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In cosa consiste la divisione giudiziale?

News Notai.it - Mar, 01/30/2024 - 18:35

La divisione giudiziale costituisce una delle procedure utilizzabili per sciogliere una situazione di comunione di determinate tipologie di beni.

Pegno non possessorio e quote di società a responsabilità limitata

News Federnotizie - Ven, 01/26/2024 - 08:30
a cura di Marco Reschigna 1. Introduzione al tema

Il presente scritto ha lo scopo di analizzare il rapporto tra pegno non possessorio, introdotto con il D.L. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni, dalla L. 39 giugno 2016, n. 119 (di seguito “D.L. 59/2016”) e quote di società a responsabilità limitata, che non ha mai avuto un sostanziale applicazione pratica fino alla recente istituzione del registro informatizzato dei pegni mobiliari non possessori, con il D.M. 25 maggio 2021, n. 114 (di seguito “D.M. 114/2021) e alla successiva approvazione delle specifiche tecniche dell’Agenzia delle Entrate per la registrazione, con Provvedimento del 12 gennaio 2023. Il D.M. sopra richiamato prevede espressamente che nella domanda di iscrizione al registro suddetto siano indicati “la natura, la quantità e gli estremi identificativi delle azioni ovvero delle partecipazioni gravate”. L’art. 1 D.L. 59/2016, invece, esclude i beni mobili registrati dall’oggetto del pegno non possessorio. Queste norme appaiono incoerenti tra loro, qualora si ritenga che le quote di s.r.l. abbiano natura di bene mobile registrato, al punto da dubitare che possano essere oggetto di pegno non possessorio.

Con l’effettiva entrata in funzione del registro dei pegni non possessori l’interprete è chiamato interrogarsi sulla portata delle suddette norme, per comprendere in che termini sia ammissibile tale forma di pegno su quote di s.r.l. e quali norme del pegno ordinario siano applicabili alla fattispecie, soprattutto in tema di pubblicità nel Registro delle Imprese[1].

Ai fini dell’analisi della questione, si ritiene opportuno, in primo luogo, analizzare brevemente la disciplina del pegno non possessorio, limitandosi agli aspetti essenziali. In secondo luogo si proporranno alcune considerazioni sulla natura giuridica della quota di s.r.l., per trattare, infine, del pegno non possessorio su quota di s.r.l.

2. Le caratteristiche del pegno non possessorio in generale

Il pegno non possessorio trova la propria disciplina nell’art. 1 D.L. 59/2016[2]. Questo può essere costituito da imprenditori iscritti nel registro delle imprese a garanzia di crediti inerenti all’esercizio dell’impresa. Per quanto riguarda l’aspetto oggettivo il pegno non possessorio può essere costituito su beni mobili e crediti destinati all’esercizio dell’impresa, anche immateriali, purché non si tratti di beni mobili registrati. Vi rientrano dunque tutte le entità attive patrimoniali aziendali, che abbiano le suddette caratteristiche[3].

Il pegno non possessorio è stato introdotto come strumento a disposizione per gli imprenditori in modo da permettere il mantenimento del possesso di quanto oggetto di gravame. Manca, in tale fattispecie, una delle caratteristiche fondamentali del pegno codicistico, cioè lo spossessamento del debitore. In questo modo si permette all’imprenditore di proseguire l’attività di impresa utilizzando i beni concessi in pegno. In ogni caso, si osserva che il pegno non possessorio non perde la natura giuridica di diritto reale di garanzia, precisandosi, tra l’altro, che il comma 10 bis del medesimo art. 1 D.L. 59/2016 stabilisce che per quanto non previsto dal citato articolo, si applicano, se compatibili, le norme sul pegno codicistico (libro sesto, titolo III, capo III del codice civile)[4].

Un ulteriore tratto caratteristico del pegno non possessorio è la c.d. rotatività automatica[5]. Questo principio implica che il debitore possa trasformare o alienare i beni sui quali grava la garanzia. In tale evenienza il pegno automaticamente si trasferisce su quanto trasformato o sul corrispettivo della cessione del bene gravato, senza che ciò consista nella costituzione di una nuova garanzia. Dunque, in caso di circolazione del bene gravato da pegno non possessorio questo è trasferito libero dal gravame, quest’ultimo trasferendosi, invece, sul corrispettivo. La novità risiede nel fatto che il principio di rotatività automatica diventa la disciplina legale. Si noti, tuttavia, che è fatta salva la diversa volontà delle parti.

Quanto alla forma dell’atto costitutivo del pegno non possessorio la legge richiede, a pena di nullità, la forma scritta con indicazione del creditore, del debitore e dell’eventuale terzo concedente pegno, la descrizione del bene dato in garanzia, del credito garantito e dell’importo massimo garantito. Il D.M. 114/2021 stabilisce che, oltre alla forma pubblica, di scrittura privata autenticata o accertata giudizialmente, è ammissibile anche la forma non autentica del “contratto sottoscritto digitalmente”.

