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Donazione indiretta tramite bonifico per l’acquisto di un immobile

News Federnotizie - Ven, 09/12/2025 - 09:30

Sommario: 1. Premessa2. La vicenda3. La decisione4. Liberalità indiretta realizzata mediante dazione di somma di denaro finalizzata all’acquisto di un immobile5. Conclusione

1. Premessa

La recente sentenza del tribunale di Catanzaro n. 1208 del 17 giugno 2025 esamina una fattispecie molto interessante per l’attività notarile: la messa a disposizione di una somma di denaro, per spirito di liberalità, finalizzata all’acquisto di un immobile intestato al beneficiario della liberalità. L’accennata procedura è frequentissima negli acquisti immobiliari da parte di giovani a favore dei quali gli ascendenti, qualche tempo prima della data fissata per l’atto notarile di acquisto dell’immobile, mettono a disposizione somme di denaro, non di modico valore, tramite bonifici bancari accreditati nel conto corrente del futuro acquirente dell’immobile.

La fattispecie esaminata dalla sentenza in esame riguarda l’aspetto patologico della vicenda, in cui il disponente, dopo avere effettuato bonifici bancari di rilevante valore, chiede giudizialmente la restituzione delle somme alla beneficiaria, come si dirà in seguito. La sentenza è interessante perché analizza gli elementi essenziali della fattispecie idonei a realizzare una liberalità indiretta valida, nonostante la dazione di somme di denaro di rilevante valore sia stata effettuata senza l’atto pubblico con la presenza dei testimoni.

2. La vicenda

L’attore assumeva di avere conosciuto la convenuta per ragioni di lavoro e di averla incaricata di acquistare un’abitazione e precisava che, per l’acquisto dell’immobile, le aveva trasferito la somma complessiva di euro 280.000, mediante diversi bonifici bancari, tra dicembre 2022 e febbraio 2023, con causale “per acquisto casa”; chiedeva al tribunale di ordinare la restituzione della somma di euro 280.000 per l’inadempimento della convenuta al mandato conferitole o, in subordine, per la nullità della donazione della somma di denaro per difetto di forma. La convenuta replicava che la somma di euro 280.000 era stata corrisposta a titolo di donazione indiretta e quale liberalità al fine di acquistare l’immobile da intestare alla stessa e che l’acquisto era effettivamente avvenuto.

3. La decisione

Il tribunale, sulla base delle risultanze istruttorie, costituite principalmente da messaggi WhatsApp tra le parti, oltre a una testimonianza, ha accertato che l’attore aveva espresso nel dicembre 2022 la libera e consapevole volontà di acquistare un immobile da donare alla convenuta, insistendo affinché quest’ultima accettasse la sua proposta, senza porre condizione alcuna, autorizzandola anche a intestare il preliminare di vendita direttamente a se stessa e che l’acquisto dell’immobile risultava concretamente realizzato.

Il tribunale ha, quindi, accertato che l’attore aveva corrisposto alla convenuta la somma di euro 280.000 proprio al fine di consentire alla stessa di acquistare un’abitazione, per puro spirito di liberalità, e che era dimostrato il nesso strumentale e teleologico che legava la corresponsione del denaro con l’acquisto dell’immobile, confermato dalla perfetta coincidenza tra il prezzo del bene e la somma trasferita alla convenuta con diversi bonifici di ingente valore.

Il tribunale ha concluso che «l’intera operazione negoziale assume espliciti connotati identificativi di un negozio indiretto; si caratterizza, infatti, da un primo atto giuridico (corresponsione di denaro) e da un secondo negozio (compravendita), entrambi intrinsecamente collegati, dai quali si evince chiaramente – per le anzidette ragioni – lo spirito di liberalità sotteso all’approvvigionamento della somma necessaria a consentire alla convenuta l’acquisto dello specifico immobile».

La decisione è apprezzabile perché ricostruisce in maniera corretta la procedura di realizzazione della liberalità indiretta effettuata mediante la corresponsione di una somma di denaro non di modico valore finalizzata all’acquisto di un immobile, sulla base di un accordo solitamente verbale tra disponente e beneficiario. Si tratta di una fattispecie di liberalità indiretta analizzata dalla giurisprudenza[1] che va tenuta nettamente distinta sia dalla donazione diretta della somma di denaro necessaria all’acquisto dell’immobile, che richiede la forma dell’atto pubblico con la necessaria presenza dei testimoni (art. 782 c.c. e art. 48 legge n. 89/1913), sia dall’adempimento del terzo in cui il disponente estingue il debito del beneficiario della liberalità pagando tutto o parte del prezzo della compravendita direttamente al venditore, fattispecie nella quale manca un trasferimento diretto di denaro dal patrimonio del disponente al patrimonio del beneficiario.

4. Liberalità indiretta realizzata mediante dazione di somma di denaro finalizzata all’acquisto di un immobile

La fattispecie affrontata dalla sentenza in esame, che si pone al confine tra la donazione e la liberalità indiretta[2], consiste nella dazione, mediante bonifico bancario accreditato sul conto corrente intestato al beneficiario, di una somma di denaro di valore non modico, destinata, per intesa tra le parti, all’acquisto di un immobile da parte del beneficiario nei giorni successivi all’accreditamento della somma.

La fattispecie potrebbe essere inquadrata in una donazione di somma di denaro, di valore non modico, nulla per difetto della forma dell’atto pubblico notarile ricevuto alla presenza di due testimoni[3].

È possibile una diversa ricostruzione dell’operazione, più aderente all’effettiva volontà delle parti, valutando la dazione della somma di denaro come primo atto di un procedimento complesso con cui il disponente, per spirito di liberalità, intende consentire al beneficiario l’acquisto di un immobile con denaro fornito in tutto o in parte dal disponente. La somma versata sul conto corrente del beneficiario da parte del disponente è destinata all’acquisto dell’immobile; se non fosse impiegata per quello scopo, il disponente chiederebbe la restituzione della somma, non tanto per il difetto di forma della donazione ma per il mancato utilizzo della provvista per lo scopo a cui era destinata. Il procedimento posto in essere dalle parti si conclude con l’impiego della somma per l’acquisto dell’immobile e (solitamente) con la dichiarazione dell’acquirente che parte del prezzo è stata fornita dall’ascendente. È possibile dare una configurazione giuridica al procedimento in discorso, applicando la disciplina del mandato ad acquistare un immobile[4]: la dazione della somma di denaro dal disponente al beneficiario costituisce la somministrazione da parte del mandante dei mezzi necessari per l’esecuzione del mandato (art. 1719 c.c.). Ne consegue la facoltà del mandante di richiedere la restituzione della somma fornita per l’esecuzione del mandato nel caso di mancato acquisto dell’immobile da parte del mandatario, senza necessità di far valere, in via giudiziale, la nullità della donazione per difetto di forma.

La circostanza che quell’accordo tra disponente e beneficiario sia verbale non è di ostacolo all’inquadramento dell’accordo nello schema del mandato. L’accordo disciplina l’impegno del beneficiario di procedere all’acquisto in nome proprio dell’immobile, utilizzando la provvista fornita dal disponente e non comporta alcun obbligo di trasferimento immobiliare dal beneficiario al disponente. Per il contratto di mandato non è prescritto alcun onere di forma; la forma scritta è richiesta, secondo la tesi più rigorosa[5], per l’assunzione dell’obbligo di trasferimento immobiliare eventualmente contenuto nel mandato, applicando per analogia l’art. 1351 c.c. sulla forma del contratto preliminare. La giurisprudenza più recente[6] ha escluso l’obbligo della forma scritta per il mandato ad acquistare senza rappresentanza, che non costituisce fonte di alcun atto di dismissione di un diritto di proprietà o altro diritto reale su bene immobile in capo al mandante ma determina l’insorgenza di un mero diritto del medesimo al compimento dell’attività gestoria da parte del mandatario. Nel rapporto interno tra le parti sorgono effetti solo obbligatori che non comportano quelle problematiche di responsabilizzazione del consenso o certezza dell’atto che sono alla base dell’onere di forma. La Cassazione, a sezioni unite[7] ha recentemente escluso la necessità della forma scritta per il patto fiduciario che comporta l’attività di gestione di un immobile da parte del fiduciario e l’obbligo di ritrasferimento successivo dell’immobile al fiduciante solvendi causa.

Di regola, il descritto procedimento di realizzazione della liberalità indiretta si conclude con la dichiarazione, all’interno dell’atto di acquisto immobiliare, da parte del beneficiario che la somma impiegata per l’acquisto è stata messa a sua disposizione, in tutto o in parte, dal disponente mediante bonifico bancario. La dichiarazione ha una funzione civilistica, nel senso di rendere evidente la liberalità indiretta realizzata dal disponente con il complesso procedimento che si è esaminato, ma anche fiscale per favorire la presa d’atto da parte del fisco della provenienza del denaro impiegato per l’acquisto ed evitare un eventuale accertamento di ipotetici redditi non dichiarati dall’acquirente dell’immobile negli anni precedenti l’acquisto immobiliare. È possibile anche l’intervento in atto del disponente che conferma la liberalità indiretta realizzata con il complesso procedimento: tale dichiarazione ha natura di confessione stragiudiziale fatta alla parte (art. 2735 c.c.) che ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale[8] e, nella fattispecie al vaglio, rende certa l’esistenza dell’animus donandi, la causale del trasferimento della somma al beneficiario (mandato ad acquistare bene immobile) e l’irripetibilità della somma bonificata per l’acquisto immobiliare[9].

In conclusione, la fattispecie in esame rappresenta una ipotesi di liberalità indiretta poiché l’arricchimento (definitivo e irrevocabile) del patrimonio del donatario, per spirito di liberalità, è realizzato dal donante con una procedura complessa caratterizzata dai seguenti elementi: i) bonifico bancario di valore rilevante dal disponente al beneficiario; ii) acquisto dell’immobile da parte del beneficiario con l’impiego della somma fornita dal disponente; iii) accordo solitamente verbale, ma essenziale e dimostrabile, comportante l’impegno del beneficiario di utilizzare il denaro fornito dal disponente per l’acquisto dell’immobile e rivelatore dello spirito di liberalità del disponente che intende favorire l’acquisto dell’immobile da parte del beneficiario.

Si tratta chiaramente di una liberalità realizzata con uno strumento diverso dalla donazione tipica delineata dall’art. 769 c.c.[10] – che prevede il trasferimento di un diritto dal patrimonio del donante a quello del donatario oppure l’assunzione di un’obbligazione del donante nei confronti del donatario – liberalità che rientra, invece, nel novero degli atti diversi dalla donazione, secondo la definizione contenuta nell’art. 809 c.c., che sono soggetti alle stesse norme che regolano la revocazione delle donazioni per causa d’ingratitudine e per sopravvenienza di figli nonché a quelle sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota dovuta ai legittimari ed a collazione, ai sensi dell’art. 737 c.c., che assoggetta a collazione tutto ciò che i figli e i loro discendenti ed il coniuge, che concorrono alla successione, “hanno ricevuto dal defunto per  donazione direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati”.

Questa nozione è stata accolta anche dalla giurisprudenza secondo la quale si ha liberalità indiretta quando l’intento di realizzare l’arricchimento del beneficiario è raggiunto attraverso l’utilizzazione strumentale di un negozio diverso da quello della donazione tipica di cui all’art. 769 c.c., che produce, in concomitanza con l’effetto che gli è proprio, l’effetto indiretto dell’arricchimento senza corrispettivo animo donandi del destinatario della liberalità[11].

5. Conclusione

La fattispecie in esame conferma la correttezza della tesi dottrinale[12] che ricostruisce le liberalità indirette come due negozi tra loro collegati: il negozio prescelto dalle parti quale strumento per il raggiungimento del risultato ulteriore voluto (adempimento del terzo, mandato ad acquistare, vendita a prezzo vile, vendita a prezzo dilazionato, conferimento in società, ecc.) e il secondo negozio che racchiude la volontà delle parti di realizzare l’arricchimento per spirito di liberalità del beneficiario. Chi compie una liberalità indiretta non vuole realizzare il risultato tipico del negozio mezzo utilizzato ma il risultato ulteriore corrispondente alla liberalità; il negozio mezzo è solo una fase del più complesso procedimento.

L’amplissimo novero di possibili liberalità indirette, in continuo divenire, richiede nell’interprete, che si trovi ad esaminare uno o più atti che hanno come effetto l’arricchimento senza corrispettivo di una delle parti, la ricerca dell’effettiva connotazione causale, cioè della causa in concreto dell’operazione, valutando la sussistenza dello spirito di liberalità che costituisce elemento essenziale della liberalità indiretta[13].

Poiché le parti utilizzano uno strumento diverso dal contratto di donazione, è sufficiente il rispetto della forma prevista dalla legge per l’atto utilizzato mentre non è necessaria la forma dell’atto pubblico ricevuto in presenza dei testimoni; inoltre l’animus donandi non deve necessariamenterisultare dall’atto utilizzato, fermo restando la necessità della prova dell’animus donandi che garantisce la stabilità dell’attribuzione patrimoniale e quindi l’opportunità di far emergere la liberalità indiretta nell’atto notarile di acquisto dell’immobile.

La dazione della somma di denaro, che costituisce la provvista per il successivo acquisto dell’immobile, effettuata mediante bonifico bancario, non richiede, per la sua validità, la forma dell’atto pubblico ricevuto con la presenza di due testimoni, poiché non costituisce oggetto di una donazione di somma di denaro di valore non modico bensì la somministrazione da parte del mandante dei mezzi necessari per l’esecuzione del mandato (art. 1719 c.c.). La dazione della somma di denaro non ha il fine di arricchire il patrimonio del beneficiario ma è finalizzata (e quindi condizionata) al successivo acquisto dell’immobile da parte del beneficiario, la cui mancata realizzazione comporta il diritto alla ripetizione della somma da parte del disponente. L’unica forma richiesta per la realizzazione del procedimento di liberalità indiretta attuata mediante la dazione della somma di denaro finalizzata al successivo acquisto dell’immobile è quella prescritta dalla legge per l’acquisto immobiliare: forma scritta per la validità dell’atto (art. 1350, comma 1, n. 1) c.c.), atto pubblico o scrittura privata autenticata per la trascrizione dell’atto (art. 2657 c.c.). L’accordo tra le parti, che può essere anche verbale, rivela lo spirito di liberalità e dispensa il mandatario dall’obbligo di ritrasferire l’immobile acquistato al mandante, cioè a colui che ha fornito la provvista per l’acquisto dell’immobile. Il riconoscimento, nell’atto di acquisto, da parte del beneficiario, della dazione della somma di denaro finalizzata all’acquisto immobiliare è opportuno per dimostrare la provenienza del denaro ed evitare possibili accertamenti di redditi non dichiarati da parte del fisco e per lasciare traccia della liberalità indiretta ai fini della corretta valutazione del patrimonio del donante nella sua successione mortis causa e degli istituti che collegano le liberalità fatte dal de cuius con la sua successione (riunione fittizia, imputazione ex se, collazione e riduzione)[14].

Note

[1] Sul tema cfr. la fondamentale Cass, sezioni unite, 5 agosto 1992, n. 9282, in Giust. civ., 1992, I, 2991; in Foro it., 1993, I, 1544; in Vita not., 1993, 261; in Riv. not., 1993, 144; in Nuova giur. civ. comm., 1993, I, 373 che ha qualificato il procedimento in questione come liberalità indiretta dell’immobile sostenendo che nel caso del denaro dato al precipuo scopo dell’acquisto immobiliare e, quindi, o pagato direttamente all’alienante dal genitore stesso, presente alla stipulazione intercorsa tra acquirente e venditore dell’immobile, o pagato dal figlio dopo averlo ricevuto dal padre in esecuzione del complesso procedimento che il donante ha inteso adottare per ottenere il risultato della liberalità, dove c’è un collegamento tra l’elargizione del denaro paterno e l’acquisto del bene immobile da parte del figlio, si è in presenza di una donazione (indiretta) dello stesso immobile e non del denaro impiegato per il suo acquisto. In senso conforme, Cass. 14 maggio 1997, n. 4231; Cass. 29 maggio 1998, n. 5310; Cass. 24 febbraio 2004, n. 3642, in Notariato, 2004, 237; Cass. 2 settembre 2014, n. 18541, in Notariato, 2014, 637; Cass. 4 settembre 2015, n. 17604; Cass. 30 maggio 2017, n. 13619.

[2] Sul confine tra donazione tra donazione e liberalità indiretta cfr. Cass., sezioni unite, 27 luglio 2017, n. 18725, in Notariato, 2017, 569, con nota di Iaccarino; in Giur. it., 2018, 304, con nota di Cicero; in Giur. it., 2018, 1082, con nota di Pisani; in Contratti, 2018, 275, con nota di Bilardo la quale ha stabilito che il trasferimento, per spirito di liberalità, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione diretta tipica ad esecuzione indiretta. La stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi della donazione di modico valore. Cass. 5 dicembre 2024, n. 31170, in Riv. not., 2025, 116, con nota di Torroni ha affermato che il trasferimento di dossier titoli da parte del beneficiante nei confronti di un beneficiario non configura una liberalità atipica, riconducibile alla disposizione di cui all’art. 809 c.c., quando l’entità degli importi, le modalità del trasferimento e la stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppongono la stipulazione dell’atto pubblico di donazione, predisposto dall’ordinamento al fine di tutelare il donante e assicurarsi che abbia effettiva contezza del compimento di atti di disposizione del proprio patrimonio, onde evitare scelte affrettate e conseguenze potenzialmente pregiudizievoli, integrando una donazione diretta ad esecuzione indiretta, suscettibile come tale di impugnazione per mancanza del requisito formale dell’atto pubblico.

