbato, come frequentemente avviene nel caso di grave malattia, ma è necessario che lo stato psicofisico del soggetto sia in quel momento tale da sopprimere l’attitudine a determinarsi coscientemente e liberamente, essendo la regola la capacità di agire del soggetto e dovendo, pertanto, la sua incapacità, che costituisce un’eccezione, essere provata in modo serio e rigoroso[26].

Né lo stato d’ira né l’ostilità versi la persona pretermessa dal testatore possono determinare l’invalidità del testamento, se essi non tolgono in modo completo la capacità di intendere e di volere, se cioè essi restano limitati alla sfera affettiva, senza spiegare alcuna efficace azione sulla coscienza e sulla volontà[27]. È stato negato carattere patologico a manifestazione di ira e di rancore connesse all’apprendimento da parte del testatore di notizie inattese che lo inducano a mutare le disposizioni testamentarie a favore di precedenti beneficiari[28].Gli stati passionali non costituiscono di per sé causa di riduzione della capacità psichica, tranne che provochino nel soggetto un disordine mentale di tale intensità da privarlo, sia pure temporaneamente, della capacità di intendere[29].

Lo stato di incapacità di testare deve essere valutato con particolare rigore, essendo necessario fornire la prova che il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della facoltà di concepire ed esprimere liberamente la propria volontà[30]. È stato precisato che “l’incapacità di testare ai sensi dell’art. 591, n. 3, c.c. è quindi una totale obnubilazione della mente del testatore, da renderlo totalmente incapace di intendere il significato della sua condotta e di assumerne volontariamente le conseguenze”[31].

Quanto all’onere della prova, si distingue tra infermità permanente e abituale, cui presuntivamente si ricollega uno stato di incapacità naturale, e infermità a carattere intermittente, per la quale non opera una presunzione di incapacità, con conseguente onere, a carico di chi quello stato assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere[32].

Nel caso di provata infermità mentale tipica, permanente o abituale, insuscettibile di alcun miglioramento, è posta a carico di chi afferma la validità del testamento la prova della compilazione del testamento in un momento di lucido intervallo, poiché in quel caso la normalità che si si presume è l’incapacità. Nei casi diversi dall’incapacità mentale tipica, permanente o abituale non è consentito affermare l’incapacità del testatore sulla base dell’accertamento che costui, in tempo anteriore o posteriore alla data del testamento, si sia trovato in stato di infermità mentale, dovendo in tal caso accertarsi le condizioni mentali del testatore nel momento in cui redasse il testamento[33].

Nessuna disposizione di legge impone di accertare, mediante consulenza psichiatrica, le condizioni mentali del testatore, al fine di giudicare sulla validità o meno del suo testamento, quando dalle altre prove in atti risultano elementi sufficienti a convincere il giudice della sanità o infermità di mente del testatore stesso, sì da rendere la consulenza superflua o inutile[34].

Non sono privati della capacità di testare l’inabilitato e il soggetto al quale è stato nominato un amministratore di sostegno il quale, come regola generale, conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedano la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (art. 409, comma 1, c.c.). Il giudice tutelare può prevedere d’ufficio, sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive modifiche, la limitazione della capacità di testare o donare del beneficiario, ove le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà[35].

5. Casistica Caso 5: App. Milano 6 maggio 2022, n. 1515

Nel caso deciso da App. Milano 6 maggio 2022, n. 1515 si chiedeva l’annullamento di un testamento segreto con il quale l’anziana testatrice aveva disposto del suo patrimonio in difformità a tutte le disposizioni precedenti.

Non sono stati ritenuti elementi determinanti per giudicare l’incapacità naturale della testatrice, in assenza di documentati elementi di segno contrario di natura medico-legale, l’età avanzata della de cuius in sé considerata né la sua infermità fisica, seppur tale da rendere necessaria un’assistenza continuativa, sottolineando come la difficoltà di deambulazione o persino condizioni di allettamento non siano di per sé significative di carenza o di incapacità di intendere e di volere. 

È stata ritenuta ininfluente, ai fini della prova dell’incapacità, la documentazione medica allegata alla richiesta di riconoscimento dell’invalidità civile trasmessa all’INPS circa un anno dopo la redazione del testamento impugnato, trattandosi di certificazione specificatamente finalizzata all’ottenimento di agevolazioni amministrative e, come tale, non rilevante ai fini dell’accertamento dello stato di capacità della testatrice, ed essendo successiva di oltre un anno rispetto alla data di redazione della scheda testamentaria. 