Si osserva, poi, che la normativa prevede che il pegno non possessorio abbia efficacia verso terzi solo con l’iscrizione nel registro informatizzato dei pegni non possessori tenuto presso l’Agenzia delle Entrate. Tale iscrizione serve ai fini dell’opponibilità del pegno. Si tratta dunque di una pubblicità di tipo dichiarativo. Non pare che si possa sostenere che si tratti di pubblicità di tipo costitutivo, visto che le norme stesse trattano di pubblicità nel suddetto registro ai fini dell’opponibilità del gravame[6].

Infine, si precisa che le norme in tema di pegno non possessorio prevedono delle forme di escussione semplificate rispetto al pegno ordinario, che prevedono una sorta di autotutela rafforzata[7].

3. Natura giuridica della quota di s.r.l.

Se in questa sede ci si occupasse esclusivamente del pegno ordinario su quote di s.r.l., è certo che la questione della natura giuridica della quota di s.r.l. passerebbe in secondo piano, dal momento che l’art. 2471 bis c.c. lo ammette espressamente[8]. Ciò però non vale con riguardo al pegno non possessorio. In questo caso la qualificazione giuridica della quota di s.r.l. è, invece, importante dato che un’eventuale individuazione di tale natura quale bene mobile registrato ne precluderebbe l’ammissibilità. Lo stato attuale del dibattito su tale natura giuridica è, tuttavia, frammentario, senza che si sia mai pervenuti a una visione unitaria, ed è complesso da affrontare esaustivamente in questa sede[9].

Si ritiene, tuttavia, opportuno ai fini della presente analisi proporre alcune considerazioni sintetiche sui principali orientamenti di dottrina e giurisprudenza sulla tematica. Le tesi più risalenti inquadravano la quota di s.r.l. come una posizione di contitolarità del patrimonio sociale oppure come una posizione creditoria[10]. Solo più recentemente si è affermato, che la quota di s.r.l. si possa considerare una posizione contrattuale[11]. In un secondo momento, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno inquadrato, seppur con diverse declinazioni, la quota di s.r.l. come bene mobile. Tendenzialmente si parla di bene mobile immateriale e nella maggior parte delle pronunce di legittimità di bene mobile non registrato[12]. La posizione sembra consolidata. Si registra, tuttavia, un crescente interesse la posizione che identifica la quota di s.r.l. quale bene mobile registrato, anche alla luce dell’abolizione del libro soci e della “nuova” disciplina di opponibilità a terzi delle quote di s.r.l. dell’art. 2470 c.c.[13].

Si rileva, infine, che, nella prassi notarile, spesso le quote di s.r.l. sono considerate a tutti gli effetti come beni mobili registrati, quale oggetto di fondo patrimoniale e di vincolo di destinazione (artt. 167 e 2645 ter c.c.)[14].

4. Pegno non possessorio su quota di s.r.l.: analisi e prospettive

Quanto alla compatibilità della quota di s.r.l. con il pegno non possessorio, si osserva, innanzitutto, che il tema, sino ad oggi, è stato oggetto dell’attenzione di pochi autori, e per forza di cose, data la recente entrata in funzione del registro informatizzato, di nessun Tribunale. Tra coloro che si sono dedicati al tema è possibile distinguere due orientamenti dottrinali.

Vi è chi nega l’ammissibilità del pegno non possessorio su quota di s.r.l.[15]. Tale tesi si fonda sul seguente principale argomento. La quota di s.r.l. avrebbe natura di bene mobile registrato. La sua inclusione nel pegno non possessorio sarebbe, quindi, vietata dall’art. 1 c. 2 D.L. 59/2016, che esclude dall’oggetto del pegno non possessori i beni mobili registrati. Peraltro, in tale ottica la ratio di tale divieto risiede nella necessità di preservare il sistema di pubblicità relativo a tale categoria di beni, dato che quest’ultimo entrerebbe in conflitto con la pubblicità del pegno non possessorio nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate[16].

Vi è, poi, un secondo orientamento che ritiene il pegno non possessorio su quota di s.r.l. ammissibile, aderendo alla tesi per cui la quota di s.r.l. non sarebbe un bene mobile registrato[17]. In quest’ottica la quota di s.r.l. rientrerebbe nell’oggetto del pegno non possessorio ai sensi dell’art. 1 c. 2 D.L. 59/2016, senza che si verifichi alcun contrasto con il tenore letterale della norma.