[3] Secondo Krogh, Tracciabilità delle movimentazioni finanziarie nel sistema delle donazioni e degli atti ricognitivi di liberalità, studio del CNN n. 107-2009/C, in Studi e Materiali, 2009, 1015 nel caso della precedente dazione di somma di denaro senza il rispetto dalla forma vincolata dell’atto pubblico ricevuto in presenza dei testimoni, l’atto di accertamento non sanerà la nullità conseguente al difetto di forma ma integrerà la fattispecie della donazione indiretta di cui all’art. 809 c.c. se alla ricognizione dell’avvenuta dazione della somma di denaro seguirà la rinuncia del donante alla restituzione della somma stessa, in modo che nel suo complesso potrà essere qualificata come donazione indiretta attuata mediante remissione di debito.

[4] Ragazzini, Sulla collazione dell’acquisto immobiliare effettuato dal discendente con denaro dell’ascendente, in Riv. not., 1990, 991 ss. inquadra la fattispecie nel mandato senza rappresentanza, conferito per l’acquisto immobiliare dall’ascendente al discendente, quest’ultimo esonerato dall’obbligo di ritrasferire l’immobile. Sull’utilizzo del contratto di mandato per realizzare liberalità indirette, cfr. Iaccarino, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, Torino, 2023, 3156 s.

[5] Cass. 24 gennaio 2003, n. 1137, in Giur. it., 2003, 1864; Cass. 30 agosto 1994, n. 7590, in Giur. it., 1995, 1029.

[6] Cass. 2 settembre 2013, n. 20051, in Contratti, 2014, 675 ss., con nota di Buda; in Corr. giur., 2013, 1504 ss., con nota di Mariconda; in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 675 ss., con nota di Palma; in dottrina si è affermato che la forma scritta ad substantiam è richiesta ex art. 1392 solo per la procura e non anche per il mandato, come negozio diretto a regolare i rapporti interni tra mandante e mandatario (Giorgianni, Sulla forma del mandato senza rappresentanza, in Studi in onore di Cicu, I, Milano, 1951, 417); Calvo, La proprietà del mandatario, in I contratti di destinazione patrimoniale, a cura di Calvo e Ciatti, 2014, 67 ss. sottolinea che il mandato ad acquistare non produce effetti traslativi automatici ed è quindi inidoneo a determinare ex se la circolazione di diritti immobiliari.

[7] Cass., sezioni unite, 6 marzo 2020, n. 6459, in Riv. not., 2020, 930, con nota di Torroni e Gasparinetti ha stabilito che per il patto fiduciario con oggetto immobiliare che s’innesta su un acquisto effettuato dal fiduciario per conto del fiduciante, non è richiesta la forma scritta ad substantiam; ne consegue che tale accordo, una volta provato in giudizio, è idoneo a giustificare l’accoglimento della domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di ritrasferimento gravante sul fiduciario.

[8] È giudiziale la confessione resa in giudizio. Essa forma piena prova contro colui che l’ha fatta, purché non verta su fatti relativi a diritti non disponibili (art. 2733, commi 1 e 2, c.c.).

[9] Sul negozio di accertamento delle liberalità indirette, cfr. Iaccarino, Liberalità indirette, Enunciazione dell’intento liberale quale metodologia operativa, Milanofiori Assago, 2011; Musto, La controdichiarazione testamentaria, Contributo di studio agli itinerari delle dichiarazioni ricognitive del testatore, Napoli, 2021; Trimarchi, Atti ricognitivi di liberalità non donative nella prassi notarile, in Liberalità non donative e prassi notarile, I quaderni della Fondazione italiana per il Notariato, Milano, 2008, 163; Torroni, L’accertamento negoziale di precedenti liberalità, in Riv. not., 2011, 437 ss.

[10] Per un approfondimento sulle origini storiche e sui caratteri del contratto di donazione si consenta di rinviare a Torroni, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, Torino, 2023, 2545 ss.

[11] Cass. 19 agosto 2021, n. 23127; Cass. 7 giugno 2006, n. 13337, in Notariato, 2006, 667; Cass. 7 dicembre 1989, n. 5410, in Giur. it., 1990, 1590.

[12] Torrente, La donazione, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, continuato da Schlesinger, edizione aggiornata da Carnevali e Mora, Milano, 2006, 40 ss.; Capozzi, Successioni e donazioni, Milano, 2023, 1777 s.; la ricostruzione è stata recepita in giurisprudenza da Trib. Torino 15 luglio 2004, in Foro pad., 2006, I, 677 che ha affermato «la differenza tra donazioni dirette e donazioni indirette non consiste nella diversità dell’effetto pratico che da esse deriva, quanto piuttosto nel mezzo con il quale viene attuato il fine di liberalità: questo per le prime è il contratto di donazione, per le seconde un atto che pur essendo rivolto, secondo lo scopo pratico delle parti ad attuare il medesimo fine, lo realizza obliterando la causa tipica del negozio; nelle seconde l’elargizione di una liberalità viene attuata, anziché con il negozio tipico dell’art. 769, mediante un negozio oneroso che produce, in concomitanza con l’effetto diretto che gli è proprio e in collegamento con altro negozio, l’arricchimento animo donandi del destinatario della liberalità stessa. La donazione indiretta costituisce un’ipotesi di collegamento negoziale, trattandosi non di un unico negozio, seppure con clausola speciale, bensì di due negozi diversi tra loro collegati, l’uno (c.d negozio mezzo) prescelto dalle parti quale strumento per vincolare le stesse al raggiungimento di un ulteriore risultato, e produttivo degli effetti normali, l’altro (c.d. negozio fine) accessorio ed integrativo intimamente connesso al primo produttivo degli effetti voluti dalle parti».

[13] Fusaro, In tema di liberalità non donative: ricognizione della casistica ed analisi della prassi, in Obbl. contratti, 2012, 864 ss.; Arceri, La donazione indiretta nella casistica giurisprudenziale, in Fam. dir., 2023, 73 ss.

[14] Sui rapporti tra donazione e divisione, cfr. Torroni, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, Torino, 2023, 2594 ss.

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1. Categorie rilevanti per l’apparato sanzionatorio del testo unico dell’edilizia

Il regime della c.d. fiscalizzazione degli abusi edilizi è previsto dagli artt. 33, 34 e 37 del testo unico dell’edilizia di cui al D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (di seguito TUE)[1]. Tali disposizioni si ritrovano nel Capo II del Titolo IV del TUE, titolo dedicato alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia e alle sanzioni; in particolare, il Capo II è specificamente dedicato alle sanzioni e rappresenta la parte del TUE che i notai frequentiamo maggiormente, poiché comprende gli artt. 30 e 46, che prevedono note fattispecie di nullità degli atti di trasferimento di beni immobili.

Peraltro, prima di analizzare le citate disposizioni, occorre intendersi sul significato del sintagma “fiscalizzazione”, che è estraneo al linguaggio tecnico-giuridico e richiede pertanto qualche precisazione. In particolare, l’espressione si presta ad essere utilizzata:

  • in un senso più lato, per riferirsi al pagamento di una sanzione pecuniaria a fronte di un abuso edilizio;
  • in un senso più stretto, per intendere la “trasformazione” – o, se si preferisce, la “conversione” – della sanzione della demolizione, prevista in via generale per gli abusi edilizi, in una sanzione pecuniaria.

Nel primo senso, può parlarsi di fiscalizzazione anche con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 37 TUE (interventi “eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività”), laddove la demolizione non è neppure contemplata dalla legge come possibile sanzione.

Nel secondo senso, invece, la fiscalizzazione è regolata dagli artt. 33 e 34 TUE, ossia per i casi – da un lato – di interventi di ristrutturazione eseguiti “in assenza di permesso di costruire o in totale difformità” e – dall’altro lato – di interventi “eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”. In questi due casi, il meccanismo della fiscalizzazione si atteggia – almeno nell’intenzione del legislatore – alla stregua di una regola di chiusura del sistema sanzionatorio relativo ad alcune tipologie di abuso.

Il sistema sanzionatorio previsto dal TUE per gli abusi edilizi non è particolarmente articolato, essendo imperniato – da un lato – sulla demolizione/rimozione dell’intervento illegittimo e – dall’altro lato – sulla sanzione pecuniaria, variamente graduata a seconda del tipo di intervento sanzionato, oltre naturalmente all’eventuale responsabilità penale al ricorrere delle fattispecie di reato di cui all’art. 44 TUE.

Le categorie di interventi rilevanti, ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dal TUE, sono principalmente quattro:

  • gli interventi di costruzioneeseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali”, cui sono dedicati gli artt. 31-32 TUE;
  • gli interventi di ristrutturazione eseguiti “in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”, cui è dedicato l’art. 33 TUE;
  • gli interventi “eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”, cui è dedicato in via principale l’art. 34 TUE;
  • gli interventi “eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività”, di cui all’art. 37 TUE (parliamo ovviamente di SCIA non alternativa al permesso di costruire).

Vi sono poi gli interventi “eseguiti in base a permesso annullato”, di cui all’art. 38 TUE, ma si tratta di una categoria assai peculiare, in quanto presuppone l’originaria conformità delle opere ad un titolo successivamente caducato, e per la quale è prevista una vera e propria efficacia sanante del pagamento della sanzione pecuniaria. Tralasciamo quindi, per ora, la peculiare ipotesi dell’art. 38 TUE.

2. Sanzioni e loro presupposti. Sulla possibilità di autodichiarare i presupposti della fiscalizzazione nei casi di cui all’art. 34 TUE

Sotto il profilo sanzionatorio, le quattro fattispecie appena ricordate conoscono un trattamento differenziato:

  • per le opere eseguite in assenza di permesso di costruire, in totale difformità dallo stesso o con variazioni essenziali rispetto ad esso, sono previste la demolizione e il ripristino, a pena – in caso di inottemperanza alla relativa ingiunzione – dell’acquisizione gratuita dell’opera al Comune e di una sanzione pecuniaria, oltre alla responsabilità penale per il reato previsto dall’art. 44, comma 1, lett. b, TUE;
  • per gli interventi di ristrutturazione in assenza di permesso o in totale difformità dallo stesso, sono previste la rimozione o, in alternativa, la sanzione pecuniaria, irrogata nel caso in cui, “sulla base di motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile”; oltre alla responsabilità penale per il reato ex art. 44, comma 1, lett. a, TUE;
  • per gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, è prevista la rimozione o, in alternativa, la sanzione pecuniaria, irrogata “[q]uando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”; rimane sempre ferma la responsabilità penale per il reato ex art. 44, comma 1, lett. a, TUE;
  • per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla SCIA (non alternativa al permesso), è prevista soltanto l’irrogazione della sanzione pecuniaria in via principale e non subordinatamente all’ordine di demolizione, salvo casi particolari[2]; è inoltre esclusa ogni responsabilità penale.

Ne risulta un quadro in cui, agli estremi opposti, abbiamo:

  • l’intervento in assenza di permesso di costruire o in totale difformità o con variazioni essenziali (art. 31 TUE), per cui la sanzione della demolizione non conosce alternative;
  • l’intervento in assenza o in difformità dalla SCIA (art. 37 TUE), per cui non è prevista altra sanzione che quella pecuniaria.

Al centro del quadro, invece, abbiamo due ipotesi intermedie – la ristrutturazione abusiva (art. 33 TUE) e gli interventi in parziale difformità dal permesso di costruire (art. 34 TUE) – per le quali la sanzione pecuniaria è prevista come alternativa alla demolizione, ma con presupposti diversi:

  • nel caso della ristrutturazione abusiva, essa è irrogata quando “il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile”;
  • nel caso degli interventi parzialmente difformi, la sanzione pecuniaria è irrogata “[q]uando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”.

La diversità di presupposti delle sanzioni pecuniarie discende dal diverso carattere delle violazioni:

  • una, più radicale, consistente nello svolgimento di una ristrutturazione in mancanza di provvedimento autorizzativo, sicché l’intervento deve qualificarsi come interamente abusivo;
  • una, meno grave, consistente nell’esecuzione di un intervento previo rilascio del permesso di costruire, ancorché in parziale difformità da esso, sicché l’intervento deve qualificarsi come parzialmente abusivo: in tal caso, l’abuso convive con una parte di intervento che invece è conforme al permesso di costruire e che, proprio in quanto coesistente con altra parte abusiva, non può essere pregiudicata dall’operare della sanzione nei confronti di quest’ultima.

Vi è poi l’ipotesi già ricordata di cui all’art. 37 TUE, ossia l’intervento realizzato in assenza o in difformità dalla SCIA, per il quale non si pone neppure il problema della rimessione in pristino, stante la più scarsa rilevanza delle opere abusivamente realizzate[3].

Nei due casi in cui la sanzione pecuniaria è alternativa a quella demolitoria, cioè nei due casi di fiscalizzazione in senso stretto, diversi sono i presupposti della “concedibilità” di tale sanzione (si ricordi infatti che la sanzione pecuniaria, nelle ipotesi di cui agli artt. 33 e 34 TUE, è sempre un posterius rispetto all’irrogazione in via principale della sanzione demolitoria). Infatti, mentre nel caso della ristrutturazione abusiva l’applicazione della sanzione pecuniaria è rimessa alle risultanze di un “motivato accertamento dell’ufficio tecnico comunale, [attestante che] il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile”, nel caso di interventi parzialmente difformi la sanzione pecuniaria è prevista per il semplice caso in cui “la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità”.

Si tratta, in quest’ultimo caso, di una circostanza di fatto che certamente dev’essere legalmente accertata, ma non necessariamente – come nel caso, invece, della ristrutturazione abusiva – accertata da parte di un’autorità o, comunque, di soggetti terzi. Si tratta, dunque, di una circostanza che potrebbe forse essere attestata… dallo stesso autore dell’intervento parzialmente abusivo, quindi autodichiarata, nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi dell’art. 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. Quest’ultima disposizione, com’è noto, consente di presentare alla p.a. una dichiarazione – resa con l’osservanza delle modalità di cui all’art. 38 del medesimo D.P.R. – riguardante fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato e diversi dagli stati e qualità personali di cui all’art. 46 del medesimo D.P.R.: fatti tra i quali potrebbe farsi rientrare anche l’impossibilità di demolire la parte abusiva del fabbricato senza pregiudizio della parte conforme al titolo edilizio.

È dunque vero che – fatta eccezione per il caso di cui all’art. 37 TUE – la fiscalizzazione rappresenta un’eccezione rispetto alla sanzione demolitoria, che invece rappresenta la regola: la fiscalizzazione, per prendere in prestito un’espressione cara ai processualisti, costituisce un incidente all’interno di un procedimento sanzionatorio che ha già visto l’emanazione di un ordine di demolizione[4]. Tuttavia, se si arriva a sostenere che – quantomeno nel caso di cui all’art. 34 TUE – l’impossibilità della demolizione può essere fatta constare con una dichiarazione di parte, è altrettanto vero che la fiscalizzazione diventa uno strumento nella disponibilità dei privati per “regolarizzare”, in sostanza, un immobile parzialmente difforme dal titolo edilizio. E potrebbe addirittura ipotizzarsi che sia lo stesso autore dell’abuso a promuovere il procedimento sanzionatorio per poi accedere alla misura della fiscalizzazione mediante autodichiarazione del relativo presupposto, quantomeno nelle ipotesi di cui all’art. 34 TUE.

3. (Segue) In particolare, le sanzioni pecuniarie

Mette conto, a questo punto, di soffermarsi brevemente anche sull’entità economica delle sanzioni pecuniarie previste dagli artt. 33 e 34 TUE, che oltre ad essere diverse – come abbiamo appena visto – per quanto attiene all’accertamento dei relativi presupposti, lo sono anche per la loro misura.

Nel caso della ristrutturazione abusiva (art. 33 TUE), la sanzione è irrogata:

  • per i fabbricati abitativi, in misura “pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile, conseguente alla realizzazione delle opere, determinato, con riferimento alla data di ultimazione dei lavori, in base ai criteri previsti dalla legge 27 luglio 1978, n. 392 [legge sull’equo canone] e con riferimento all’ultimo costo di produzione determinato con decreto ministeriale, aggiornato alla data di esecuzione dell’abuso, sulla base dell’indice ISTAT del costo di costruzione, con la esclusione, per i comuni non tenuti all’applicazione della legge medesima, del parametro relativo all’ubicazione e con l’equiparazione alla categoria A/1 delle categorie non comprese nell’articolo 16 della medesima legge”;
  • per i fabbricati non abitativi, in misura “pari al doppio dell’aumento del valore venale dell’immobile, determinato a cura dell’agenzia del territorio” (art. 33, comma 2, TUE).

Nel caso degli interventi parzialmente abusivi (art. 34 TUE), invece, la sanzione è irrogata:

  • per i fabbricati abitativi, in misura “pari al triplo del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978, n. 392 [legge sull’equo canone], della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire”;
  • per i fabbricati non abitativi, in misura “pari al triplo del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio” (art. 34, comma 2, TUE).

Il sistema potrebbe apparire irrazionale, se si pensa che un intervento di ristrutturazione totalmente abusivo è punito con una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore del bene ristrutturato, mentre un intervento solo parzialmente abusivo è punito oggi[5] con una sanzione pari al triplo del costo o del valore (a seconda della natura del bene) della parte di opera abusiva. L’irrazionalità è però solo apparente, in quanto il sistema sanzionatorio appare conforme al principio di adeguatezza della sanzione: nell’ipotesi di cui all’art. 34 TUE, infatti, la parte di opera realizzata abusivamente potrebbe essere anche molto esigua e, quindi, la triplicazione del relativo valore ai fini sanzionatori risponde alla generale esigenza di irrogare una sanzione che realizzi, in concreto, una funzione di deterrenza.