La Corte ha infine ritenuto opportuno anche non ignorare il contenuto intrinseco dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle disposizioni in esso espresse, con riferimento ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Il contenuto del testamento risultava significativo di una volontà lucida e determinata, assolutamente avulsa da espressioni eccentriche, incomprensibili o addirittura farneticanti.

Caso 6: Corte d’appello Torino 28 marzo 2022, n. 340

Il tribunale di Torino ha annullato un testamento olografo della de cuius redatto in data 11 marzo 2013 per incapacità di intendere e di volere della testatrice al momento della redazione dell’atto in quanto era affetta, a partire dal novembre 2012, da un “quadro di deterioramento cognitivo ingravescente nell’ambito del quale si sono evidenziati temi deliranti di tipo persecutorio incentrati sui familiari accusati di volersi impossessare dei suoi beni”. Il testamento impugnato conteneva disposizioni confermative di un testamento anteriore redatto il 10 luglio 2006, sempre favorevoli agli attori mentre la testatrice aveva redatto un testamento il 14 luglio 2012 favorevole ai parenti che agivano in giudizio, e alcuni testi avevano riferito di uno sfogo della testatrice “di essere stata costretta da certi altri parenti serpenti alla redazione di un nuovo testamento”.

L’accertamento della incapacità naturale della testatrice si è basato sugli esiti del secondo ricovero ospedaliero svoltosi nel dicembre 2012 mentre nella relazione di un medico psichiatra del dipartimento di salute mentale redatta il 12 luglio 2013, a distanza di quattro mesi dalla redazione del testamento, all’esito di una visita personale domiciliare, la paziente era stata descritta come “vigile, lucida, orientata nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone…”, il medico aveva trovato la donna curata nell’aspetto, nell’abbigliamento e attenta alla gestione domestica, oltre che disponibile al dialogo. La relazione riferiva ancora che “le abilità della paziente e il suo funzionamento globale sono superiori a quanto attendibile in relazione alla sua età”. La buona condizione della donna era confermata anche da una relazione dell’assistente sociale redatta in occasione di una visita domiciliare pochi giorni dopo. Inoltre, dal dicembre 2012 all’aprile 2014 la testatrice aveva vissuto da sola e in piena autonomia, in grado di badare a se stessa ed ai propri interessi. Rileva la Cassazione che in tutte le attestazioni mediche si segnala l’insorgenza di uno stato emotivo di agitazione e di confusione unicamente in dipendenza del timore di essere depredata dai familiari, che volevano appropriarsi dei suoi beni prima della sua morte.

La Cassazione ha affermato che non è stata provata l’incapacità di intendere e di volere della testatrice al momento della redazione del testamento. Ha, inoltre, ritenuto che deponessero a favore della capacità della testatrice alcuni elementi della scheda testamentaria: il testamento è privo di cancellature o abrasioni, è redatto con una grafia ordinata e corretta, è privo di errori e la grafia risulta invariata dal 2006; ha valorizzato anche la pluriennale frequentazione tra la famiglia beneficiaria delle disposizioni testamentarie e la de cuius, comprovata dalla perfetta coerenza delle schede testamentarie del 2006 e del 2013. La Cassazione ha riformato integralmente la sentenza impugnata ed ha respinto la domanda azionata nel primo grado di giudizio.

6. Conclusione

Esaminando la problematica dal punto di vista notarile, si può osservare che l’incapacità di intendere o di volere implica un decadimento molto grave delle capacità psichiche del soggetto che non è più in grado di autodeterminarsi oppure di valutare criticamente le conseguenze delle proprie scelte oppure di determinare in maniera consapevole il contenuto del regolamento negoziale. Assumono particolare importanza la correttezza del regolamento negoziale e l’equilibrio tra le prestazioni indicate nel contratto e le obbligazioni reciproche delle parti. Infatti l’atto può essere annullato se ne deriva un grave pregiudizio per la parte e il contratto può essere annullato se risulta la mala fede dell’altro contraente.

Altro aspetto da tenere in considerazione è il rapporto tra le parti: con il reato di circonvenzione d’incapace una parte abusa dello stato di debolezza psichica dell’altra parte, che non coincide necessariamente con l’incapacità di intendere o di volere; la situazione di debolezza della parte lesa può derivare da varie cause che diminuiscano notevolmente la sua capacità di critica ed i suoi poteri di difesa, quali l’età, la debolezza di carattere, la carenza di cultura e di rapporti interpersonali. Le circostanze del caso concreto possono far trasparire una situazione relazionale anomala dove una parte abusa della condizione di difficoltà dell’altra parte per trarne un vantaggio economico.