Allo stato della discussione dottrinale e giurisprudenziale sul tema della qualificazione giuridica della quota di s.r.l., è ragionevole ritenere che quest’ultima non sia propriamente un bene mobile registrato, bensì un bene mobile non registrato, come da giurisprudenza consolidata[18]. Si possono semmai individuare dei tratti comuni ai beni mobili registrati, non del tutto idonei però a far ricadere le quote di s.r.l. nella suddetta categoria, con la precisazione che meritano comunque considerazione le perplessità sollevate dai fautori della tesi opposta (abolizione del libro soci e disciplina della pubblicità di cui all’art. 2470 c.c.).

Pertanto, con riferimento al pegno non possessorio su quota di s.r.l., si ritiene di poter condividere i risultati della dottrina permissiva sopra esposti. Ciò non senza, però, sviluppare alcune ulteriori considerazioni necessarie in favore della legittimità del pegno non possessorio su quota di s.r.l.

Innanzitutto, l’art. 1 DL 59/2016 precisa che oggetto del pegno non possessorio possano essere solo beni aziendali. Ci si può quindi chiedere se le quote di s.r.l. possano essere considerate beni di impresa. La risposta al quesito non può che essere positiva, seppur con le seguenti precisazioni. Deve, infatti, trattarsi di partecipazioni che siano effettivamente parte dell’azienda e, quindi, inserite nell’inventario e facenti parte dell’attivo. Non pare esservi alcun obbligo per il notaio di verificare quanto sopra, anche se è consigliabile procedere con prudenza, tenuto conto dell’ambito di specialità che la legge riserva al pegno non possessorio rispetto a quello ordinario.

La seconda tematica che l’interprete deve porsi è se sia necessaria la pubblicità nel Registro Imprese, oltre che nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate. Sul tema pare non vi siano alternative rispetto a un regime di doppia pubblicità[19]. In dottrina si parla di “doppio binario”. Non viene, infatti, meno l’obbligo di pubblicità nel Registro Imprese, che come sopra detto costituisce la garanzia dell’individuazione del preciso assetto societario in s.r.l. e dell’indicazione della presenza o meno di eventuali vincoli sulle quote. Di conseguenza è necessario che il pegno non possessorio su quota di s.r.l. sia costituto con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Sussiste, poi, l’obbligo per il notaio del deposito nel Registro delle Imprese ai sensi dell’art. 2470 c.c.. Gli ulteriori effetti del pegno non possessorio (quali in particolare la rotatività automatica e l’esecuzione semplificata) si avranno con l’ulteriore iscrizione nel registro informatizzato[20]. Da quanto appena detto si può desumere l’ulteriore considerazione che un pegno non possessorio su quota di s.r.l. non iscritto nel Registro Imprese, ma solo nel registro informatizzato tenuto presso l’Agenzia delle Entrate, non sia opponibile a terzi che acquistino diritti sulla quota oggetto di gravame. Si tenga conto che comunque il problema sarebbe marginale, visto il regime legale di rotatività automatica, ed eventualmente limitato a quei casi in cui le parti abbiano derogato a tale principio.

Questa soluzione interpretativa supera l’argomento dell’incompatibilità tra i regimi pubblicitari dei due tipi di pegno utilizzato dai sostenitori della tesi più restrittiva.

Resta da chiedersi infine se si possa sostenere che la disciplina del pegno non possessorio, la quale si basa proprio sul mancato spossessamento dei beni concessi in garanzia, deroghi anche al principio espresso dal combinato disposto degli art. 2471 bis c.c. e art. 2352 c.c., in base a cui diritti amministrativi e patrimoniali spettano al creditore pignoratizio, salvi diversi accordi. Il tema non è stato oggetto dell’attenzione della dottrina e sul punto è consigliabile procedere con cautela. Quanto sopra potrebbe sembrare coerente con le caratteristiche del pegno non possessorio, dato che il mancato spossessamento potrebbe concretizzarsi nella permanenza di tali diritti in capo al socio imprenditore. Tuttavia, in assenza di una deroga espressa all’art. 2471 bis c.c., sembra difficile poter affermare che diritti amministrativi e patrimoniali rimangano ex lege in capo al socio imprenditore, salvo diversa volontà delle parti. In argomento, visti i possibili margini di discussione appena delineati, è bene che il contratto costitutivo del pegno non possessorio su quota di s.r.l. disciplini questo aspetto nello specifico.

In definitiva, seppur con qualche dubbio e con il consiglio di tenere monitorato l’andamento del dibattito sulla natura giuridica della quota di s.r.l., si ritiene che questa, allo stato attuale di tale discussione, possa essere oggetto di pegno non possessorio. Ciò, tuttavia, alla condizione che il pegno sia iscritto, non solo nel registro informatizzato, ma anche nel Registro delle Imprese, che rappresenta l’unico registro pubblico in grado di fornire indicazioni utili circa l’assetto proprietario ed eventuali gravami nella società a responsabilità limitata.