A tale principio sembra ispirarsi anche l’art. 37 TUE, relativo agli interventi in assenza o in difformità dalla SCIA, per i quali è prevista – ricordiamolo: in via esclusiva – l’irrogazione della sanzione pecuniaria in misura “pari al triplo dell’aumento del valore venale dell’immobile conseguente alla realizzazione degli interventi stessi e comunque in misura non inferiore a 1.032 euro”.

4. Sull’efficacia sanante della fiscalizzazione

Il discorso sin qui svolto in ordine ai presupposti delle sanzioni pecuniarie è propedeutico alla posizione della fondamentale domanda: esiste una portata sostanziale della fiscalizzazione degli abusi, tale da poterla accostare ad una sorta di sanatoria “a regime”, quantomeno quoad effectum? Si tratta di una domanda, cui parte della dottrina ha già risposto positivamente[6], che potrebbe suscitare un rinnovato interesse alla luce della conclusione, più sopra ventilata, che la sanzione demolitoria possa essere evitata, almeno nel caso di difformità parziali dal permesso di costruire, attraverso una semplice dichiarazione di parte, senza bisogno di un accertamento tecnico da parte della p.a.

L’esame della questione deve prendere le mosse dal richiamo a tre disposizioni del TUE:

  • da un lato, l’art. 38, dedicato agli interventi eseguiti in base a permesso annullato, norma che abbiamo già evocato per distinguerla dalle ipotesi di fiscalizzazione di cui agli artt. 33, 34 e 37;
  • dall’altro lato, gli artt. 36 e 36-bis, in tema di “[a]ccertamento di conformità nelle ipotesi di parziali difformità e di variazioni essenziali.

L’art. 38 TUE prevede che, in caso di annullamento del permesso di costruire in base al quale sono state eseguite opere edilizie, qualora non siano possibili né la sanatoria del titolo né la rimessione in pristino, venga irrogata “una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale”. Al pagamento di tale sanzione – ed è questo, ai nostri fini, il vero elemento d’interesse della disposizione in esame – è ricollegata una vera e propria efficacia sanante: infatti, “[l]’integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all’articolo 36”.

Si tratta di una previsione che rappresenta un unicum all’interno del TUE, nella misura in cui riconosce efficacia di sanatoria al pagamento di una sanzione pecuniaria: in tutte le altre ipotesi di sanzioni pecuniarie, previste dagli artt. 33, 34 e 37 TUE, manca una previsione analoga a quella, appena citata, dell’art. 38, comma 2, TUE. L’eventuale riconoscimento di un’efficacia sanante al pagamento delle sanzioni di cui agli artt. 33, 34 e 37 TUE non può quindi argomentarsi a partire dal dato normativo, che anzi suggerisce l’impiego dell’argomento a contrario[7], in base al quale, ove il legislatore non ha riconosciuto efficacia sanante al pagamento della sanzione pecuniaria, come ha fatto invece all’art. 38 TUE, tale riconoscimento deve intendersi escluso.

Tuttavia, qualche elemento interpretativo di segno diverso può ricavarsi dal sistema degli artt. 36 e 36-bis TUE, a norma dei quali, in caso di interventi ex artt. 33, 34 e 37 TUE (ossia – lo ricordiamo – ristrutturazioni abusive, interventi in parziale difformità dal permesso di costruire, o in assenza o difformità dalla SCIA), il responsabile dell’abuso o l’attuale proprietario dell’immobile possono ottenere il permesso di costruire in sanatoria o presentare una SCIA in sanatoria. Tale facoltà è concessa purché si sia in presenza di una doppia conformità: l’intervento deve cioè risultare “conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda, nonché ai requisiti prescritti dalla disciplina edilizia vigente al momento della realizzazione”. Ma soprattutto, per quanto qui interessa, tale facoltà è concessa fino alla scadenza del termine per la demolizione o “fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”: irrogate, cioè, le sanzioni amministrative, la legge preclude il ricorso ai titoli in sanatoria.

Gli artt. 36 e 36-bis TUB, a ben vedere, sembrano configurare un’alternativa tra l’ottenimento di un titolo in sanatoria e l’irrogazione delle sanzioni pecuniarie di cui agli artt. 33, 34 e 37 TUE, al punto che la richiesta del titolo in sanatoria deve necessariamente farsi prima di tale irrogazione, dopodiché rimane preclusa. Ma come spiegare tale alternatività, se non in base a una sorta di equipollenza sostanziale tra sanzione pecuniaria e titolo in sanatoria?

Lasciamo però da parte questo spunto interpretativo, evocato solo al fine di far constare un certo contrasto tra i dati normativi (l’art. 38 TUE da un lato, gli artt. 36 e 36-bis TUE dall’altro) e, dunque, la non decisività degli stessi per rispondere alla domanda iniziale, se la fiscalizzazione degli abusi abbia un’efficacia sanante dal punto di vista edilizio, o se, pagata la sanzione, l’immobile permanga abusivo. Da parte sua, la giurisprudenza appare attraversata da un netto contrasto circa gli effetti derivanti dal pagamento della sanzione pecuniaria:

  • secondo un consistente orientamento[8], la differenza sostanziale tra le varie ipotesi di “monetizzazione” degli abusi andrebbe ravvisata proprio negli effetti della stessa sulla regolarità dell’opera, che è sanata per espressa previsione di legge nel caso dell’art. 38 TUE, e solo “tollerata” negli altri casi[9];
  • secondo un orientamento minoritario, invece, il pagamento della sanzione produrrebbe effetti analoghi all’ottenimento del titolo in sanatoria[10].

Tale contrasto sembra perdurare anche a seguito del d.l. 29 maggio 2024, n. 69 (c.d. decreto salva casa). Infatti, da un esame della prima giurisprudenza sulla nuova nozione di stato legittimo in relazione alla fiscalizzazione, emerge come alcuni tribunali siano rimasti ancorati al dato testuale dell’art. 38 TUE e, quindi, alla differenziazione dell’ipotesi ivi prevista rispetto alle altre ipotesi di fiscalizzazione[11].

Il d.l. 69/2024, tuttavia, intervenendo sul testo dell’art. 9-bis, comma 1-bis, TUE in materia di stato legittimo dell’immobile, ha oggettivamente mutato il contesto normativo, attribuendo un ruolo nuovo alla fiscalizzazione degli abusi, la quale ora concorre alla dimostrazione dello stato legittimo[12]. Ciò significa che le difformità oggetto di fiscalizzazione (o rientranti nella disciplina sulle tolleranze, di cui diremo a breve) possono considerarsi “regolarizzate”, ai fini della dimostrazione dello stato legittimo, attraverso la prova del pagamento della sanzione (o la dichiarazione del tecnico).

Tuttavia, il mero pagamento delle sanzioni, non costituendo un titolo abilitativo, non potrà essere evocato per dimostrare, a monte, la legittimità dei titoli pregressi, secondo quanto previsto dal meccanismo di semplificazione formale di cui all’art. 9-bis, comma 1-bis, primo periodo, TUE[13]. Ai fini della dimostrazione dello stato legittimo, i pagamenti potranno quindi soltanto affiancare, in funzione integrativa, il titolo originario ovvero l’ultimo titolo, che sono i soli da cui può essere avviata la dimostrazione dello stato legittimo. In altre parole, gli obiettivi di semplificazione formale previsti dall’art. 9-bis TUE non possono essere automaticamente associati al pagamento delle sanzioni di cui agli artt. 33, 34 e 37 TUE, fatta eccezione per il caso del pagamento della sanzione ex art. 38 TUE, che produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria.

In questo contesto, peraltro, occorre considerare che lo stato legittimo dell’immobile si riverbera anche sulla situazione giuridica del proprietario pro tempore del bene che ha formato oggetto dell’intervento abusivo e, in particolare, sulle obbligazioni che possono nascere in capo a lui. Si tratta di un profilo che non può certo essere ignorato dallo stesso notaio, il quale, oltre a considerare – sotto il profilo oggettivo – il regime edilizio dell’immobile, deve anche considerare – sotto il profilo soggettivo – i rischi e le conseguenze cui può andare incontro colui che quell’immobile acquista.

Giova ricordare, a questo proposito, che l’art. 29 TUE non indica, tra i responsabili dell’abuso, il proprietario del bene o i titolari di altri diritti reali sul medesimo. Tuttavia, è pur sempre evidente che la sanzione demolitoria dispiegherà pur sempre i propri effetti a carico di costoro, secondo il noto principio (logico prima che giuridico) res perit domino. Ciò in quanto la misura repressiva che consegue all’accertamento del carattere illegittimo di un manufatto, realizzato senza titolo o in difformità dal titolo, ha carattere reale in quanto è volta non già a sanzionare il comportamento, ma principalmente a ripristinare l’ordine materiale (prima ancora che giuridico) alterato a mezzo della sopravvenienza oggettiva del manufatto privo di un giusto titolo[14]. In altri termini, siccome non si tratta di punire una condotta, bensì di adottare una misura di ricomposizione dell’ordine urbanistico che ha di mira l’eliminazione degli effetti materiali della sua illecita alterazione, la conseguenza demolitoria è opponibile anche a soggetti estranei all’attuazione del comportamento illecito[15].

Il proprietario, quindi, può essere sottoposto al procedimento repressivo dell’abuso anche senza che si sia configurato alcun suo coinvolgimento nei fatti, solo in qualità di soggetto che ha una relazione diretta col bene, per il principio di inerenza passiva della sanzione al bene stesso. Sul piano dei principi, infatti, scopo del controllo pubblico – rectius, della “[v]igilanza sull’attività urbanistico-edilizia”, per citare la rubrica dell’art. 27 TUE – è la verifica di conformità del progetto alla disciplina territoriale di riferimento: attività pubblicistica che è destinata ad incidere, per poter essere effettiva, sulla stessa conformazione del diritto di proprietà.

Ricordiamo, inoltre, che il proprietario, oltre ad essere soggetto alle misure repressive, è tenuto a fornire la prova dello stato legittimo ogniqualvolta intenda eseguire nuovi interventi sull’immobile. Lo stato legittimo è una condizione necessaria per avviare qualsiasi intervento sull’immobile che, in assenza di legittimità, comporterebbe la ripresa dell’attività illegittima, integrante un nuovo abuso edilizio.

Dalla corretta considerazione di questi elementi discende una conseguenza assai rilevante dal punto di vista pratico: che, seppur non si possa riconoscere efficacia sanante alla fiscalizzazione degli abusi, il pagamento della sanzione pecuniaria è comunque idoneo:

  • da un lato, a inibire la potestà repressiva dello Stato e, in particolare, il potere di ottenere la demolizione o comunque la rimessione in pristino dell’immobile;
  • dall’altro lato, a corroborare una verifica positiva dello stato legittimo dell’immobile ai fini del rilascio di un nuovo titolo edilizio, ferma restando la necessità di un titolo precedente[16].

Dalla fiscalizzazione discendono quindi due effetti – l’immunità dalla sanzione demolitoria e la legittimità dell’immobile – sono tipici della sanatoria, la cui produzione rende pressoché irrilevante – nella maggior parte dei casi e sempre sotto il profilo pratico – il problema se l’immobile permanga abusivo a seguito della fiscalizzazione dell’abuso. Di talché la questione della regolarità dell’immobile “fiscalizzato” assumerà, in molti casi, un carattere quasi metafisico e una funzione eminentemente qualificatoria, una volta disinnescati per il proprietario i profili di rischio normalmente connessi all’abusivismo edilizio. Al punto che si potrebbe quasi parlare, in relazione alla fiscalizzazione, di “sanatoria minore” o anche – con licenza – di sanatoria “cheap”, poiché consente di affrancare l’immobile dalle sanzioni reali e di corroborarne lo stato legittimo senza dover sopportare gli oneri – ulteriori rispetto alle sanzioni – previsti dagli artt. 36 e 36-bis TUE per l’ottenimento del titolo in sanatoria.

Dal punto di vista pratico, sarà sicuramente opportuno dare conto, negli atti di trasferimento immobiliare, dell’avvenuta fiscalizzazione, benché non vi sia alcun obbligo di farlo[17]: l’art. 46 TUE, infatti, impone soltanto la dichiarazione negli atti traslativi degli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, mentre, per quanto riguarda il pagamento delle sanzioni pecuniarie, soltanto quella ex art. 38 TUE è contemplata dall’art. 46, comma 2, TUE, che impone altresì di allegare all’atto “la prova dell’integrale pagamento” della stessa. Si tratterà, quindi, di un’indicazione facoltativa, rientrante nel più ampio novero delle clausole praeter legem in materia edilizia, tra cui possono menzionarsi, ad es., quelle dichiarative di irregolarità da sanare ancorché non ostative della commerciabilità dell’immobile: menzioni che discendono direttamente dal dovere di buona fede in contrahendo (art. 1337 cod. civ.), che impone all’alienante di rendere edotto l’acquirente circa l’irregolarità dell’immobile negoziato, e che – almeno a far tempo dal 2019[18] – non possono più rappresentare un tabù per la classe notarile.

5. Tolleranze costruttive

Il riferimento, fatto più sopra, al d.l. 69/2024 suggerisce di accennare in chiusura a un tema nuovo, strettamente collegato a quello della fiscalizzazione e, in particolare, alla fattispecie degli interventi parzialmente difformi dal titolo, di cui all’art. 34 TUE. Proprio con riferimento a tale fattispecie, infatti, bisogna oggi ricordare che non qualsiasi difformità rispetto al titolo edilizio comporta l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 34 TUE, poiché il successivo art. 34-bis prevede una serie di tolleranze costruttive (così la rubrica della disposizione), ossia delle soglie di rilevanza dell’abuso ai fini sanzionatori, al disotto delle quali l’abuso è considerato irrilevante in quanto, appunto, tollerabile[19].

L’art. 34-bis del TUE, introdotto nel 2020 al dichiarato scopo “di semplificare e accelerare le procedure edilizie e ridurre gli oneri a carico dei cittadini” (così l’incipit dell’art. 1, comma 1, d.l. 16 luglio 2020, n. 76), è stato riscritto e notevolmente ampliato dal d.l. 69/2024. Esso prevede, in via generale, un limite di tolleranza del 2% rispetto alle previsioni del titolo abilitativo (in merito all’altezza, ai distacchi, alla cubatura, alla superficie coperta e ad “ogni altro parametro delle singole unità immobiliari”): entro questo limite di tolleranza, il mancato rispetto del titolo autorizzativo “non costituisce violazione edilizia” (così il comma 1 della disposizione)[20]. Accanto a questo generale limite di tolleranza, l’art. 34-bis TUE prevede[21] che “costituiscono […] tolleranze esecutive le irregolarità geometriche e le modifiche alle finiture degli edifici di minima entità, nonché la diversa collocazione di impianti e opere interne, eseguite durante i lavori per l’attuazione di titoli abilitativi edilizi, a condizione che non comportino violazione della disciplina urbanistica ed edilizia e non pregiudichino l’agibilità dell’immobile” (comma 2).

Queste recenti disposizioni realizzano una sorta di condono gratuito di alcune difformità realizzate entro il 24 maggio 2024 (commi 1-bis, 1-ter e 2-bis) e, a regime, delle lievi difformità individuate ai commi 1 e 2. Infatti, il comma 3 dell’art. 34-bis stabilisce che le predette “tolleranze esecutive […], non costituendo violazioni edilizie, sono dichiarate dal tecnico abilitato, ai fini dell’attestazione dello stato legittimo degli immobili, nella modulistica relativa a nuove istanze, comunicazioni e segnalazioni edilizie ovvero con apposita dichiarazione asseverata allegata agli atti [!] aventi per oggetto trasferimento o costituzione, ovvero scioglimento della comunione, di diritti reali”.

Si tratta di una norma intimamente contraddittoria, perché da un lato considera regolari le difformità rientranti nelle soglie di tolleranza; dall’altro lato, non le considera comunque irrilevanti, al punto di imporne la dichiarazione da parte di un tecnico abilitato. Ciò che potrebbe anche avere un senso, guardando all’esigenza di rendere documentalmente chiara e trasparente la storia dell’immobile mediante, appunto, la dichiarazione che le discrasie tra il titolo edilizio e lo stato di fatto sono tollerabili e quindi regolari, così da evitare che debba intervenire un nuovo accertamento di regolarità in relazione a un intervento già realizzato.

Senonché, questa dichiarazione viene fatta assurgere dalla legge a onere formale: un onere di cui, però, non sono ben chiari la portata normativa e, in definitiva, la stessa ratio. Infatti, non si comprende se, nel richiedere l’allegazione della dichiarazione asseverata, il legislatore abbia inteso imporre un requisito formale di validità di tali atti, alla stregua degli oneri di allegazione e dichiarazione (ben noti alla classe notarile) di cui agli artt. 30 e 46 TUE; ovvero un semplice onere di carattere informativo, a fini di mera completezza documentale, il cui mancato adempimento non ha ricadute sul regime di validità o di efficacia degli atti traslativi o di divisione.