L’incapacità naturale del testatore è l’aspetto più delicato nella professione notarile: l’incapacità del testatore deve essere notevole, il soggetto deve risultare privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza del significato dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi; non ogni anomalia o alterazione delle facoltà intellettuali implica incapacità di testare ma occorre, a tale effetto, che l’anomalia incida totalmente sulla coscienza dei propri atti; non è sufficiente a determinare incapacità un minimo decadimento delle facoltà mentali, desumentesi da mere anomalie comportamentali, non compromettente le funzioni volitive e la capacità critica.

Si consideri che la capacità di testare è la regola e l’incapacità del testatore al momento della redazione del testamento deve essere provata da chi voglia far valere l’incapacità. Il notaio non può privare il testatore della facoltà di disporre mortis causa del suo patrimonio se non a fronte di una incapacità evidente e conclamata, ad esempio nel caso che la persona non sia più orientata nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone oppure manifesti delle volontà confuse o bizzarre. La prassi giudiziaria dimostra che, in molti casi, le azioni volte a far annullare un testamento per incapacità del testatore non vengono accolte dalla giurisprudenza per il mancato assolvimento dell’onere della prova. Un elemento di pericolosità sono le relazioni mediche redatte al momento della dimissione del paziente dopo un ricovero ospedaliero; è opportuno chiedere se esistano delle relazioni mediche e, in caso positivo, richiedere una relazione aggiornata perché, come emerge dalla giurisprudenza, è possibile che un anziano appaia confuso e disorientato in seguito al ricovero ospedaliero ma che abbia un miglioramento nelle condizioni psico fisiche dopo il rientro nel suo ambiente domestico familiare.

Di regola, non determina incapacità di intendere o di volere lo stato d’ira o l’ostilità verso persone pretermesse dal testatore, salvo che non comportino vere e proprie turbe psichiche e sfocino nella incapacità di intendere o di volere.

In ultima analisi, si può affermare che al notaio non è richiesta una valutazione delle condizioni di salute del cliente ma l’accertamento che lo stesso, anche se anziano oppure malato, ha conservato una residua capacità di comprendere il contenuto e gli effetti dell’atto che sta per sottoscrivere, tenendo in attenta considerazione la serietà e la coerenza delle volontà manifestate dalla persona, la compatibilità con la sua situazione familiare e personale, la correttezza e l’equilibrio del regolamento contrattuale e i rapporti tra le diverse persone che intervengono nell’atto[36]

Poiché al notaio non compete un esame medico del cliente né è obbligato dalla legge a richiedere certificati medici sulle sue condizioni di salute[37], né può impedire al testatore di redigere in forma pubblica il suo “atto di ultima volontà” in attesa di una perizia medico-specialistica la cui produzione può richiedere lunghi tempi di attesa, non sussiste alcuna responsabilità civile né professionale del notaio che abbia ricevuto un testamento di un soggetto che, al momento della redazione del testamento, risulta essere al colloquio con il notaio lucido, orientato nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone, e che esprime delle volontà serie e coerenti rispetto ai sentimenti ed ai fini che le ispirano.

Note

[1] Caracciolo, L’incapacità naturale tra questioni di sostanza e problemi di prova, in Nuova giur civ. comm., 2007, 11061.

[2] Cass. 10 novembre 1960, n. 3010, in Giur. it., 1961, I, 1, 1304.

[3] Pescara, La figura dell’incapacità naturale, in Trattato Rescigno, 4, Utet, 1997, 873 ss.

[4] Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale: la prova dei presupposti nel giudizio di annullamento, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 10035 ss.

[5] Cass. 8 marzo 2005, n. 4967; Cass. 26 maggio 2000, n. 6999.

[6] Sulla disputa se, oltre alla mala fede dell’altro contraente, occorra, anche per i contratti, la sussistenza di un grave pregiudizio per il suo autore si veda Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale, cit.

[7] Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1982, 141.

[8] Cass. pen. 4 marzo 1970, n. 439; Cass. 20 settembre 1979, n. 4824.

[9] Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 1994, 338.

[10] Cfr. Cass. 19 maggio 2016, n. 10329, in Giur. it., 2017, 40 ss.

[11] Cass. n. 36424/2015.

[12] Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale, cit.; Spangaro, in Comm. cod. civ., diretto da Gabrielli, Utet, 2009, sub. art. 428, 446, nota 17.

[13] Cass. 20 aprile 2016, n. 7785; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2680, in Giust. civ., 2009, I, 1094; Cass. pen. 23 aprile 2008, n. 27412.