Note

[1] Si sono occupati della tematica nello specifico: S. Ambrosini, Il pegno non possessorio ex lege n. 119/2016, in www.ilcaso.it; F. Murino, Prime considerazioni sul c.d. pegno non possessorio, in BBTC, 2017, I, 231 ss.; M. Campobasso, Il pegno non possessorio. “Pegno”, ma non troppo, in NLCC, 2018, 703 ss.; A. Chianale, Il pegno non possessorio su beni determinati, in Riv. dir. civ., 2019, 951 ss.; A. Busani, Registro dei pegni fuori rotta sulle quote di srl, in Il Sole 24 Ore, 13 agosto 2021, 19; Id., Pegno non possessorio iscritto anche nel Registro delle Imprese, in Il Sole 24 Ore, 25 agosto 2023, 21.

[2] Sull’argomento si vedano, tra gli altri, S. Ambrosini, (nt. 1); L. De Stefano, Il pegno non possessorio – Il pegno nel sistema codicistico ed il pegno non possessorio introdotto dal D.L. 3 maggio 2016 n. 59, in Nuovi Contratti e tecniche redazionali a cura di Federnotizie, 2016, 69 ss.; V. Rubertelli, Il pegno non possessorio, 9 maggio 2016, in questa rivista; I. Baghi, L’esordio del pegno mobiliare non possessorio: riflessioni sui profili processuali, in Corr. giur., 2017, 1380 ss.; G.B. Barillà, Alcune osservazioni a margine del recepimento legislativo del pegno non possessorio, in Corr. giur., 2017, 5 ss.; Id., Pegno non possessorio e patto marciano: dalla tutela statica del credito alle nuove forme di garanzia, in Giur. comm., 2017, I, 583 ss.; E. Gabrielli, Una garanzia reale senza possesso, in Nuovi modelli di garanzie patrimoniali, a cura di E. Gabrielli e S. Pagliantini, in Giur. it., 2017, 1715 ss.; F. Murino, (nt. 1), 231 ss.; M. Campobasso, (nt. 1), 703 ss.; A. Chianale, (nt. 1), 951 ss.; L. Piccolo, Istituito il “registro del pegni”: una nuova, non conclusiva, tappa per la piena operatività del pegno mobiliare non possessorio, Segnalazioni normative esecuzioni immobiliari del 13 agosto 2021, in www.notariato.it; P. Piscitello, Il pegno rotativo ex lege, in BBTC, I, 2022, 342 ss.

[3] Si veda infra al paragrafo 5, se e in che termini le quota di s.r.l. possano essere considerate beni dell’impresa.

[4] In dottrina M. Campobasso, (nt. 1), 704, lo definisce come un “sotto-tipo di pegno”.

[5] Si osserva che, già prima che il legislatore introducesse il pegno non possessorio, la giurisprudenza di legittimità e la dottrina ammettevano la rotatività del pegno ordinario, ove previsto dalle parti ed entro determinati limiti. La vera novità rispetto al passato risiede nel fatto che per il pegno non possessorio la rotatività rappresenta il regime legale. Si può notare la rotatività automatica in questione rafforzi gli argomenti a sostegno della clausola di rotatività del pegno ordinario. Sull’argomento sia concesso il rinvio: G.B. Barillà, Pegno non possessorio, (nt. 2), 583 ss. e P. Piscitello, (nt. 2), 342 ss.

[6] Sul punto si veda M. Campobasso, (nt. 1), 706, il quale precisa che la norma: “non lascia spazio a dubbi che la garanzia è valida e vincolante tra le parti per effetto del semplice contratto, mentre la pubblicità è richiesta ai fini dell’opponibilità ai terzi.”.

[7] Per una trattazione più approfondita di questo aspetto, tra gli altri, si vedano: S. Ambrosini, (nt. 1); I. Baghi, (nt. 2), 1381 ss.; E. Gabrielli, (nt. 2), 1718; F. Murino, (nt. 1), 275 ss.; M. Campobasso, (nt. 1), 727 ss.; A. Chianale, (nt. 1), 972 ss.

[8] Proprio in questo senso si esprime L. Calvosa, Le altre vicende delle partecipazioni, in Le società a responsabilità limitata, a cura di C. Ibba – G. Marasà, I, Milano, Giuffrè, 2020, 703 ss.. Più in generale sul pegno ordinario su quota di s.r.l. si rinvia fra tutti a: C. Gattoni, Commento all’art. 2471-bis c.c., in Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, in Società a responsabilità limitata, a cura di L.A. Bianchi, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti, L.A. Bianchi, F. Ghezzi, M. Notari, Milano, Giuffrè, 2008, 429 ss.; G. Zanarone, Della società a responsabilità limitata, Il Codice Civile Commentato, fondato da P. Schlesinger e diretto da F. D. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2010; F. Briolini, Pegno, usufrutto, sequestro, in Trattato delle società a cura di V. Donativi, Tomo III, Assago, Wolters Kluwer, 2022, 406 ss.