Tra le due opzioni interpretative, quest’ultima è ovviamente da privilegiare. Non possiamo ritenere, infatti, che il legislatore abbia inteso invalidare gli atti traslativi cui non sia allegata la dichiarazione circa la tollerabilità degli interventi difformi. E ciò per diverse ragioni:

  • anzitutto, per la mancanza di un’espressa comminatoria di nullità, cui il legislatore del TUE ricorre in altre norme come, appunto, i ricordati artt. 30 e 46, ove prevede altresì la possibilità di “integrare” gli atti per cui il requisito di forma-contenuto non sia stato, inopinatamente, rispettato;
  • secondariamente, e soprattutto, perché l’invalidità apparirebbe, in questa ipotesi, manifestamente irrazionale in quanto sproporzionata all’interesse tutelato dall’art. 34-bis TUE, che non è certo quello di colpire fenomeni di abusivismo edilizio (come nel caso dei ricordati artt. 30 e 46), bensì – molto più semplicemente – quello di rendere completa e trasparente la “storia documentale” di un immobile bensì regolare, ma comunque lievemente difforme rispetto al titolo edilizio;
  • in terzo luogo, perché l’obbligatoria allegazione verrebbe a fondare un surrettizio obbligo di garanzia in capo all’alienante della regolarità edilizia dell’immobile trasferito: un obbligo che non è imposto dalla legge in via generale e che sarebbe assurdo imporre con riferimento alle minime difformità di cui all’art. 34-bis TUE.

Nessuna conseguenza sul piano della validità e dell’efficacia dell’atto di trasferimento può quindi farsi discendere dalla mancata allegazione della dichiarazione del tecnico in merito alle tolleranze esecutive[22]. Non bisogna dimenticare, però, che tale dichiarazione concorre, al pari del pagamento delle sanzioni pecuniarie, alla determinazione dello stato legittimo dell’immobile, secondo quanto è oggi previsto dall’art. 9-bis, comma 1-bis, TUE.

Né bisogna dimenticare, infine, l’interessante previsione contenuta nell’art. 34-ter TUE, introdotto anch’esso dal d.l. 69/2024. Tale disposizione, che contiene soprattutto le “istruzioni” per sanare le varianti abusive ante legge Bucalossi, stabilisce al comma 4 che vanno soggette alla disciplina delle tolleranze costruttive, di cui all’art. 34-bis TUE, anche le parziali difformità, realizzate durante l’esecuzione dei lavori oggetto di un titolo edilizio, per le quali non siano mai stati adottati provvedimenti sanzionatori e in presenza delle quali sia intervenuta l’abitabilità o l’agibilità con provvedimento non annullabile d’ufficio. Si tratta di difformità “latenti”, di fronte alle quali la p.a. non ha mai reagito e che sono state addirittura “superate” – almeno dal punto di vista storico – dal rilascio dell’agibilità.

Ebbene, anche per queste difformità, seppur eccedenti le soglie di tolleranza di cui all’art. 34-bis TUE, il legislatore ha fatto – per così dire – un’eccezione all’art. 34 TUE e ne ha previsto la sanatoria automatica secondo la norma sulle tolleranze esecutive. Si tratta, a mio parere, di un’operazione di pulizia doverosa, anche alla luce del principio di affidamento del cittadino nei confronti della p.a., proclamato anche dalla Corte costituzionale a far tempo dagli anni 1980[23], affidamento che ben potrebbe dirsi leso nel caso in cui un procedimento sanzionatorio fosse intrapreso a seguito del rilascio di un provvedimento di agibilità non annullabile, espressione del corretto esercizio del potere amministrativo.

Note

[1] In ambito notarile, il più importante contributo sul tema è costituito dallo studio n. 70-2023/P della Commissione Studi Pubblicistici del Consiglio Nazionale del Notariato a firma di Lomonaco, La c.d. procedura di fiscalizzazione dell’illecito edilizio come prevista negli articoli 34 e 38 del testo unico dell’edilizia, ora in Studi e materiali, 2024, 83 ss., studio peraltro anteriore al d.l. 29 maggio 2024, n. 69 (c.d. decreto salva casa), ma cui si fa comunque rinvio per i numerosi ed utili riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.

[2] Solo nel caso in cui le opere realizzate in assenza di SCIA consistano in interventi di restauro e risanamento conservativo “eseguiti su immobili comunque vincolati in base a leggi statali e regionali”, l’autorità competente a vigilare sull’osservanza del vincolo “può ordinare la restituzione in pristino a cura e spese del responsabile ed irroga una sanzione pecuniaria” (art. 37, comma 2, TUE). Inoltre, qualora tali interventi siano eseguiti su immobili, anche non vincolati, compresi in “agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale” (cfr. art. 2, lett. A, d.m. 2 aprile 1968), il dirigente o il responsabile dell’ufficio richiede al Ministero per i beni e le attività culturali apposito parere vincolante circa la restituzione in pristino o l’irrogazione della sanzione pecuniaria.

[3] Si tratta di manutenzione straordinaria su parti strutturali, di restauro e risanamento conservativo su parti strutturali, di alcune ipotesi di ristrutturazione e di alcune varianti minori rispetto al permesso di costruire (ad es. quelle che non incidono sulle volumetrie, o quelle che non modificano la destinazione d’uso).

[4] La fiscalizzazione degli abusi assume anche nella giurisprudenza una funzione residuale e subordinata, al punto che non compete all’amministrazione procedente di valutare, d’ufficio, prima dell’emissione dell’ordine di demolizione, se la misura possa essere applicata. Al contrario, tale valutazione va fatta nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e presuppone l’impossibilità (generica per l’art. 33 TUE e qualificata per l’art. 34 TUE) di ottemperare all’ordine stesso mediante il ripristino della situazione preesistente: cfr. ex multae TAR Liguria, 19 agosto 2019, n. 589; TAR Campania – Napoli, 7 novembre 2023, n. 6089.

[5] A far tempo dal 2024, poiché si tratta di un regime modificato ad opera del d.l. 29 maggio 2024, n. 69 (c.d. decreto salva casa).

[6] V. Rizzi, La circolazione immobiliare. Profili pubblicistici e nuove figure negoziali3, Wolters Kluwer, 2025, 177 ss. Contra, Rezzonico-Rezzonico, Trasferimenti immobiliari e normative edilizie. Il ruolo del notaio, Giuffrè Francis Lefebvre, 2020, 266. Per ulteriori riferimenti v. Lomonaco, La c.d. procedura, cit., 88 ss.

[7] Si tratta di un argomento interpretativo di segno contrario rispetto all’interpretazione estensiva (e all’applicazione analogica della legge), il quale mira a costruire una regola di segno contrario a quella espressa dal legislatore in una determinata fattispecie analoga ad altra non espressamente disciplinata. Si tratta, in sostanza, dell’argomento ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit.

[8] Ripercorso da Cons. Stato, 15 novembre 2023, n. 9799.

[9] Cfr. Cons. Stato, 30 giugno 1984, n. 418.

[10] Cfr. TAR Emilia-Romagna – Bologna, 11 marzo 2015, n. 250.

[11] Cfr. Cons. Stato, 27 giugno 2024, n. 5666.

[12]Alla determinazione dello stato legittimo dell’immobile […] concorrono, altresì, il pagamento delle sanzioni previste dagli articoli 33, 34, 37, commi 1, 3, 5 e 6, e 38, e la dichiarazione di cui all’articolo 34-bis”. Cfr., in giurisprudenza, TAR Campania – Salerno, 16 gennaio 2025, n. 91.

[13]Lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa o da quello, rilasciato o assentito, che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o l’intera unità immobiliare, a condizione che l’amministrazione competente, in sede di rilascio del medesimo, abbia verificato la legittimità dei titoli pregressi, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali”.

[14] Cfr. Cons. Stato, 15 aprile 2015, n. 1927.

[15] Cfr. TAR Puglia – Lecce, 20 giugno 2016, n. 995; TAR Calabria – Reggio Calabria, 20 gennaio 2017, n. 47.

[16] Evidenzia Rizzi, La circolazione3, cit., 77, che “il pagamento delle sanzioni e le dichiarazioni asseverate […] potranno solo ‘concorrere’ a determinare lo stato legittimo del fabbricato ma non a ‘dimostrare’, a monte, lo stato legittimo del fabbricato, necessitando, a tal fine, il riferimento al titolo edilizio originario o all’ultimo titolo che ha interessato l’intero immobile”.

[17] Conforme Rizzi, La circolazione3, cit., 180 s.

[18] Il riferimento è a Cass., SS.UU., 22 marzo 2019, n. 8230.

[19] V. ora Rizzi, La circolazione3, cit., 69 ss., nonché lo studio n. 62-2025/P della Commissione Studi Pubblicistici del Consiglio Nazionale del Notariato a firma di Trapani, Le tolleranze costruttive ed esecutive dopo il cd. Decreto salva casa.

[20] Limiti di tolleranza maggiori, sempre espressi in percentuale, sono previsti in via transitoria dal comma 1-bis per gli interventi realizzati fino al 24 maggio 2024.

[21] Anche in tal caso con una maggiore larghezza per gli interventi realizzati fino a un anno fa (comma 2-bis).

[22] In senso conforme, Trapani, Le tolleranze, cit., 17, secondo cui “la presenza della relazione allegata al titolo […] esclude la possibilità di azionare strumenti rimediali, quali la risoluzione o l’azione quanti minoris, in via esemplificativa; va, invece, rilevato che, senz’altro, le eventuali ipotesi di nullità fuoriescono dal perimetro normativo in questione”.

[23] Cfr. Travi, La tutela dell’affidamento del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. pubblico, 2018, 121 ss.

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Circolare senza patente di guida: quali sono i rischi?

News Notai.it - Mer, 07/16/2025 - 20:01

Per condurre un qualsiasi veicolo a motore è necessario avere con sè la patente che attesti la capacità di guidare il mezzo e conoscere le regole stradali.

Garanzie del venditore e responsabilità negli atti di compravendita immobiliare

News Federnotizie - Mer, 07/16/2025 - 09:30
A cura di Vittorio Bachelet

Negli ultimi decenni, la responsabilità civile del notaio ha conosciuto una tendenza senz’altro espansiva nella giurisprudenza. In tale scenario, risulta di particolare interesse individuare gli spazi consentiti al notaio nel modulare la garanzia di conformità edilizia gravante sul venditore, domandandosi fino a che punto questi possa legittimamente limitarla ovvero estenderla, per rispondere agli interessi delle parti, senza incorrere in responsabilità.

Premessa 1. La tendenza espansiva della responsabilità notarile

Partendo da un inquadramento della responsabilità civile notarile, occorre anzitutto delineare le ragioni della sua tendenza espansiva, che riflette peraltro un’evoluzione più generale della responsabilità professionale (basti pensare, storicamente, al settore medico sanitario). In tal senso, assume rilievo il fatto che il notaio sia l’unico tra i liberi professionisti a rivestire anche la qualifica di pubblico ufficiale, come tale investito di ampi poteri a cui corrispondono gravose responsabilità. Né è marginale, a questo riguardo, ricordare che i notai costituiscono la prima categoria assistita da forme di assicurazione collettiva, circostanza che contribuisce a rendere i giudici meno esitanti a riconoscere profili di responsabilità nei loro confronti.

Tuttavia, bisogna considerare anche le criticità derivanti da un’eccessiva dilatazione della responsabilità notarile. Se, in ambito sanitario, il pericolo è che il medico rifiuti di eseguire interventi con esito incerto (c.d. medicina difensiva), in ambito notarile il rischio è paralizzare la stipula degli atti la cui legittimità non è del tutto pacifica, finendo per pregiudicare quel ruolo di “custode” e insieme di “creatore” del diritto vivente che già Carmine Donisi riconosceva al notaio (cfr. M. Palazzo, Il ruolo del notaio nella formazione del regolamento contrattuale. Un ricordo di Carmine Donisi, in Notariato, 2025, 139 ss.).

Delineate le ragioni e i limiti della tendenza espansiva della responsabilità notarile, bisogna soffermarsi sugli istituti civilistici attraverso cui essa si è venuta consolidando. 

1.1. Natura della responsabilità

Un primo snodo riguarda la natura della responsabilità, che fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso veniva intesa come extracontrattuale: si escludeva, infatti, che la richiesta del cliente potesse dare vita a un contratto con il notaio, il quale è tenuto a prestare il suo ministero in forza dell’art. 27 l. not. In seguito, si è affermata l’idea che la responsabilità notarile possa, nondimeno, qualificarsi in termini contrattuali, con ricadute significative sul piano probatorio, generalmente più favorevole al cliente rispetto al modello aquiliano: sia con riguardo al termine prescrizionale (decennale, anziché quinquennale), sia all’onere della prova della colpa del notaio (con implicazioni variabili, come si vedrà, a seconda della configurazione dell’obbligazione notarile).

La responsabilità del notaio resta di natura aquiliana nei confronti dei terzi e della parte dell’atto diversa da quella che gli ha conferito l’incarico. Tuttavia, anche verso quest’ultima essa tende ad assumere natura contrattuale in base alla teoria del “contatto sociale”, la quale, pur avendo subito un arresto normativo in ambito medico (art. 7, terzo comma, l. 24/2017, cosiddetta Gelli-Banco), conserva piena validità in altri settori.

1.2. Qualificazione della responsabilità contrattuale

Un secondo snodo riguarda il modo di intendere la responsabilità contrattuale. Lo standard di diligenza professionale fissato dall’art. 1176, secondo comma, c.c. è infatti sempre più spesso interpretato in modo così rigoroso da trasformare l’obbligazione del notaio – tradizionalmente considerata di mezzi, al pari di quella di altri professionisti – in un’obbligazione di risultato, nell’ambito della quale il mancato raggiungimento del risultato atteso dal creditore è sufficiente a far presumere l’inadempimento, salvo che il debitore dimostri di non avere colpa. In tal senso, la giurisprudenza afferma sovente che il notaio non è tenuto soltanto a garantire la regolarità formale dell’atto, ma anche il conseguimento del suo obiettivo tipico e dello scopo concretamente perseguito dalle parti attraverso di esso.

Parallelamente, si tende a interpretare in senso restrittivo la disciplina del contratto d’opera professionale, escludendo in linea di massima che il notaio si trovi ad affrontare problemi tecnici di speciale difficoltà, tali da limitarne la responsabilità alle sole ipotesi di colpa grave ovvero di dolo (art. 2236 c.c.).

1.3. Integrazione degli obblighi legali e contrattuali

Un terzo profilo attiene alla fonte degli obblighi integrativi a carico del notaio, non espressamente previsti dalla legge o dal contratto d’opera professionale stipulato con il cliente. A tale riguardo, bisogna ricordare che tali obblighi non derivano dalla diligenza in sé, la quale rappresenta, a rigore, solo un criterio di valutazione del comportamento del debitore. Derivano, piuttosto, dalla clausola di buona fede e correttezza, che consente di ampliare gli obblighi notarili integrando la scarna previsione dell’art. 47, capoverso, l. not., secondo cui questi si limita a indagare la volontà delle parti e a curare la compilazione integrale dell’atto sotto la propria direzione e responsabilità.

Proprio grazie all’operatività di tale clausola generale, il notaio affianca al tradizionale ruolo di “custode delle forme” quello di “garante del raggiungimento dello scopo” perseguito dalle parti. Tra gli obblighi integrativi che ne derivano, vi è infatti anche quello di informare e consigliare le parti, affinché l’atto rispecchi effettivamente le loro intenzioni ed esigenze.

2. La garanzia legale di conformità edilizia: inquadramento preliminare

Se, dunque, si riconosce al notaio un ampio potere-dovere nel conformare il regolamento negoziale in funzione degli interessi dei contraenti, occorre domandarsi quali limiti debba rispettare per non incorrere in responsabilità. In particolare, si vuole in questa sede chiarire fino a che punto egli possa modulare la garanzia di conformità edilizia del venditore senza esporsi al rischio di doverne poi rispondere in sede civile.

2.1. Irregolarità edilizie formali e sostanziali, tra invalidità e responsabilità

Per inquadrare la questione, va anzitutto ricordato che l’art. 46, primo comma, del Testo unico dell’edilizia prevede la nullità degli atti inter vivos che trasferiscono diritti reali su edifici costruiti dopo il 17 marzo 1985, ove «non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria» (v. già l’art. 17, primo comma, l. 47/1985 sul condono edilizio).

Com’è ampiamente noto, tale norma ha dato origine a interpretazioni contrastanti, creando incertezze sull’estensione dell’area della c.d. incommerciabilità giuridica conseguente alla nullità. Il conflitto è stato superato con la sentenza n. 8230/2019 delle Sezioni unite della Cassazione, che ha stabilito la validità del contratto qualora un titolo abilitativo esistente relativo all’immobile compravenduto sia incluso nell’atto, ancorché l’immobile sia di fatto difforme dal titolo. Si è così consolidata la tesi della “nullità formale”, la quale respinge l’applicazione estensiva o analogica delle nullità testuali di cui all’art. 1418, terzo comma, c.c., e altresì il ricorrere dell’illiceità dell’oggetto prevista dal comma precedente, in contrasto con la tesi della “nullità sostanziale”.

Tale orientamento rassicura i notai, escludendo che la compravendita di immobili abusivi integri la violazione del divieto di rogare atti proibiti dalla legge ex art. 28 l. not., esponendoli a responsabilità disciplinare (v., in generale, A. Brienza, Articolo 28: sospesi tra nullità, nullità inequivoca e… equivoca, in Federnotizie.it, 2 giugno 2023).

2.2. Responsabilità notarile nelle compravendite di immobili abusivi?

Esclusa l’invalidità, si pone tuttavia il problema di un’eventuale responsabilità civile del notaio nei confronti dell’acquirente, accanto a quella del venditore dell’immobile abusivo. Si tratterebbe, invero, di una responsabilità derivante dalla violazione di obblighi aggiuntivi rispetto a quelli stabiliti dalla legge che, come anticipato, attribuisce al professionista il ruolo di mero “indagatore” della volontà delle parti e di “curatore” dell’atto. Ciò nonostante, una tale responsabilità potrebbe risultare coerente con la richiamata funzione integrativa della buona fede, che impone obblighi di informazione e consulenza a carico del notaio, assegnandogli in ipotesi anche il ruolo di “controllore” della regolarità dell’immobile.