[14] Cfr. Amendola, Circonvenzione di incapaci e violazione di norme imperative, in Giur. it., 2017, 43 ss.; Riva, Sulla sorte del contratto concluso per effetto di circonvenzione d’incapace, in Giur. it., 2017, 50 ss.

[15] Cfr. Cass. 19 maggio 2016, n. 10329; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2860; Cass. 23 maggio 2006, n. 12126; Cass. 27 gennaio 2004, 1427.

[16] Amendola, Circonvenzione di incapaci e violazione di norme imperative, cit., 47.

[17] Riva, Sulla sorte del contratto concluso per effetto di circonvenzione d’incapace, cit., 50.

[18] Commentata in Nuova giur. civ. comm., 2012, 10035, con nota di Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale: la prova dei presupposti nel giudizio di annullamento, cit.

[19] Commentata in Nuova giur civ. comm., 2007, 11061, con nota di Caracciolo, L’incapacità naturale tra questioni di sostanza e problemi di prova, cit.

[20] Sul punto è stato affermato in giurisprudenza che l’attestazione del notaio circa lo stato di piena capacità mentale del presentatore della scheda di un testamento segreto, pur non impedendo ai soggetti interessati di provare il contrario con qualsiasi mezzo di prova, rappresenta tuttavia un fatto da cui è lecito dedurre almeno la mancanza di segni apparenti d’incapacità del testatore all’atto della presentazione della scheda al pubblico ufficiale (Cass. 4 maggio 1982, n. 2741) e che le attestazioni del notaio circa la sanità mentale del testatore costituiscono un valido elemento di prova circa il vero atteggiamento assunto e mantenuto dal testatore durante la redazione dell’atto e accertato dal notaio stesso (Cass. 2 agosto 1986, n. 2152).

[21] La pubblica fede non si estende alla dichiarazione del notaio circa il possesso, da parte di uno dei contraenti, della capacità di intendere e di volere (Cass. 27 aprile 2006, n. 9646; Cass. 9 marzo 2012, n. 3787; Cass. ord. 28 ottobre 2019, n. 27489).

[22] Commentata in I Contratti, 11, 2010, 1033, con nota di Amendolagine.

[23] Cass. 15 aprile 2010, n. 9081; Cass. 29 ottobre 2008, n. 26002; Cass. 6 maggio 2005, n. 9508; Cass. 18 aprile 2005, n. 8079; Cass. 30 gennaio 2003, n. 1444; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480.

[24] Cass. 29 ottobre 2008, n. 26002, cit.

[25] Cass. 11 aprile 2007, n. 8728.

[26] Cass. 22 marzo 1985, n. 2074.

[27] Cass. 10 gennaio 1967, n. 97; Cass. 21 gennaio 1957, n. 166.

[28] Cass. 19 marzo 1980, n. 1851.

[29] Cass. 7 luglio 1978, n. 3411.

[30] Cass. 11 aprile 2007, n. 8728, cit.; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480, cit.; Cass. 24 ottobre 1998, n. 10571; Cass. 23 gennaio 1991, n. 652.

[31] Tagliaferri, La capacità e l’incapacità di disporre per testamento, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, tomo primo, Utet, 2023, 568.

[32] Cass. 10 ottobre 2018, n. 25053; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480, cit.

[33] Cass. 29 luglio 1981, n. 4856.

[34] Cass. 18 novembre 1974, n. 3680; Cass. 24 ottobre 1969, n. 3496.

[35] Cass. 21 maggio 2018, n. 12460.

[36] Secondo la giurisprudenza, il giudice chiamato a pronunziarsi circa l’invalidità del testamento per incapacità di intendere e di volere del de cuius può e deve vagliare, in primo luogo, il contenuto dell’atto, al fine di acquisire utili elementi di giudizio attraverso l’indagine circa la serietà, la normalità e la coerenza delle disposizioni, nonché dei sentimenti e dei fini dai quali esso risulta ispirato (Cass. 10 novembre 1960, n. 3010; Cass. 22 maggio 1995, n. 5620).

[37] Cass. 21 maggio 2018, n. 12460, cit. ha escluso per il giudice l’esistenza di un obbligo di legge di accertare, mediante consulenza psichiatrica, le condizioni mentali del testatore, al fine di giudicare sulla validità o meno del suo testamento, quando dalle altre prove in atti risultano elementi sufficienti a convincere il giudice della sanità o infermità di mente del testatore stesso, sì da rendere la consulenza superflua o inutile.

La capacità di intendere e di volere nell’attività notarile. Osservazioni casistiche ultima modifica: 2024-01-24T08:30:00+01:00 da Redazione Federnotizie

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