[9] Per un’efficace ricostruzione della discussione si vedano: M. Sciuto, Le quote di partecipazione, in Le società a responsabilità limitata, a cura di C. Ibba – G. Marasà, I, Milano, Giuffrè, 2020, 517 ss. e L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11. Sull’argomento, fra tutti, si vedano anche: P. Revigliono, Il trasferimento della quota di società a responsabilità limitata. Il regime legale, Milano, Giuffrè, 1998, 6 ss.; V. De Stasio, Trasferimento della partecipazione nella s.r.l. e conflitto tra acquirenti, Milano, Giuffrè, 2008, 80 ss.; L. Di Nella, Natura e divisibilità delle quote di partecipazione, sub. art. 2468, in Commentario delle s.r.l., dedicato a G.B. Portale, a cura di A. Dolmetta e G. Presti, Milano, Giuffrè, 2011, 270 ss.

[10] Sul punto sia concesso il rinvio a L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11.

[11] Si noti che in questo senso si è pronunciata anche di recente la Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. I, 27 novembre 2019, n. 31051 in Società,2020, 689 ss.,con nota di M. Costanza, in Notariato, 2020, 173 ss., con nota di M. Ferrari e F. Mottola Lucano, e in Giur. it., 2020, 1679 ss., con nota di M.L. Passador).

[12] Questa posizione, che può considerarsi consolidata, è stata sostenuta varie volte negli ultimi decenni dalla Cassazione. Per una precisa indicazione di tali pronunce si rinvia a A. Ruotolo – D. Boggiali, Quote di s.r.l. e natura di bene mobile registrato ai fini dell’usucapione (Trib. Milano, 22 dicembre 2017), Ufficio Studi CNN, Sentenze annotate, 13 giugno 2018, in www.notariato.it e per completezza a L. Calvosa, (nt. 8), 709, nt. 11.

[13] Sul punto si veda Trib. Milano 22 dicembre 2017, in Società, 2018, 418 ss., con nota critica di E. Pedersoli. Secondo quest’ultimo va escluso che la quota di s.r.l. possa essere identificata quale bene mobile registrato poiché nel caso di pubblicità nel Registro delle Imprese di una cessione di quota di s.r.l., ai fini dell’opponibilità del trasferimento, non è sufficiente l’iscrizione, ma serve anche il requisito della buona fede.

[14] Rileva la questione A. Busani, Registro dei pegni, (nt. 1), 19; Id., Pegno non possessorio, (nt. 1), 21. In argomento si richiama anche la posizione della Commissione Civile del Consiglio Notarile del Triveneto che nell’Orientamento n. 14, in www.notaitriveneto.it, secondo cui, sebbene sembri che, dopo la riforma delle società di capitali e l’abolizione del libro soci nel 2008, la quota di s.r.l. possa essere assimilata a un bene mobile registrato, ai fini dell’ammissibilità del fondo patrimoniale sulle quote di s.r.l., la tematica della qualificazione giuridica passa in secondo piano, tenuto conto che l’art. 167 c.c. andrebbe letto in senso estensivo. Dunque, andrebbe inteso nel senso che è suscettibile di essere oggetto di fondo patrimoniale qualsiasi bene per il quale vi sia un’adeguata pubblicità rispetto al vincolo stesso. In quest’ottica, pertanto le quote di s.r.l., indipendentemente dalla loro natura giuridica, possono far parte di un fondo patrimoniale, proprio per il regime pubblicitario previsto dall’art. 2470 c.c. idoneo a dare adeguata pubblicità al vincolo.

[15] In questo senso: V. Rubertelli, (nt. 2); M. Campobasso, (nt. 1), 703 ss. e A. Chianale, (nt. 1), 951 ss.

[16] In questo senso M. Campobasso, (nt. 1), 706 ss.

[17] S. Ambrosini, (nt. 1); A. Busani, Registro dei pegni, (nt. 1), 19; Id., Pegno non possessorio, (nt. 1), 21. Pare esprimersi in questo senso anche F. Murino, (nt. 1), 231 ss., il quale, tuttavia, dopo aver esposto le due opposte tesi, sopra riportate, si concentra sulla compatibilità dell’esecuzione semplificata del pegno non possessorio con il sistema pubblicitario della s.r.l.

[18] Si ritiene, comunque, di non svalutare con riguardo al fondo patrimoniale (ed estensivamente anche al vincolo di destinazione) quanto ritenuto dalla Commissione Civile del Consiglio Notarile del Triveneto nell’Orientamento n. 14, (nt.15).