Certo, risulta difficile configurare un siffatto obbligo d’informazione e consiglio gravante su un professionista che ha contezza solo documentale dell’immobile e, anche ove effettuasse un’ispezione, non disporrebbe comunque delle competenze necessarie per stabilire se sia opportuno farne verificare da un tecnico la regolarità edilizia ovvero l’agibilità. Ciononostante, in questa direzione sembrano muoversi alcune pronunce della Cassazione, tra cui l’ordinanza n. 33439/2022 (in Riv. not., 2023, 184 ss., con nota di C. Natoli).

2.3. Segue. Relazione sulla regolarità edilizia e certificato di stato legittimo

Proprio nella consapevolezza dei limiti delineati – e, dunque, dell’impossibilità di cautelarsi rispetto ad addebiti relativi a compiti estranei alle proprie competenze – si è diffusa tra i notai la prassi di allegare all’atto una cosiddetta relazione sulla regolarità edilizia, redatta da un tecnico, attestante la conformità del fabbricato oggetto di compravendita al titolo abilitativo iniziale e a eventuali titoli legittimanti interventi successivi.

Tale prassi ha ricevuto, in certa misura, un riconoscimento normativo con l’introduzione dell’art. 34-bis nel Testo unico dell’edilizia ad opera del d.l. 77/2020 (c.d. decreto semplificazioni), che disciplina il «certificato di stato legittimo», asseverato da un tecnico abilitato e volto ad attestare la regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile, nonché a documentare difformità minori non qualificabili come abusi.

Il controllo affidato al tecnico rappresenta, in definitiva, il massimo livello di diligenza esigibile dal notaio il quale, evidentemente, non può sostituirsi al perito nella valutazione della regolarità – o dell’agibilità – dell’immobile (cfr., ad es., Cass. n. 14618/2017, in One legale). Proprio per questo, pur potendosi comprendere tale prudente prassi, resta comunque difficile ravvisare in capo al notaio specifici obblighi di informazione e consulenza relativamente a profili estranei alle sue competenze professionali. Va peraltro ribadito che non è la diligenza, in quanto tale, a generare simili obblighi, bensì la clausola generale di buona fede e correttezza, la quale, tuttavia, non sembra potersi spingere a tanto.

2.4. Responsabilità del venditore nella vendita di immobili abusivi

Posto, dunque, che il notaio non dovrebbe rispondere nei confronti dell’acquirente per la vendita di un immobile abusivo o inagibile, resta ferma la responsabilità del venditore verso l’acquirente. Rimane, tuttavia, la qualificazione di tale responsabilità.

2.4.1. Inadempimento dell’obbligo di consegna documentale

Secondo un orientamento, riguardante in particolare la mancanza della documentazione attestante l’agibilità dell’immobile (v. P. Tonalini, L’evoluzione del certificato di agibilità dei fabbricati e la prassi notarile, in Federnotizie.it, 15 maggio 2019), tale documentazione rientrerebbe tra i titoli e i documenti relativi alla proprietà e all’uso della cosa che il venditore è tenuto a consegnare all’acquirente ai sensi dell’art. 1477, terzo comma, c.c. (conf., ad es., Cass. n. 2438/2016, in One legale). L’agibilità verrebbe così inquadrata come attestazione dell’idoneità del bene a soddisfare la sua destinazione economico-sociale (cfr. la giurisprudenza a partire da Cass. n. 6542/1985, in Arch. civ., 1986, 408).

Tale orientamento appare tuttavia discutibile, poiché l’obbligo di consegna riguarda i documenti in possesso del venditore relativi allo stato di fatto del bene, e non anche i documenti mancanti, né tanto meno quelli che attestino requisiti che la cosa dovrebbe possedere, ma di fatto non possiede. L’ipotesi in cui difetti la documentazione attestante l’agibilità, pur essendo l’immobile conforme ai requisiti di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico richiesti dall’art. 24 del Testo unico dell’edilizia (c.d. inagibilità formale), va peraltro tenuta distinta – come vedremo – da quella in cui l’immobile ne risulti invece privo (c.d. inagibilità sostanziale), anche sotto il profilo della quantificazione del risarcimento.

2.4.2. Inadempimento dell’obbligo di consegna della cosa (c.d. aliud pro alio)

Se, dunque, l’inagibilità dell’immobile, formale o sostanziale, non comporta la violazione dell’obbligo di consegna documentale previsto dalla disciplina della vendita, l’inagibilità sostanziale o l’irregolarità dell’immobile, pur in presenza della menzione del titolo edilizio, possono configurare un vizio della cosa vendutaai sensi dell’art. 1490 c.c., rilevare come mancanza di qualità promesse o essenziali al suo uso ex art. 1497 c.c., ovvero risultare quale consegna di una bene diverso, in quanto privo delle caratteristiche minime per essere ricondotto al suo “genere” (c.d. aliud pro alio).

La tesi estensiva, secondo cui sarebbe sufficiente – ai fini dell’integrazione della fattispecie dell’aliud pro alio –il difetto della funzione economico-sociale del bene ovvero della destinazione essenziale voluta dalle parti, pur ampiamente accolta in giurisprudenza, non risulta del tutto convincente. E invero appare criticabile, nonostante la sua diffusione nel “diritto vivente”, l’applicazione stessa della figura dell’aliud pro alio. Il codice del 1942 ha infatti inteso circoscrivere l’ambito di operatività di tale costruzione giurisprudenziale, elaborata nel vigore del codice previgente per sottrarre i vizi particolarmente gravi al rigido regime di prescrizione annuale, previsto per l’azione redibitoria in materia immobiliare dall’art. 1505 cod. prev.

A tal fine, il codice vigente ha introdotto una disciplina specifica per il caso in cui la cosa venduta sia priva delle qualità promesse o di quelle essenziali all’uso a cui è destinata, riconoscendo al compratore il rimedio risolutorio, purché il difetto ecceda i limiti di tolleranza stabiliti dagli usi (art. 1497 c.c.). L’azione resta, tuttavia, soggetta ai termini brevi di decadenza (otto giorni dalla scoperta) e di prescrizione (un anno dalla consegna) previsti dall’art. 1495 c.c. per l’esercizio della garanzia contro i vizi che rendono la cosa inidonea all’uso, o ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore, a conferma della volontà legislativa di ricondurre il sistema entro canoni di tipicità e prevedibilità.

2.4.3. Garanzia per i vizi derivanti dalla mancanza di qualità promesse o essenziali

In questa prospettiva, la vendita di un immobile inagibile, o di un immobile abusivo nonostante la menzione del titolo edilizio, appare più correttamente riconducibile alla disciplina della mancanza di qualità ex art. 1497 c.c. A tutto concedere, la figura dell’aliud pro alio – quale fattispecie di inadempimento soggetta alla prescrizione ordinaria e priva di termini di decadenza – rimarrebbe così riservata ai soli casi di radicale inidoneità materiale o funzionale del bene a identificarsi nel genus pattuito.

2.5. “Adattamento” negoziale della garanzia legale di conformità edilizia

Sulla base delle premesse sin qui svolte, è possibile delineare gli spazi di manovra di cui il notaio può legittimamente avvalersi, senza esporsi a responsabilità, nel modulare la garanzia legale del venditore, tanto in ordine alla conformità urbanistico-edilizia quanto all’inagibilità dell’immobile, in funzione degli interessi concreti delle parti.

2.5.1. Limitazione convenzionale delle garanzie legali

Un primo interrogativo concerne l’eventualità che il notaio, con il consenso di entrambe le parti, riduca la portata delle garanzie legali relative alla conformità urbanistico-edilizia e all’agibilità del bene oggetto di compravendita, senza esporsi a responsabilità nei confronti dell’acquirente.

In generale, a favore di tale possibilità milita l’osservazione che una garanzia ex lege tende ad accrescere i costi della transazione secondo la logica astratta propria del tipo contrattuale, ma non necessariamente in linea con la concreta volontà delle parti. L’apertura all’autonomia negoziale in questo ambito consentirebbe, perciò, un’allocazione più efficiente dei rischi e dei costi, favorendo la formazione di un prezzo aderente alla realtà dell’affare, che risulterebbe altrimenti compromesso.

La segnalata esigenza trova conferma nella disciplina codicistica della vendita, che consente alle parti di derogare pattiziamente al regime della garanzia per i vizi “giuridici” – tra cui rientrano l’irregolarità o l’inagibilità dell’immobile – fatta eccezione per la garanzia contro l’evizione, la cui assenza pregiudicherebbe radicalmente lo scambio contrattuale (art. 1487, primo e secondo comma, c.c.). Peraltro, anche la disciplina della garanzia per i vizi “materiali” viene comunemente ritenuta derogabile dalla volontà delle parti (art. 1490, secondo comma, c.c.).

Ritenendo applicabili tali principi anche alla mancanza di qualità promesse o essenziali qui in rilievo, si giunge ad ammettere che il rogito notarile possa limitare, o persino escludere, le garanzie legali relative alla conformità urbanistico-edilizia e all’agibilità, a condizione che anche l’acquirente vi acconsenta, magari per ottenere un prezzo d’acquisto più favorevole. Tale esclusione o limitazione convenzionale, tuttavia, resta priva di effetto, ai sensi dell’art. 1490, secondo comma, c.c., qualora il venditore abbia taciuto in mala fede l’esistenza del vizio (irregolarità o inagibilità). La garanzia è, invece, automaticamente esclusa ex art. 1491 c.c. nel caso in cui il venditore abbia reso noto al compratore l’esistenza del vizio.

In questo modo, il legislatore tutela l’acquirente da comportamenti dolosi, pur lasciando spazio ad accordi negoziali che permettano una maggiore flessibilità e personalizzazione del regime di garanzia.

2.5.2. Estensione negoziale delle garanzie

Dopo aver esaminato il profilo delle limitazioni delle garanzie legali in materia di regolarità urbanistico-edilizia e di agibilità, si può ora affrontare la questione speculare dell’ammissibilità di patti negoziali volti, invece, alla loro estensione. La questione – che attiene, ad esempio, alla possibilità di estendere la durata della garanzia, anche con il consenso del venditore, oltre il termine annuale di prescrizione fissato dall’art. 1495, terzo comma, c.c. – si risolve anch’essa in senso positivo, pur richiedendo un percorso argomentativo più articolato.

In generale, l’idea che la legge predisponga un apparato minimo di garanzie, definito in linea astratta, giustifica la possibilità per le parti di ampliarlo, ad esempio prevedendo un termine di garanzia più esteso, allo scopo di rafforzare la fiducia dell’acquirente nei confronti del venditore. A conferma della facoltà di prolungare la durata delle garanzie tipiche, rileva il fatto che alle parti possano addirittura pattuire garanzie atipiche, riferite a rischi ulteriori rispetto a quelli contemplati dalle garanzie legali.

Un possibile ostacolo normativo potrebbe ravvisarsi nell’art. 2936 c.c., che sancisce l’inderogabilità del regime della prescrizione. Si tratta, tuttavia, di un limite più apparente che reale, se si considera attentamente la natura del termine annuale previsto dall’art. 1495, terzo comma, c.c. – applicabile anche alla mancanza di qualità promesse o essenziali in forza del rinvio di cui all’art. 1497, secondo comma, c.c. Il fatto che l’azione di garanzia per i vizi si prescriva in ogni caso, in un anno dalla consegna, anziché dal momento in cui il vizio si manifesta e il diritto può perciò essere fatto valere (art. 2935 c.c.), induce infatti a ritenere che tale termine, nonostante la qualificazione normativa, non corrisponda alla nozione tecnica di prescrizione disciplinata dal codice civile.

Un’ulteriore conferma in tal senso si ricava dalla previsione contenuta nell’art. 1495, terzo comma, c.c. secondo cui il compratore, convenuto per l’esecuzione del contratto, può far valere la garanzia anche oltre il termine annuale, purché il vizio – tempestivamente denunciato – si sia manifestato entro un anno dalla consegna. Tale indicazione rafforza la convinzione che quel termine non attenga tanto all’esercizio dei rimedi, quanto alla durata del rapporto di garanzia, rendendone così ammissibile un’estensione convenzionale ad opera delle parti, anche oltre il limite annuale stabilito dalla legge.

2.6. Implicazioni per la quantificazione del danno risarcibile

Delimitato l’ambito entro cui l’autonomia privata può essere esercitata, sotto la supervisione notarile, in relazione alle garanzie del venditore sulla regolarità e agibilità dell’immobile, si può infine svolgere qualche considerazione in merito alla quantificazione del danno risarcibile.

Anche sotto questo profilo, che si aggiunge a quelli illustrati in precedenza, si registra una progressiva, e ormai consolidata, espansione della responsabilità professionale del notaio. A tale riguardo, va tuttavia ricordato che il limite del danno risarcibile è rappresentato anzitutto dal nesso di causalità, così come delineato dall’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento comprende soltanto i danni che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. In concreto, ciò significa che il notaio, debitore della prestazione professionale, è tenuto a risarcire il valore delle utilità che le parti avrebbero conseguito con ragionevole certezza, se questi avesse esattamente adempiuto. Proprio attraverso la rigorosa applicazione di tale giudizio ipotetico si evita il rischio di un’estensione eccessiva o sproporzionata della responsabilità notarile.

Premesso che, per le ragioni esposte, il notaio non dovrebbe rispondere nei confronti dell’acquirente in caso di compravendita di un immobile abusivo o inagibile, anche qualora le parti non abbiano escluso la relativa garanzia, resta comunque necessario distinguere, ai fini della quantificazione del danno risarcibile, tra diverse fattispecie. In questo senso, come chiarito anche dalla più recente giurisprudenza (Cassazione 22 aprile 2025, n. 10449, in De Jure), occorre tenere distinti, sotto il profilo risarcitorio, le due ipotesi di inagibilità prima menzionate: da un lato, l’inagibilità sostanziale, che si configura in assenza del certificato di agibilità e dei presupposti necessari per ottenerlo; dall’altro, l’inagibilità formale, che ricorre quando manca il certificato, pur essendo presenti i requisiti per il suo rilascio.

A questo riguardo, va precisato che il vizio meramente formale non incide sulla commerciabilità del bene, nemmeno sotto il profilo economico. Ne consegue, in primo luogo, l’esclusione della possibilità di risoluzione del contratto di compravendita e, in secondo luogo, che sotto il profilo risarcitorio l’unico danno (emergente) effettivamente patito dall’acquirente è rappresentato dalle spese necessarie per ottenere il rilascio del certificato di agibilità, e non già dal lucro cessante correlato all’eventuale diminuzione di valore dell’immobile acquistato.

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Condizionatore guasto: le spese spettano al locatore o all'inquilino?

News Notai.it - Ven, 07/11/2025 - 17:07

La rottura di un impianto di climatizzazione può comportare costi significativi e spesso ci si domanda chi debba sostenere il costo tra proprietario di casa e inquilino.

Presidente e consigliere senza deleghe: nessuna responsabilità per bancarotta fraudolenta

News Federnotizie - Ven, 07/11/2025 - 09:30
A cura dell’avvocato Rossana Lugli

Con la recente sentenza n. 14199 del 18.03.2025 (depositata in data 10.04.2025), la Corte di Cassazione, Sezione V Penale, ha escluso la responsabilità del Presidente del Consiglio di amministrazione di una società di capitali, privo di deleghe gestorie, per il reato di bancarotta fraudolenta. Nella specie, causato da “operazioni dolose” di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942, individuate nell’omesso versamento delle imposte sul valore aggiunto e in una operazione di cessione di ramo di azienda.

Si tratta di una sentenza certamente rilevante in quanto esclude – questa volta in termini netti ed univoci – che sull’amministratore di una società di capitali, neppure se Presidente del Consiglio di amministrazione, sussista una responsabilità oggettiva per gli illeciti di natura penale, in ragione la sola posizione ricoperta.

Il fatto

Nel procedimento di cui alla sentenza in commento, l’imputata, Presidente del Consiglio di amministrazione di una società per azioni, era stata condannata sia in primo grado che in appello, per il reato di bancarotta da operazioni dolose (ex art. 223, co. 2, n. 2 L.F.), poiché ritenuta corresponsabile del dissesto della società, dichiarata fallita nel 2012.

Secondo la prospettazione accusatoria, accolta dai giudici di merito, il dissesto era stato determinato dalla reiterata omissione, tra l’anno 2005 ed il 2012, del versamento di imposte all’erario nonché dalla cessione di un ramo d’azienda ad un soggetto terzo, per un corrispettivo ritenuto non congruo.

Nel periodo 2005-2009, mentre l’imputata ricopriva soltanto la carica di Presidente del Consiglio di amministrazione, senza deleghe operative; era stata rilasciata ad altro componente un’ampia delega gestoria, anche in relazione agli adempimenti di natura fiscale, contributiva e previdenziale, compresi i pagamenti delle imposte all’erario.

Secondo la tesi della Procura, il Presidente del Consiglio di amministrazione avrebbe comunque dovuto vigilare sull’operato degli altri membri, impedendo la progressiva dispersione del patrimonio sociale.

Nello specifico, secondo la Corte d’Appello, la mera carica di “presidente del consiglio di amministrazione dal giugno 2005 al 12/6/ 2009, pur in presenza di altri due consiglieri delegati, uno dei quali con poteri amplissimi di gestione finanziaria della società, sarebbe sufficiente a renderla responsabile delle omissioni di pagamento, sebbene in detto periodo la stessa risultasse “sprovvista di concreti poteri di gestione finanziaria della società”.

Infatti,proseguono i giudici di secondo grado,la posizione ricoperta dall’imputata doveva ritenersi “preminente rispetto ai componenti del medesimo organo” e “quindi dotata di un potere-dovere di vigilanza e controllo sull’esercizio delle deleghe”.

In aggiunta, nel periodo successivo tra il 2009 ed il 2012, quando l’imputata era amministratore unico della Società, le omissioni erano proseguite, con ciò confermando “il precedente “sistematico inadempimento” e, dunque, la “strategia intrapresa di ricorrere al finanziamento dell’attività sociale attraverso il mancato adempimento dei debiti erariali”.

Secondo questa ricostruzione, il Presidentenon potevadunque “ignorare l’ammontare complessivo dei debiti maturati nei confronti delle istituzioni… e neppure poteva ignorare ulteriormente i debiti erariali pregressi accumulati dalla società allorché, nel periodo susseguente, divenuta sua amministratrice unica”.

La difesa impugnava tale sentenza avanti la Corte di Cassazione, rilevando che:

  1. l’imputata quale Presidente del Consiglio di Amministrazione era sprovvista di poteri di gestione della società, sicché, anche ammesso che l’operazione dolosa risalisse al 2005, una simile condotta non avrebbe potuto comunque esserle ascritta;
  2. successivamente, quale amministratore unico, diede priorità al pagamento dei dipendenti e dei principali fornitori di servizi, tentando anche una rateizzazione dei debiti fiscali con Equitalia, purtroppo non andata a buon fine.  La finalità perseguita dall’imputata era quindi quella di risanare la società, un obiettivo naufragato solo a causa dal protrarsi del dissesto causato dalla precedente gestione, e non da una strategia fraudolenta.
La decisione della Suprema corte ed il principio di diritto

Ebbene, la Corte di Cassazione nella sentenza qui in commento ha ribaltato le valutazioni dei Giudici di primo e di secondo grado, ed ha escluso la responsabilità dell’imputata, sia quale Presidente del Consiglio di amministrazione, sia quale amministratore unico.

La Corte di legittimità ha anzitutto affermato che l’intero periodo oggetto di imputazione (2005-2012) deve essere diviso in due parti: la prima parte, chiusasi nel giugno 2009, in cui l’imputata era solo Presidente del Consiglio di amministrazione della fallita, senza delega alcuna quando al contempo “v’era delega ad occuparsi (anche) del pagamento delle imposte in capo ad un altro soggetto”. 

La seconda parte relativa invece al periodo immediatamente successivo, in cui l’imputata era rimasta l’unica ad amministrare la fallita.

Secondo la Cassazione, rispetto alla prima parte, il ragionamento svolto dalla Corte d’Appello doveva ritenersi carente e in contrasto con i “principi di diritto già stabiliti in materia di attribuzione delle responsabilità per i reati di bancarotta”, che individuano come responsabili “solo chi risulti avere quei poteri gestori sottesi agli atti che ne costituiscano il substrato”.

Rispetto alla seconda parte, il ragionamento era invece illogico: “laddove attribuisce dette responsabilità a chi abbia, per contro, provato ad invertire il modus operandi oggetto della detta condotta criminosa, allorché ne ha acquisito il potere”.

Ebbene, riprendendo anche alcuni suoi precedenti, la Corte precisa che in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso dell’amministratore privo di delega per omesso impedimento del reato commesso da altri (e quindi, nel caso di specie, dell’omesso versamento delle imposte) è configurabile soltanto quando emerga la prova:

  1. dell’effettiva conoscenza da parte dell’amministratore privo di delega di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili (conoscenza da cui si può desumere che questi abbia accettato il rischio che gli amministratori operativi commettano dei reati);
  2. della volontà di non attivarsi per scongiurare detto evento;
  3. della sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni degli amministratori senza deleghe e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega (sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, per cui inserendo mentalmente la condotta omessa, il reato non sarebbe stato commesso, Cass. Pen., Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Rv. 284175-01).

Pertanto non è sufficientela mera presenza dei c.d. segnali d’allarme – tra cui ad esempio la conoscenza di un consistente debito erariale – essendo invece «necessario che il consigliere privo di delega ne sia concretamente venuto a conoscenza e sia rimasto volontariamente inerte così avallando le condotte mendaci o distrattive degli amministratori dotati di deleghe».

Conclusioni

Non può che condividersi tale orientamento, anche considerato chegli amministratori senza delega, alla luce della riforma del diritto societario del 2003, non hanno più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati.

L’art. 2392, comma 2, cod. civ. non prevede più, infatti, che siano «solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione», ma che lo siano solo se, «essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli», non abbiano «fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose».

Inoltre, ed occorre precisarlo, non vi è alcuna distinzione in questo senso tra il Presidente ed i componenti del Consiglio di amministrazione.

Il Presidente, ai sensi dell’art. 2381, comma 1, c.c. si occupa infatti soltanto «di fissare l’ordine del giorno, di coordinare i lavori e di provvedere affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri».

Se il Presidente non ha deleghe gestorie, su di lui non sussiste una responsabilità penale per il solo fatto della carica ricoperta.

Resta ovviamente fermo, ai sensi dell’art. 2381 ultimo comma c.c., il dovere in capo a tutti gli amministratori di “agire informati” e di chiedere agli organi delegati di dare informazioni in Consiglio sulla gestione della società.

Occorre quindi, anche se si ricopre la carica di amministratore non esecutivi, senza deleghe, prestare la massima attenzione ad eventuali segnali di allarme e chiedere tutte le informative ai consiglieri operativi.

Sul punto, senza alcuna pretesa di esaustività, si riportano alcune circostanze che potrebbero integrare quei “segnali di allarme” idonei a far sorgere in capo agli amministratori il dovere di attivarsi per meglio comprendere la situazione societaria e per evitare il compimento di illeciti, anche di natura penale.

Segnatamente:

  • il compimento di operazioni estranee all’oggetto sociale o prive di giustificazione;
  • la realizzazione di operazioni rilevanti senza il previo svolgimento di alcuna istruttoria o analisi;
  • la gestione personalistica dell’impresa o l’interesse taciuto nell’operazione da parte degli amministratori o di loro parti correlate;
  • incongruenze contabili nelle voci di bilancio;
  • il ricorso costante o cospicuo a finanziamenti soci o la mancata ricapitalizzazione;
  • rilievi mossi dal collegio sindacale, dalla società di revisione o dall’organismo di vigilanza 231;
  • le richieste di accesso da parte dei soci alla documentazione societaria;
  • rilevante e persistente crisi di liquidità;
  • consistenti debiti erariali o crediti IVA;
  • numerose vertenze sindacali;
  • sanzioni amministrative ai sensi del D.lgs. 231/2001;
  • comportamenti anomali o elusivi da parte degli amministratori delegati o dei soggetti apicali (tra cui omessa informativa ai componenti del Consiglio di Amministrazione).

Al verificarsi di tali eventi risulta opportuno (se non doveroso) per l’amministratore, anche privo di deleghe, chiedere informazioni e chiarimenti agli amministratori esecutivi; e nei casi più gravi denunciare il fatto in Consiglio di amministrazione, ai sindaci o all’assemblea dei soci (ed infine all’autorità giudiziaria), o ancora valutare di dimettersi in mancanza di misure o interventi correttivi.

Resta comunque da precisare che la gestione dell’impresa in difficoltà non può essere “criminalizzata automaticamente” una volta che sopraggiunge comunque il dissesto: il tentativo di salvare la società, onorando i debiti più urgenti e negoziando con l’erario, può e (ad avviso di chi scrive) deve essere letto quale prova (o quanto meno indizio) dell’assenza di natura fraudolenta delle operazioni, con esclusione del reato di bancarotta dolosa.

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Persone fisiche e studi associati ai fini IRAP

News Federnotizie - Ven, 07/04/2025 - 09:30
A cura di Massimo Basilavecchia

La sentenza n. 113 del 13 maggio 2025 della Corte tributaria di I grado di Reggio Emilia, accogliendo l’istanza di rimborso IRAP proposta da uno studio notarile associato, fissa un punto importante nella nuova disciplina dell’IRAP, derivante dalla modifica introdotta dall’art. 1 comma 8 della legge n. 234/2021, razionalizzando tale scelta legislativa che ha come noto escluso dall’applicazione del tributo le persone fisiche, se esercenti attività d’impresa, artistica o professionale.

La puntualizzazione è assai importante perché da essa consegue che l’esclusione riguarda le persone fisiche, anche nella misura in cui svolgano la loro attività professionale in termini di studio associato; a differenza dell’attività d’impresa, quella professionale resta sempre attività svolta a titolo personale, e, in particolare per l’attività notarile – per la quale è in assoluto inibito uno svolgimento “collettivo” della professione -, essa non può implicare, a norma di legge, quella sostituzione dell’ente, quale soggetto cui imputare l’attività, alla persona fisica, che si verifica invece quando la società, di capitali o di persone, prende il posto nell’attività economica della singola persona fisica.

La norma di esclusione, invero, ha prestato da subito il fianco a critiche perché individuava il discrimine, tra ipotesi tassate e non, in un dato non direttamente significativo, in termini di razionalità della disciplina. Tenuto infatti conto della circostanza che il presupposto dell’IRAP è identificato nella gestione di un’attività organizzata con aggregazione di una pluralità di fattori produttivi (questo è stato il punto di approdo della Corte di cassazione, dopo lo spunto critico della sentenza n. 156/2001 della Corte Costituzionale), la legge del 2021 ha tracciato un solco tra attività individuali, escluse, e attività svolte in forma associata che invece secondo l’Agenzia delle entrate (circolare 4/E 2022) avrebbero dovuto sempre e comunque essere assoggettate ad imposta, solco che però appare incoerente, ben potendo esservi imprese o professionisti individuali eteroorganizzati e invece strutture associate prive di organizzazione.

Si può comprendere che il legislatore abbia preferito uno spartiacque certo che consentisse di evitare complessi e sempre opinabili accertamenti sul requisito dell’(etero)organizzazione; nelle intenzioni, si trattava di un primo passo verso la (sempre meno realistica) soppressione del tributo.

Ma la semplificazione non regge ad un’analisi critica, per più motivi. A parte il fatto che essa si traduce in un assurdo incentivo alle disaggregazioni (o in un disincentivo alle aggregazioni) degli studi professionali, antistorico e antieconomico, sta di fatto che possono esservi professionisti individuali eteroorganizzati, e studi associati che invece non realizzano il presupposto.

Il legislatore del 1997 non era d’altra parte ignaro della questione, se è vero che, indicando per presunzione assoluta i soggetti passivi dell’IRAP, ha menzionato espressamente all’art. 2 le attività in forma societaria, tacendo invece sugli studi associati, che non risultano automaticamente assoggettati al tributo in contrapposizione all’esclusione riservata ai professionisti singoli (la dicitura “ente” è ambigua al riguardo). L’art. 3, che elenca i soggetti passivi del tributo, non è poi risolutivo al riguardo, perche menziona in un’unica categoria sia i professionisti individuali sia quelli in forma associata, e non esclude una lettura estensiva dell’agevolazione introdotta nel 2021.

In buona sostanza, la corte reggiana finisce con il censurare il tentativo di semplificazione del legislatore, e conclude nel senso che, se il discrimine deve essere ancorato non all’organizzazione, ma alla forma giuridica dell’attività, ebbene l’attività dello studio associato va scissa e considerata come attività dei singoli soci, e meritevole dunque di quella stessa esclusione spettante al professionista singolo.

Sarà interessante verificare se l’orientamento si diffonderà, nell’attesa sono possibili due considerazioni tra loro complementari.

La prima riguarda la modalità di intervento: di fronte a una norma di detassazione (in questo caso, peraltro, si tratta di esclusione strutturale, verosimilmente, e non di esenzione in chiave agevolativa) la giurisprudenza tende di solito ad evitare interventi additivi, che amplino l’oggetto dell’agevolazione: si dice che si tratta di norme eccezionali, come tali di stretta interpretazione, che solo il legislatore o la Corte costituzionale possono modificare (anche per l’incidenza sulle entrate pubbliche).

Quale che sia l’opinione su questo pregiudizio giurisprudenziale, appare comunque corretta nel caso di specie la scelta avanzata della Corte reggiana, che ha ampliato la sfera applicativa della norma mediante un intervento giustificato sul piano letterale dalla difficoltà di applicare ai professionisti l’alternativa tra esercizio individuale e esercizio “associato”. Preso atto che il legislatore del 2021 ha agito distinguendo in funzione della forma di svolgimento dell’attività, la sentenza ha ritenuto inevitabile la lettura estensiva dell’agevolazione e coerentemente ha evitato di condurre l’analisi sul piano dell’organizzazione, che probabilmente l’avrebbe costretta a rimettere la questione alla Corte costituzionale. per valutare la ragionevolezza della scelta limitativa.

La seconda osservazione riguarda la possibile ricerca di un punto di equilibrio. Il percorso scelto dalla Corte reggiana, infatti, rischia di produrre un cortocircuito nella gestione del tributo IRAP, nella misura in cui, per effetto della erroneità del parametro legislativo, abbia l’effetto di sostituire un altro automatismo a quello disapplicato, affermando che nessuna associazione professionale può essere assoggettata ad IRAP.

Infatti, una volta assunta la erroneità dell’equazione forma associata/soggettività IRAP, resta – magari de iure condendo – l’esigenza di fissare un parametro ragionevole per evitare che la cattiva costruzione della norma di esclusione conduca ad una dilatazione del suo ambito applicativo tale da detassare anche strutture palesemente e oggettivamente eteroorganizzate.

Si ricade però in questo modo nella ben nota difficoltà che, già a proposito dell’ILOR, condizionò giudici e legislatore protesi alla ricerca di un criterio attendibile e oggettivo per poter individuare a priori, in forma generale e astratta, la soglia oltre la quale un’attività dovrebbe essere considerata comunque tassabile perché eteroroganizzata. Insomma, si dovrebbe ritenere che, mentre ha un fondamento la presunzione per cui un’attività individuale non è mai organizzata, non hanno fondamento né la presunzione che consideri tassabile sempre e comunque la professione svolta in forma associata, né quella, estrema, per cui quest’ultima non raggiungerebbe mai i limiti adeguati a giustificarne la soggezione a IRAP. 

A questo compito potrebbe meglio provvedere il legislatore, perché, di fronte alla pluralità di soluzioni possibili che si aprirebbero dopo una dichiarazione di incostituzionalità, la Corte costituzionale ha mostrato di preferire sentenze di inammissibilità della questione, sorrette però da un’analisi critica del problema e da indicazioni – monito indirizzate al legislatore.  

Ecco allora che la sentenza della Corte tributaria reggiana appare corretta nel rimediare a un errato approccio del legislatore e nel contempo utile a stimolare un ripensamento del perimetro dell’agevolazione da parte del legislatore.

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Giubbotto catarifrangente: regole e suggerimenti per l'uso

News Notai.it - Gio, 07/03/2025 - 17:45

Vediamo quando e dove va indossati il giubbotto o le bretelle retroriflettenti e a quali sanzioni si va incontro in caso di loro mancato utilizzo.

Sismabonus Acquisti: niente detrazione se a pagare sono i genitori?

News Federnotizie - Mer, 07/02/2025 - 09:30

Segnaliamo la recente Risposta a Interpello n. 165/2025 (.PDF) con cui l’Agenzia delle Entrate, chiamata a esprimersi sulla detrazione da Sismabonus Acquisti, afferma che la detrazione non spetta in capo all’acquirente dell’immobile se il pagamento è stato effettuato da terzi, anche se si tratta di denaro collegato a una donazione indiretta da parte dei genitori.

Il caso

Una contribuente aveva acquistato due unità immobiliari derivanti dalla demolizione e ricostruzione di un edificio con miglioramento di due classi sismiche. L’acquisto era stato effettuato con fondi messi a disposizione direttamente dai genitori, tramite assegni circolari e bonifici “parlanti” per interventi antisismici effettuati dal conto corrente dei genitori a favore del venditore, con indicazione nei bonifici “parlanti” del codice fiscale del figlio acquirente quale beneficiario della detrazione. Nell’atto notarile di compravendita veniva indicata espressamente la liberalità indiretta.

Il quesito

L’istante chiedeva se, nonostante i pagamenti fossero stati effettuati da dai genitori, egli potesse comunque beneficiare del Sismabonus Acquisti, in forma di detrazione diretta o cessione del credito.

La risposta dell’Agenzia

L’Agenzia ha negato la possibilità di usufruire del beneficio fiscale, affermando che: “Il Sismabonus Acquisti spetta solo all’acquirente che ha effettivamente sostenuto la spesa per l’acquisto dell’immobile”.

In altre parole, secondo l’Agenzia delle Entrate, il fatto che l’immobile sia stato acquistato con denaro dei genitori escluderebbe la possibilità di detrazione da parte dell’acquirente, non avendo questi sostenuto direttamente la spesa.

L’Agenzia richiama una precedente Risposta a Interpello (351 del 28 giugno 2022) che – su un caso diverso – aveva già affermato la medesima conclusione.

La normativa di riferimento

Analizzando la normativa di riferimento, peraltro, non pare che il requisito richiesto dall’Agenzia delle Entrate sia previsto espressamente, come, invece, afferma l’Agenzia.

Il comma 1-septies dell’articolo 16 del Decreto Legge 4 giugno 2013, n. 63, riconosce, infatti, le detrazioni dall’impostaall’acquirente delle unità immobiliari, rispettivamente nella misura del 75 per cento e dell’85 per cento del prezzo della singola unità immobiliare, risultante nell’atto pubblico di compravendita e, comunque, entro un ammontare massimo di spesa pari a 96.000 euro per ciascuna unità immobiliare”, senza richiedere espressamente che la spesa sia stata effettivamente e direttamente sostenuta dall’acquirente[1].