[19] Con riferimento al pegno ordinario su quota di s.r.l. la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono orientate a ritenere necessaria la forma pubblica (o di scrittura privata autenticata) con annessa iscrizione nel Registro Imprese, con applicazione di quanto previsto dall’art. 2470 c.c. in tema di trasferimento di quota. Infatti, la mancanza di una norma, infatti, non può autorizzare l’interprete a prescindere dai principi generali in tema di pubblicità, divenuta essenziale ai fini dell’individuazione dei soci e di eventuali vincoli sulle quote, a maggior ragione dopo l’abolizione del libro soci. Così L. Calvosa, (nt. 8), 707.

[20] Sulla compatibilità del pegno non possessorio su quota di s.r.l. e le modalità di autotutela semplificata F. Murino, (nt. 1), 248 ss.

Pegno non possessorio e quote di società a responsabilità limitata ultima modifica: 2024-01-26T08:30:00+01:00 da Redazione Federnotizie

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Amministrazione di sostegno, procedura e compiti dell'amministratore

News Notai.it - Mer, 01/24/2024 - 18:45

L'istituto mira alla tutela patrimoniale e alla cura di una determinata categoria di persone che non può provvedere personalmente alla gestione dei propri interessi.

La capacità di intendere e di volere nell’attività notarile. Osservazioni casistiche

News Federnotizie - Mer, 01/24/2024 - 08:30
di Alessandro Torroni*

Sommario: 1. Riferimenti normativi2. L’incapacità naturale e la circonvenzione d’incapace3. Casistica4. L’incapacità naturale del testatore5. Casistica6. Conclusione

* Relazione svolta al seminario “La capacità decisionale al giorno d’oggi. Il punto di vista medico applicato alla pratica notarile” organizzato dal Consiglio notarile dei distretti riuniti di Forlì e Rimini il 1° dicembre 2023.

1. Riferimenti normativi

Il presente studio affronta, in maniera casistica, il tema della di capacità di intendere o di volere applicata all’attività notarile. È opportuno partire dall’esame delle norme del nostro sistema giuridico che disciplinano l’incapacità di intendere o di volere, e precisamente l’art. 428 del codice civile, l’art. 1425 del codice civile, l’art. 1389 del codice civile, l’art. 643 del codice penale e l’art. 591 del codice civile.

Art. 428 c.c. (Atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere)

Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere o di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore.

L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente.

L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto.

Resta salva ogni diversa disposizione di legge.

Art. 1425 c.c. (Incapacità delle parti)

Il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrarre.

È parimenti annullabile, quando ricorrono le condizioni stabilite dall’articolo 428, il contratto stipulato da persona incapace di intendere o di volere.Art. 1389 c.c. (Capacità del rappresentante e del rappresentato).

Quando la rappresentanza è conferita dall’interessato, per la validità del contratto concluso dal rappresentante basta che questi abbia la capacità di intendere e di volere, avuto riguardo alla natura e al contenuto del contratto stesso, sempre che sia legalmente capace il rappresentato.

In ogni caso, per la validità del contratto concluso dal rappresentante è necessario che il contratto non sia vietato al rappresentato.

Art. 643 c.p. (Circonvenzione di persone incapaci)

Chiunque, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, ovvero abusando dello stato d’infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da duecentosei euro a duemilasessantacinque euro.

Art. 591 c.c. (Casi d’incapacità)

Possono disporre per testamento tutti coloro che non sono dichiarati incapaci dalla legge.

Sono incapaci di testare:

  1. coloro che non hanno compiuto la maggiore età;
  2. gli interdetti per infermità di mente;
  3. quelli che, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.

Nei casi d’incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie.

2. L’incapacità naturale e la circonvenzione d’incapace

L’incapacità di intendere o di volere consiste in una situazione di grave perturbamento delle capacità psichiche o intellettive della persona che le impedisce di valutare correttamente il contenuto e gli effetti di un atto giuridico che sta compiendo oppure di manifestare una volontà seria e consapevole di compiere quell’atto o di determinare il regolamento di interessi contrattuale. I due deficit che colpiscono rispettivamente l’intelletto e la volontà sono considerati separatamente dal legislatore (“persona … incapace d’intendere o di volere”).

L’incapacità di intendere e di volere è stata definita come “una grave alterazione dell’attitudine del soggetto ad interpretare gli atti, che egli compie, e a comprenderne il senso nel contesto della realtà che lo circonda (menomazione della sfera dell’intelligenza), oppure come una grave alterazione dell’attitudine del soggetto ad adeguare il proprio comportamento a scelte rispondenti ad una propria ideazione razionale (menomazione della volontà)”[1].

Più specificamente, la “capacità di intendere” indica l’idoneità a comprendere la portata e la rilevanza dell’atto che si compie mentre la “capacità di volere” indica l’attitudine ad autodeterminarsi coscientemente e liberamente, attraverso la valutazione critica comparativa del fine da perseguire e dei mezzi idonei per la sua attuazione. La capacità di agire deve essere esclusa sia che manchi la capacità a comprendere sia che manchi la capacità di autodeterminazione. È possibile che sussista la prima ma manchi la seconda: ad esempio, nei casi in cui il soggetto, pur essendo consapevole di ciò che fa e che dice, non è in condizione di esercitare liberamente una propria volontà, a causa di turbe psichiche o di circostanze esteriori che sopprimono in lui ogni potere di critica e di scelta. Al contrario non è concepibile che taluno sia capace di volere senza essere, altresì, capace di intendere, ossia dotato di discernimento, poiché il processo di formazione della volontà, al pari della sua estrinsecazione ed attuazione, deve sempre svolgersi sotto il controllo dell’intelligenza e della coscienza[2].

L’incapacità naturale va valutata con riferimento a un singolo atto, essendovi una netta differenza tra le qualità psichiche richieste per concludere un contratto volto a soddisfare esigenze della vita quotidiana (c.d. attività contrattuale minima) e quelle richieste per la consapevole stipulazione di un contratto più complesso[3].

La situazione di grave perturbamento psichico può derivare da malattia, degenerazioni cognitive dovute all’età avanzata, assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti. La diminuzione delle capacità intellettive o volitive del soggetto deve essere molto grave, tale che, se non fosse transitoria, ci sarebbero i requisiti per una limitazione della capacità legale della persona con le procedure di interdizione, inabilitazione o apertura di un’amministrazione di sostegno. È stato affermato che “non ogni turbamento del processo di formazione ed estrinsecazione della volontà può ritenersi sufficiente ad identificare uno stadio di incapacità rilevante: a tal fine serve un perturbamento tale da impedire una seria valutazione del contenuto e degli effetti del contratto”[4].

In giurisprudenza, non sono stati ritenuti idonei a fondare una pronuncia di annullamento gli stati d’ansia, per quanto marcati, i gravi dispiaceri, la depressione, gli eccessi di affettività[5].

Per l’annullabilità di un atto compiuto da persona incapace di intendere o di volere è richiesto l’ulteriore requisito del grave pregiudizio che l’atto può arrecare al suo autore. Nel caso di un contratto, l’ulteriore requisito richiesto l’annullabilità dello stesso è dato dalla malafede dell’altro contraente[6] di cui il pregiudizio per l’autore è uno degli indici rivelatori ma non è l’unico né è indispensabile, potendo la malafede essere desunta anche dal contenuto del contratto, ad esempio dalla sproporzione tra le prestazioni delle parti oppure da altre anomalie desumibili dal regolamento contrattuale. La malafede consiste nella semplice consapevolezza della situazione di incapacità soggettiva in cui versa l’altra parte e non richiede un concorso nella realizzazione della suddetta incapacità. L’ulteriore requisito della malafede dell’altro contraente tutela il principio di affidamento e di sicurezza della circolazione immobiliare, ogni qualvolta l’acquirente è ignaro dello stato di incapacità del contraente[7].

Nel caso la controparte abusi dello stato di infermità o di deficienza psichica di una persona e la induca a compiere un atto che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso per lei o per altri, si consuma il reato di circonvenzione d’incapace. Elemento costitutivo del reato è rappresentato dall’approfittamento dello stato di deficienza psichica della persona; non è necessaria una totale incapacità di intendere o di volere ma è sufficiente una situazione di debolezza psichica da cui deriva, per le circostanze concrete, una soggezione psicologica del circuito che lo porta a compiere un atto contro la sua effettiva volontà. Il concetto di deficienza psichica è stato esteso dalla giurisprudenza fino a ricomprendere qualsiasi menomazione del potere di critica, qualsiasi indebolimento della funzione volitiva o affettiva che agevolino la suggestionabilità e diminuiscano i poteri di difesa del soggetto passivo, quali l’età, la debolezza di carattere, la carenza di cultura e di rapporti interpersonali[8]. Il reato di circonvenzione d’incapace può colpire soggetti affetti “da una qualsiasi forma di minorazione della sfera intellettiva e volitiva, anche se non mancanti completamente della capacità d’intendere e di volere”[9].