La menzione della liberalità indiretta nell’atto notarile risponde a evidenti esigenze di trasparenza, sia nei confronti dei famigliari della parte acquirente, sia nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, consentendo di spiegare – anche ai fini delle imposte dirette – la disponibilità in capo a giovani acquirenti di risorse sufficienti per il pagamento del prezzo di compravendita ed evitando quindi eventuali accertamenti sintetici. Ricordiamo inoltre che secondo una parte della giurisprudenza la menzione nell’atto notarile “collegato” sarebbe necessaria per poter usufruire della esenzione da imposizione fiscale (così Cass., 24 giugno 2016 n. 13133[2]).

Ed è buona prassi comune[3], in caso di liberalità indiretta, che le risorse economiche per far fronte al pagamento del prezzo della compravendita collegata alla liberalità non transitino per il conto corrente del “donatario” ma siano indirizzate direttamente a favore del venditore, proprio per evidenziare il collegamento con il trasferimento immobiliare e per esplicitare che l’arricchimento del patrimonio del beneficiario della liberalità indiretta ha ad oggetto l’immobile, non già il denaro.

La liberalità indiretta tipicamente non dovrebbe infatti prevedere alcun trasferimento diretto dal patrimonio del donante al patrimonio del donatario: al riguardo ricordiamo l’analisi di M. Laffranchi, pubblicato su questa rivista (“Donazioni indirette, donazioni dissimulate e una confusa sentenza della Corte di Cassazione“), con cui abbiamo già avuto modo di evidenziare la differenza tra i diversi casi di donazione diretta non dissimulata, donazione indiretta non dissimulata, donazione diretta dissimulata e donazione indiretta dissimulata (e i rimedi che l’ordinamento offre ai legittimari per tutelare i loro diritti di riserva per ciascuna di tali fattispecie).

Conclusione

La conclusione dell’Agenzia delle Entrate potrebbe imporre quindi una forzatura nella prassi operativa. Se, infatti, secondo l’Agenzia, per accedere al Sismabonus Acquisti non basta essere proprietari dell’immobile acquistato, ma è necessario anche averne pagato il prezzo con risorse proprie, i fondi dovranno transitare per il conto dell’acquirente anche nei casi di donazione indiretta? Non si rischia così di uscire dalla fattispecie della liberalità indiretta, attuando, invece, (l’esecuzione di) una donazione diretta del denaro (con tutto quello che ne consegue in termini anche di rimedi collegati[4])? E non si rischia di promuovere inutili triangolazioni bancarie in ossequio a un requisito meramente formale richiesto praeter legem dall’Agenzia?

Che il denaro transiti direttamente dai genitori dell’acquirente al venditore, o che esso venga prima depositato sul conto dell’acquirente e poi da questi trasferito al venditore, sotto il profilo economico la dinamica è sostanzialmente sempre la stessa. Non si vede, allora, perché l’Agenzia debba far dipendere l’esistenza stessa del diritto alla detrazione dalla modalità tecnica attraverso cui la medesima vicenda liberale ha trovato attuazione nel caso concreto, trattando in modo difforme situazioni del tutto analoghe in palese violazione del principio di uguaglianza.

Note

[1] La norma testualmente recita: “Qualora gli interventi di cui al comma 1-quater [del medesimo] siano realizzati nei comuni ricadenti nelle zone classificate a rischio sismico 1, 2 e 3 ai sensi dell’ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3519 del 28 aprile 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 108 dell’11 maggio 2006, mediante demolizione e ricostruzione di interi edifici, allo scopo di ridurne il rischio sismico, anche con variazione volumetrica rispetto all’edificio preesistente, ove le norme urbanistiche vigenti consentano tale aumento, eseguiti da imprese di costruzione o ristrutturazione immobiliare, che provvedano, entro trenta mesi dalla data di conclusione dei lavori, alla successiva alienazione dell’immobile, le detrazioni dall’imposta di cui al primo e al secondo periodo del medesimo comma 1-quater spettano all’acquirente delle unità immobiliari, rispettivamente nella misura del 75 per cento e dell’85 per cento del prezzo della singola unità immobiliare, risultante nell’atto pubblico di compravendita e, comunque, entro un ammontare massimo di spesa pari a 96.000 euro per ciascuna unità immobiliare” (grassetti aggiunti).

[2] Con note critiche di Ghinassi, Liberalità indirette e collegamento negoziale, Studio n. 29-2017/T, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 26/10/2017.

[3] Cfr. al riguarda Ghinassi, Liberalità indirette e collegamento negoziale, Studio n. 29-2017/T, approvato dalla Commissione Studi Tributari il 26/10/2017 che ricorda come sia “sicuramente preferibile consigliare al genitore, al fine di colorire in modo più pregnante l’operazione quale liberalità indiretta, di attingere la provvista per la predisposizione del circolare direttamente dal proprio conto e di consegnare poi il titolo al figlio ai fini del pagamento del prezzo”, anziché procedere – come avvenuto nel caso oggetto di commento nello studio – con “un bonifico al figlio effettuato nei giorni immediatamente antecedenti ad un acquisto immobiliare, immediatamente convertito dal beneficiario in un assegno circolare a favore del venditore”. Cfr. in argomento anche M. KROGH, Tracciabilità delle movimentazioni finanziarie nel sistema delle donazioni e degli atti ricognitivi di liberalità, studio C.N.N. 107-2009/C e G. PETTERUTI, Rilevanza fiscale delle liberalità indirette nell’attività notarile, studio C.N.N. 135-2011/T.

[4] Cfr. “Donazioni indirette, donazioni dissimulate e una confusa sentenza della Corte di Cassazione“.

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D.Lgs. 19 giugno 2025 n. 88: chiarimenti e semplificazioni su operazioni transfrontaliere e scissione mediante scorporo

News Federnotizie - Ven, 06/27/2025 - 14:23
A cura di Enrico Doria

Il D.Lgs. 88/2025, pubblicato sulla G.U. n. 143 del 23 giugno 2025 ed efficace dall’8 luglio, interviene sul D.lgs. 19/2023, varato appena un anno fa per recepire la direttiva (UE) 2019/2121, la cui applicazione aveva sollevato alcune criticità, in particolare con riferimento al controllo di legalità notarile, al rapporto tra la legge dello stato d’origine e quella dello stato di destinazione, nonché in ordine all’ambito operativo della scissione mediante scorporo.

Il legislatore ha così voluto chiarire tali questioni applicative, definendo meglio l’iter procedimentale e dando risposta alle istanze emerse in dottrina e nella prassi notarile per favorire la realizzazione delle operazioni in esame.

Tra le principali novità spicca l’estensione del perimetro operativo della disciplina delle operazioni transfrontaliere alle società di persone e ad enti non societari, a prescindere dalla presenza di società di capitali tra gli enti partecipanti all’operazione, nonchè alle operazioni che coinvolgono società non europee.

Il correttivo procede secondo due direttrici principali: da un lato perfeziona l’impianto definitorio e procedimentale del D.lgs. 19/2023, dall’altro interviene sul codice civile ed in particolare sulla scissione mediante scorporo. In primis, si amplia la nozione di beneficio pubblico includendovi anche quei benefici non censiti nel Registro nazionale degli aiuti di Stato.

Contestualmente si riscrive l’articolo 4, ridefinendo gli obblighi del notaio nelle operazioni non armonizzate: per le fattispecie “in uscita” si continua a rilasciare il certificato preliminare attestando la sussistenza delle condizioni richieste, mentre per le operazioni “in entrata” il notaio svolge un controllo sostanzialmente equivalente a quello previsto per le operazioni armonizzate, compresa l’attestazione dell’esistenza delle condizioni per la costituzione e iscrizione della società nel registro delle imprese nazionale. Viene, inoltre, esplicitato che resta sempre impregiudicata la verifica delle condizioni di ordine pubblico internazionale, così come individuate dall’art. 25, co. 3 della legge 218/1995.

Il nuovo articolo 5-bis introduce un micro-procedimento di integrazione documentale finalizzato a scongiurare stalli dovuti a lacune formali. Quando i dati indispensabili per l’iscrizione – per esempio quelli relativi ai componenti degli organi sociali o alle partecipazioni – non risultano dalla delibera depositanda, il soggetto che, per conto della società chiede il deposito della decisione di trasformazione o dell’atto di scissione o che partecipa all’atto di fusione o scissione redatto dal notaio, può colmare tali lacune mediante apposita dichiarazione.

Inoltre, qualora occorra integrare tali dati e serva a tal fine una deliberazione, l’organo competente della società può incaricare della relativa manifestazione di volontà il soggetto che, in nome della società, provvede al deposito o partecipa all’atto.

Una volta rilasciato il certificato preliminare nello stato d’origine, tali decisioni potranno essere approvate con le maggioranze proprie dell’ente risultante dall’operazione, così da consentire speditezza procedurale. In ogni caso, l’efficacia di ogni integrazione è subordinata all’avvenuta iscrizione della società risultante, in modo da garantire certezza e coerenza con la sequenza pubblicitaria.

Sotto il profilo delle operazioni di trasformazione, la riscrittura della definizione normativa abbandona la locuzione «tipo sociale» per riferirsi alla «forma giuridica prevista dalla legge dello Stato di destinazione», chiarendo che la trasformazione transfrontaliera determina un mutamento della legge regolatrice rimanendo ferma la soggettività giuridica.

In particolare, viene chiarita la nozione di «trasformazione» definendola come l’operazione mediante la quale una società senza essere sciolta né sottoposta a liquidazione, conservando i propri diritti e obblighi e proseguendo in tutti i rapporti anche processuali, modifica la legge alla quale è sottoposta adottando una forma giuridica prevista dalla legge dello Stato di destinazione e fissando la sede sociale in conformità a tale legge.

Si prevede, altresì, come il notaio che abbia verbalizzato la decisione di trasformazione della società sottoposta a tale operazione, debba depositare tale decisione, per l’iscrizione nel registro delle imprese, nei trenta giorni successivi e non contestualmente al deposito del certificato preliminare e dell’attestazione rilasciata dall’autorità competente dello stato di destinazione come appariva dalla formulazione previgente della norma.

Nell’ambito delle operazioni straordinarie transfrontaliere in generale viene inoltre rafforzato il contraddittorio tra notaio e società: il professionista è tenuto a segnalare senza indugio eventuali carenze documentali, concedendo un termine congruo e prorogabile per il loro superamento; l’ente coinvolto può formulare osservazioni scritte e, in caso di rifiuto il professionista dovrà fornire le opportune motivazioni, rimanendo così ferma la possibilità per la parte interessata di adire al giudice.

Particolarmente incisiva è la revisione dell’articolo 30 in materia di certificato preliminare nei casi di debiti e benefici pubblici. Viene ampliato il contenuto, descrivendo con maggiore precisione gli oneri a carico della società per l’ottenimento del certificato preliminare, con la previsione anche di un apposito allegato volto in particolare ad individuare con precisione i debiti assoggettabili alle disposizioni di cui all’art. 30.

Si vuole così consentire al notaio di verificare ex ante la documentazione richiesta, riducendo margini di incertezza applicativa. Al notaio sono altresì attribuiti espressamente poteri officiosi di richiesta diretta della documentazione mancante e, in presenza di dubbi sulla veridicità delle attestazioni, anche di nomina di un professionista indipendente a supporto della verifica.

Meritano un cenno autonomo le modifiche al codice civile e in particolare l’intervento sulla scissione mediante scorporo. Eliminando il riferimento alla «continuazione dell’attività» e chiarendo che con la scissione mediante scorporo una società assegna l’intero suo patrimonio o parte di esso, il nuovo testo dell’articolo 2506.1 ammette l’inesistenza di limiti all’assegnazione patrimoniale per effetto dello scorporo e accogliendo sempre le istanze della dottrina notarile anche che lo stesso possa avvenire a favore di beneficiarie preesistenti.

Ne consegue che all’esito della scissione la società scissa, pur svuotata di cespiti operativi, potrebbe permanere come holding di partecipazioni. Si chiarisce altresì che le semplificazioni procedurali già introdotte dal legislatore unionale (dispensa dalla situazione patrimoniale ex art. 2501-quater c.c., la relazione dell’organo amministrativo ex art. 2501-quinquies c.c. e degli esperti ex art. 2501-sexies c.c.) rimangono, circoscritte agli scorpori a favore di beneficiarie di nuova costituzione.

Negli altri casi la disciplina torna a riallinearsi al regime ordinario di scissione, con la permanenza degli oneri informativi e nella s.r.l. anche del diritto di recesso del socio della società beneficiaria che non abbia consentito all’operazione. Rimane tuttavia ferma, anche in questa ipotesi, l’esclusione del diritto di recesso spettante al socio della scissa che non abbia concorso alla delibera di approvazione del progetto.

Si è anche aggiunto un nuovo comma all’art. 2510-bis c.c. in base al quale il trasferimento della sede all’estero deve essere effettuato secondo le norme che regolano le operazioni di trasformazione transfrontaliera e internazionale, in modo da evidenziare come l’operazione in esame debba considerarsi in ogni caso un trasferimento di sede all’estero, senza riguardo al luogo in cui è fissata la sede statutaria della società risultante dall’operazione.

Un’ultima direttrice di intervento concerne gli obblighi di informazione di cui sono destinatari i lavoratori e le rappresentanze sindacali o, in loro assenza, i dipendenti delle società di diritto italiano, in ordine all’impatto giuridico ed economico delle operazioni in esame sui rapporti di lavoro.

In conclusione, il D.lgs. 88/2025 realizza un intervento organico di revisione normativa che consolida l’impianto del 2023, ampliandone la portata applicativa e introducendo strumenti di flessibilità procedurale, così da fornire certezza agli operatori. Per il notaio, l’effetto principale del correttivo risiede in un quadro di controlli più delineato per favorire la realizzazione delle operazioni in esame.

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I rischi per chi non rispetta la distanza minima di sicurezza in auto

News Notai.it - Gio, 06/26/2025 - 20:13

La distanza di sicurezza rappresenta lo spazio necessario per fermarsi in caso di emergenza, evitando tamponamenti e garantendo una guida più serena.

“Semel Heres, Semper Heres”. Corte di Cassazione a Sezioni Unite 6/12/2024  n. 31310

News Federnotizie - Ven, 06/20/2025 - 09:30
A cura di Marco Gilardelli

Merita un breve commento la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 31310 del 6 dicembre 2024, relativa al noto problema dell’accettazione con beneficio d’inventario da parte di persona incapace (non “sui juris”), non seguita dalla redazione del relativo inventario.

Due erano, infatti, le teorie affermatesi nella giurisprudenza di legittimità:

  • la prima riteneva che l’accettazione con beneficio d’inventario effettuata dal legale rappresentante della persona non “sui juris” non comportasse immediatamente l’acquisto della qualità di erede da parte del beneficiario. Pertanto, nel caso in cui all’accettazione non fosse seguita la redazione dell’inventario nel termine previsto dall’art. 489 c.c., il soggetto beneficiario conservava la facoltà di redigere l’inventario oppure di rinunciare all’eredità;
  • la seconda sosteneva, invece, che l’accettazione con beneficio d’inventario effettuata dal legale rappresentante della persona non “sui juris” comportasse sin da subito l’acquisto della qualità di erede. Di conseguenza, se l’inventario non fosse stato redatto dal legale rappresentante nel termine di cui all’art. 489 c.c., il beneficiario avrebbe avuto soltanto la possibilità di redigere egli stesso l’inventario, venendo altrimenti considerato erede puro e semplice.

Le Sezioni Unite hanno preso posizione in favore di questa seconda tesi con una serie di motivazioni che a parere del sottoscritto sono da condividere.

Come noto, l’art. 471 c.c. stabilisce che l’unica forma con cui i minori e gli interdetti possono accettare l’eredità sia quella con il beneficio dell’inventario. Tale accettazione, così come la eventuale rinunzia, è soggetta alla valutazione del Giudice competente (oggi anche del Notaio) e, una volta debitamente autorizzata conferisce immediatamente al beneficiato la qualità di erede.

L’accettazione richiede una forma ad substantiam ed è soggetta a trascrizione. Questo elemento formale porta ad escludere l’opinione dottrinale secondo cui il beneficio si acquisterebbe ope legis per il solo fatto dello stato di incapacità, anche in assenza di un’accettazione beneficiata fatta dal legale rappresentante. Rimane ferma la facoltà per il legale rappresentante di rinunciare all’eredità, ma sempre previa autorizzazione.

L’art. 484 c.c. prevede che l’accettazione beneficiata deve essere seguita o preceduta dalla redazione dell’inventario, in quanto solo quest’ultimo consente al minore e all’interdetto di soddisfare i creditori o i legatari nei limiti dell’attivo eredità ai sensi dell’art. 490 c.c.

Gli artt. 485 e 487 c.c., che disciplinano il termine per l’esecuzione dell’inventario a seconda che l’erede sia o meno nel possesso dei beni ereditari, sono derogati, per i minori e gli interdetti, dall’art. 489 c.c., il quale prevede un termine “soggettivo”, ossia un anno dal compimento della maggiore età o dalla cessazione dello stato di incapacità.

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione compie un’importante considerazione in merito all’art. 489 c.c.: l’inciso «entro tale termine non si siano conformati alle norme della presente sezione» viene interpretato con il significato che, acquisita la qualità di eredi per effetto dell’accettazione con beneficio di inventario, i minori o gli interdetti hanno, entro il termine previsto dalla norma, unicamente la facoltà di redigere l’inventario per evitare di essere considerati eredi puri e semplici.

In tal modo, viene offerta all’erede beneficiato una tutela rispetto all’inerzia del legale rappresentante nell’adempimento dell’obbligo di redazione dell’inventario.

Le Sezioni Unite affermano espressamente che la disposizione di cui all’art. 489 c.c. rappresenta un’estensione dell’art. 471 c.c., da cui discende l’attribuzione della qualità di erede.

L’accettazione dell’eredità attribuisce in via definitiva la qualifica di erede, e la dichiarazione di volersi avvalere del beneficio non costituisce una condizione sospensiva dell’efficacia dell’accettazione, come sostenuto in passato.

La dichiarazione di accettazione beneficiata non subordina, quindi, la volontà di succedere al raggiungimento del risultato di tenere distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede.

Gli artt. 485 e 487 c.c. stabiliscono che l’erede, nel possesso o non nel possesso di beni ereditari, decada dal beneficio, divenendo erede puro e semplice, se non provvede alla redazione dell’inventario nei termini indicati. Gli artt. 493, 494 e 505 c.c. chiariscono che in caso di decadenza, a venire meno è solo il beneficio della separazione patrimoniale.

Prosegue la Cassazione affermando che l’accettazione dell’eredità e la dichiarazione di volersi avvalere del beneficio di inventario devono avvenire in unico contesto in quanto il relativo contenuto è inscindibile.

Consistendo l’inventario in una operazione materiale, è indifferente chi sia la persona che lo pone in essere, essendo infatti consentito, ai sensi dell’art. 769 c.p.c., che a richiedere l’inventario siano persone diverse dall’erede (altri eredi, creditori) [1].

A modifica delle posizioni espresse in precedenza dalla Cassazione, le Sezioni Unite, riprendendo la sentenza 11030/2003, ribadiscono il principio secondo cui “la dichiarazione, di per sé, ha una propria immediata efficacia, poiché comporta il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato e quindi il suo subentro in universum jus defuncti, compresi i debiti del de cuius”  ma non incide  sulla “limitazione della relativa responsabilità intra vires hereditatis, che è condizionata dalla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, mancando il quale l’accettante è considerato  erede puro e semplice” non perché abbia perduto ex post il beneficio, ma perché non lo ha mai conseguito  (Cass. 11030/2003, 16739/2005, 16514/2015, 9099/2018, 7477/2018).

Le Sezioni Unite riaffermano quindi il principio “semel heres semper heres” ritenendo che l’accettazione dell’eredità sia irrevocabile: chi accetta l’eredità la acquista in modo definitivo, e la relativa dichiarazione non è revocabile.  

Ne consegue che, una volta intervenuta l’accettazione dell’eredità da parte del legale rappresentante del minore o dell’interdetto, nella forma beneficiata, come richiesto dalla legge, gli stessi non possano essere considerati meri chiamati all’eredità con facoltà quindi di rinunciare, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata non fosse mai stata resa.

Non è dunque consentita un’equiparazione tra dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita da inventario e accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante: nel primo caso, l’incapace acquista immediatamente la qualità di erede; nel secondo caso, l’accettazione è nulla per difetto di forma.

L’art. 489 c.c., secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, si applica al caso in cui il legale rappresentante, dopo l’accettazione beneficiata, non abbia eseguito l’inventario. Tale omissione non può comportare automaticamente la decadenza dal beneficio per il rappresentato: la norma offre, infatti, a quest’ultimo un nuovo termine, decorrente dalla cessazione dello stato di incapacità, per redigere l’inventario ed evitare la decadenza. Si ha, quindi, una sterilizzazione del termine iniziale, con una sua proroga fino ad un anno dalla cessazione dell’incapacità del beneficiario.

Interessante è anche la lettura delle Sezioni Unite dell’art. 473 C.C. in contrapposizione all’art.471 c.c. che impongono tanto per gli enti morali quanto per gli incapaci l’accettazione dell’eredità in forma beneficiata.

Come noto, l’art. 473 c.c. – con formulazione mutuata dalla disciplina prevista per gli incapaci – stabilisce che l’accettazione dell’eredità da parte delle persone giuridiche e associazioni (escluse le società) non possa avvenire se non con il beneficio di inventario.

La norma viene interpretata nel senso che il mancato perfezionamento dell’inventario nei termini e modi previsti comporta che l’Ente chiamato non acquisti la qualità di erede (Cass. 9514/2017, 19598/2004, 2617/1979).

Nel caso degli enti morali, il divieto di accettare l’eredità ultra vires è considerato insito nella loro natura giuridica e, dunque, insuperabile.

Per gli incapaci invece si tratta di una condizione temporanea, destinata a cessare, per i minori, al raggiungimento della maggiore età e, per gli interdetti, al cessare dello stato di interdizione.

La tesi secondo cui la legge regolerebbe in modo identico le due situazioni non tiene conto del fatto che, per minori e interdetti, trovano applicazione anche le disposizioni dell’art. 489 c.c., oltre al 471 c.c.

Questa differenza incide anche sull’obbligo di redazione dell’inventario: per gli enti morali non vi è ragione di derogare alla disciplina dell’art. 485 c.c.  con riguardo al termine entro cui l’inventario deve essere redatto. Per gli incapaci, viceversa, opera il diverso termine previsto dalla norma loro riservata (art. 489 c.c.) e non vi sono ragioni per negare che, venuta meno l’incapacità, la mancata redazione dell’inventario nel termine di cui all’art. 489 c.c. determini la loro piena responsabilità patrimoniale.

Conclusioni

Le Sezioni Unite, discostandosi da precedenti decisioni della stessa Corte, fanno proprio quanto sostenuto dalla Cassazione 11030/2003 che ha inaugurato il nuovo indirizzo giurisprudenziale: l’accettazione con beneficio di inventario produce immediatamente effetti, comportando l’acquisto definitivo della qualità di erede da parte del chiamato. Rimane oggetto di ulteriore verifica solo la limitazione della responsabilità intra vires hereditatis, subordinata alla tempestiva redazione dell’inventario entro i termini previsti per gli incapaci, in particolare dall’art. 489 c.c. In mancanza, il beneficiario sarà comunque considerato erede, ma puro e semplice.

A commento della Sentenza, si ritiene di poter affermare che la redazione dell’inventario da parte del legale rappresentante dell’incapace, seppur prevista dalla legge, non sia elemento ostativo o preclusivo, avendo comunque l’incapace, a proprio favore, un nuovo termine per redigere l’inventario ai sensi dell’art. 489 C.C.

Ne consegue che il Notaio non potrà rifiutare ai sensi dell’art. 27 L.N. un atto dispositivo di qualsiasi natura, di un bene ereditario, effettuato dal legale rappresentante dell’incapace, laddove l’atto sia debitamente autorizzato, anche in assenza della preventiva redazione dell’inventario, non trattandosi di atto espressamente proibito dalla legge o manifestamente contrario all’ordine pubblico o al buon costume ai sensi art.28 L.N.

Note

[1] La tesi secondo cui il minore o l’interdetto, il cui legale rappresentante, debitamente autorizzato, abbia accettato l’eredità con il beneficio di inventario, omettendo la redazione dell’inventario, resterebbe un semplice chiamato è smentita dal fatto che, ai sensi dell’art. 769 c.p.c., l’inventario può essere richiesto anche da persone diverse dal legale rappresentante, prescindendo quindi dalla sua condotta.

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Numero consentito di passeggeri in un veicolo: rischi e sanzioni

News Notai.it - Mer, 06/18/2025 - 19:37

Viaggiare con un numero eccessivo di passeggeri in un mezzo può comportare dei rischi, sia per gli occupanti dell'auto che per gli altri utenti della strada.

È sempre possibile parcheggiare in assenza di divieto di sosta?

News Notai.it - Ven, 06/13/2025 - 17:20

Quando non c'è il divieto di sosta è possibile parcheggiare, ma ci sono alcune considerazioni da fare e alcune regole importanti da rispettare.

Le polizze assicurative “Donazione Sicura”

News Federnotizie - Ven, 06/13/2025 - 09:30
di Federico Onnis Cugia,
ricercatore presso
l’Università degli Studi di Cagliari

Nella prassi si stanno progressivamente diffondendo polizze atte a proteggere dai rischi di un immobile donato ovvero oggetto di trasferimento in trust.

Si tratta di prodotti assicurativi innovativi, la cui affermazione è favorita da una fase di rinnovata attenzione alle tematiche di gestione e disposizione dei patrimoni immobiliari delle famiglie italiane, anche alla luce delle esenzioni e agevolazioni per la costituzione di trust istituiti in favore delle persone con disabilità gravi e per le erogazioni liberali, le donazioni e gli altri atti a titolo gratuito effettuati nei confronti dei suddetti trust introdotte dalla c.d. legge sul “Dopo di noi” (l.  25 giugno 2016, n. 112).

Stante il rischio assicurato, queste polizze possono essere sussunte entro il ramo danni n. 16, relativo alle «perdite pecuniarie di vario genere». Tra esse, però, deve essere operata una distinzione tra quelle che coprono i rischi nascenti da un immobile donato e quelle dal trasferimento del bene in trust e, per quel che concerne le prime, più nel dettaglio, tra quelle a tutela del proprietario e quelle a tutela del creditore ipotecario.

Ai fini della validità dei contratti di assicurazione in discorso, questi non possono essere conclusi se, al momento della richiesta della polizza, il diritto di opposizione alla donazione è già stato esercitato ovvero è stata intrapresa un’azione legale che può comportare la restituzione dell’immobile donato.

L’assicurazione a tutela del proprietario dell’immobile donato

L’assicurazione a tutela dei rischi di un immobile donato è volta, innanzitutto, a facilitare la commerciabilità del bene stesso. I beni immobili oggetto di donazione, come è noto, scontano un rilevante pregiudizio nell’ipotesi di circolazione successiva al negozio. Infatti, l’acquirente e l’eventuale creditore ipotecario si assumono il rischio che gli eredi legittimari del donante, lesi nella loro quota legittima, possano agire per la restituzione dell’immobile donato privo di eventuali ipoteche iscritte sullo stesso successivamente alla donazione. In assenza di opposizioni, l’azione di riduzione si prescrive nell’ordinario termine decennale calcolato a partire dalla morte del donante o, qualora lo stesso sia ancora in vita, in venti anni dalla trascrizione della donazione.

Possono contrarre la polizza il donante (in occasione della donazione, per attribuire un ulteriore vantaggio al donatario); il donatario (in occasione della donazione o in un momento ad essa posteriore, per dotarsi di uno strumento che favorisca la successiva circolazione del bene); il terzo acquirente (in occasione dell’acquisto di un bene immobile di provenienza donativa, per diventare beneficiario della polizza); il creditore ipotecario (qualora abbia concesso al terzo acquirente un finanziamento ipotecario su un bene di provenienza donativa, anche se il soggetto finanziato non ha stipulato l’assicurazione). I soggetti assicurati sono il proprietario dell’immobile (che lo abbia acquistato dal donatario o da un suo avente causa) e l’eventuale creditore ipotecario di costui. Non possono esserlo né il donatario, né – se del caso – la sua banca finanziatrice.

La copertura, dietro il versamento di un premio una tantum, protegge l’assicurato dai danni economici che potrebbe subire a seguito di un esito favorevole dell’azione di restituzione dell’immobile esperita dagli eredi legittimari del donante ai sensi degli artt. 561 e 563 c.c.

In particolare, la polizza indennizzerà l’assicurato contro il rischio inerente l’obbligo di restituzione dell’immobile al legittimario ex art. 563 c.c., ove l’assicurato abbia acquistato l’immobile dal donatario o da un suo avente causa, ovvero contro il rischio di cancellazione dell’ipoteca gravante sull’immobile ai sensi dell’art. 561 c.c., in seguito alla restituzione dell’immobile al legittimario (a norma dell’art. 563 c.c.) nel caso in cui l’assicurato sia il creditore ipotecario del terzo acquirente. Infatti, come è noto, l’art. 561 c.c. statuisce che gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi da ogni peso o ipoteca di cui il donatario può averli gravati.

L’indennizzo consta nel pagamento, a favore del legittimario, dell’equivalente in denaro previsto dall’art. 563, comma 3°, c.c. (fino alla concorrenza del massimale, indicato dal richiedente sulla base dell’atto di donazione, dell’atto di compravendita o della perizia in funzione del valore dell’immobile o di porzione dello stesso) al fine di impedire la restituzione dell’immobile libero dall’eventuale ipoteca concessa al creditore ipotecario.

Il pagamento al legittimario è effettuato all’esito del giudizio di primo grado, non appena il provvedimento è esecutivo. In tal modo il terzo proprietario non perde mai la proprietà del bene e l’ipoteca a favore della banca resta efficace.

La copertura opera sino all’avvenuta prescrizione del diritto del legittimario ad agire per la restituzione dell’immobile e prescinde da eventuali trasferimenti successivi del bene o dalla surrogazione del mutuo ipotecario: la polizza si trasferisce gratuitamente a favore dei successivi acquirenti dello stesso o dei creditori ipotecari e rimane efficace anche in caso di cartolarizzazione del mutuo.

L’assicurazione a tutela del creditore ipotecario

Un ulteriore strumento assicurativo, ancor più specificamente mirato, è quello finalizzato alla facilitazione della concessione di finanziamenti destinati alla ristrutturazione di immobili di provenienza donativa. Il rischio coperto dalla polizza è la perdita della garanzia ipotecaria a seguito dell’esercizio di un’azione di riduzione ereditaria.

La polizza può essere contratta dal donatario legittimario dell’immobile o dai suoi aventi causa a titolo universale in occasione della concessione di un finanziamento edilizio, ovvero dall’eventuale terzo acquirente dell’immobile a cui si trasferisca anche il finanziamento. Il beneficiario dell’assicurazione è la banca finanziatrice. Il contraente-donatario legittimario non potrà in alcun caso essere il beneficiario diretto della copertura.

La polizza è infatti finalizzata a proteggere la banca che finanzia il donatario che intenda ristrutturare l’immobile ricevuto in donazione. L’impresa di assicurazione indennizzerà l’assicurato contro il rischio di perdita dell’ipoteca sull’immobile a seguito della sentenza definitiva che, in accoglimento della richiesta di un erede, dichiari la riduzione della donazione cui consegua la restituzione dell’immobile ai sensi dell’art. 561 c.c. o, nel caso in cui il contraente sia un terzo acquirente dell’immobile, la restituzione dello stesso ex art. 563 c.c.

Il pagamento dell’indennizzo avverrà versando a favore dell’assicurato un importo pari al capitale residuo del finanziamento ridotto del capitale eventualmente rimborsato dal sovvenuto dopo la notificazione dell’atto introduttivo dell’azione e in ogni caso sino a concorrenza del massimale. Il massimale non può in ogni caso superare il valore dell’ipoteca iscritta sull’immobile donato.

Oltre alle già citate ipotesi ostative alla copertura assicurativa, ulteriore circostanza impeditiva è che il donatario-contraente sia inadempiente nel rimborso del finanziamento fondiario.

L’assicurazione a protezione dei rischi nascenti dal conferimento di un immobile in trust

Da ultimo, devono segnalarsi i prodotti assicurativi finalizzati a facilitare il trasferimento di immobili oggetto di conferimento in trust, in quanto anche con tale istituto può realizzarsi un atto di liberalità potenzialmente lesivo dei diritti dei legittimari del disponente, con conseguente applicazione – ai sensi dell’art. 809 c.c. – della disciplina in materia di riduzione delle donazioni per integrare la quota a loro dovuta.

Possono contrarre la polizza il soggetto che conferisce l’immobile in trust (disponente), il soggetto che riceve l’immobile a seguito del conferimento (trustee), il soggetto a favore del quale viene trasferito gratuitamente l’immobile da parte del trustee a seguito della distribuzione (beneficiario), l’acquirente dell’immobile (o un suo avente causa) dal trustee, dal beneficiario o da qualsiasi successivo avente causa dagli stessi, nonché il creditore ipotecario di quest’ultimo.

Assicurato può innanzitutto essere il soggetto che acquista dal trustee, dal beneficiario o da qualsiasi successivo avente causa dagli stessi un bene immobile che è stato conferito in trust, essendo assicurato dal rischio relativo all’obbligo di restituzione dell’immobile all’erede legittimario del disponente. Inoltre, anche la banca che ha concesso un finanziamento ipotecario a favore dell’acquirente dell’immobile (ad eccezione delle ipotesi in cui l’ipoteca sia stata concessa dal trustee o dal beneficiario del trust) può essere assicurata dal rischio di cancellazione dell’ipoteca a seguito della restituzione dell’immobile all’erede legittimario del disponente.

Anche in tal caso, la polizza elimina l’obbligo di restituzione dell’immobile, libero dall’eventuale ipoteca sullo stesso iscritta, versando direttamente all’erede legittimario leso l’equivalente in denaro previsto dall’art. 563 c.c.

Dal punto di vista dell’efficacia temporale, non vi sono differenze con i prodotti assicurativi finora descritti. La polizza non ha una durata predeterminata: la copertura è infatti efficace sino alla prescrizione del diritto dei legittimari del disponente ad agire per ottenere la restituzione dell’immobile. Inoltre, prescinde da eventuali successive cessioni dell’immobile o del mutuo ipotecario: la polizza si trasferisce agli aventi causa e ai relativi creditori ipotecari.

L’importo del massimale è indicato dal richiedente, sulla base dell’atto di conferimento in trust o dell’atto di trasferimento al beneficiario, dell’atto di compravendita o della perizia e in funzione del valore dell’immobile (o porzione dello stesso).

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