Mentre, nel caso dell’incapacità di intendere e di volere, la volontà del contraente è gravemente viziata a causa dello stato psichico del contraente, comportando un sostanziale azzeramento della capacità cognitivo-intellettiva e di quella volitiva[10], nel diverso caso della circonvenzione d’incapace, prevale l’abuso del contratto e la prevaricazione della parte forte nei confronti di quella debole; in giurisprudenza si parla di “anomala dinamica relazionale”[11]: è possibile che il soggetto passivo possa rappresentarsi cognitivamente gli effetti pregiudizievoli dell’atto e che non li desideri, ma non riesce a sottrarsi perché l’altrui opera di suggestione ed induzione lo priva del potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio.

In sintesi, nell’incapacità, la volontà manca o è gravemente viziata; nella circonvenzione d’incapace, il soggetto debole non riesce a resistere alla volontà altrui.

Diverse sono le conseguenze sanzionatorie delle due fattispecie.

L’atto compiuto da persona che risulta essere incapace di intendere o di volere, in presenza del grave pregiudizio all’autore o della malafede dell’altro contraente, può essere annullato nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto. Il legislatore del ’42 optò per l’annullabilità, in luogo della più grave sanzione della nullità, mentre la dottrina precedente l’entrata in vigore del codice civile era favorevole alla sanzione della nullità, sul presupposto di un difetto radicale del consenso[12].

L’atto compiuto in conseguenza del reato di circonvenzione d’incapace, secondo la tesi prevalente in giurisprudenza, è nullo per contrarietà a norma imperativa, cioè la norma penale incriminatrice del reato[13].

Questa impostazione è criticata in dottrina[14] dove è stata evidenziata la contraddizione di applicare una sanzione più grave (la nullità) ad una fattispecie dove il difetto della volontà è minore mentre prevale il dolo dell’autore del reato, rispetto al caso di completa incapacità di intendere o di volere, sanzionato con l’annullabilità. La nullità dell’atto posto in essere per effetto di circonvenzione d’incapace è, al contrario, giustificata dalla giurisprudenza prevalente con la maggiore ampiezza della carica offensiva del delitto di circonvenzione d’incapace, lesivo del libero esercizio dell’autodeterminazione nella cura dei propri interessi e nella conseguente corretta ed affidabile circolazione dei beni, che estende la sua pericolosità oltre il compimento del singolo atto[15]. La disciplina dell’incapacità naturale mira a tutelare il patrimonio dell’incapace mentre la circonvenzione, imperniata su un’attività di induzione a compiere atti pregiudizievoli per sé, lede la persona dell’infermo[16] e la libertà negoziale dei soggetti deboli e svantaggiati[17].

3. Casistica Casi 1: Trib. Genova 30 giugno 2011 [18]

Vendita dell’unico immobile (con riserva di abitazione) ad una signora “vicina” al venditore, anche se non legata ad alcun rapporto di parentela, per il prezzo di euro 23.000, corrisposto al nipote dell’acquirente.

L’attore denuncia il nipote dell’acquirente per circonvenzione d’incapace e chiede l’annullamento del contratto di compravendita per incapacità di intendere e volere. Il procedimento penale si chiude con l’archiviazione.

In sede civile, il Tribunale, sulla base di una perizia d’ufficio, che si è basata su cartelle cliniche relative a ricoveri occorsi al venditore in un arco temporale comprendente anche il momento della conclusione del contratto, ha accertato l’impossibilità per l’attore di comprendere la complessità del contratto e decidere autonomamente gli atti dispositivi da compiere.

Oltre alla perizia tecnica, il Tribunale ha valutato ulteriori elementi indiziari ritenuti idonei a sostenere l’accertamento dell’incapacità: l’oggettiva mancanza di vantaggio economico per il venditore; il corrispettivo pattuito, per quanto basso, non fu mai versato; la precaria condizione economica del venditore, il quale con la vendita esauriva il proprio patrimonio, unica garanzia per il sostentamento futuro; il pagamento anomalo al nipote dell’acquirente non giustificato da alcuna causale (quali ricompense per assistenza passata o futura).

Il rapporto di vicinanza delle parti rende inverosimile l’inconsapevolezza dell’incapacità e della natura svantaggiosa dell’operazione per il venditore.

Caso 2: Cass. 16 gennaio 2007, n. 856 [19]

Una donna novantenne, pochi mesi prima della propria morte, aveva venduto un appartamento per un prezzo non commisurato al suo valore molto rilevante.

Da alcuni anni la venditrice dava segni di decadimento psichico, come risultava anche da documentazione clinica.

La figlia adottiva agiva per la dichiarazione di nullità del contratto. Da alcune testimonianze è emerso che la venditrice aveva allucinazioni; non distingueva tra giorno e notte; credeva che i medici curanti fossero suoi aggressori; nonostante avesse solamente una figlia adottiva, era convinta di avere portato a termine solo una gravidanza su tre; non riusciva più a fare calcoli; non riconosceva il valore delle cose e del denaro.

Un’altra anomalia dell’operazione era consistita nelle modalità di pagamento del prezzo: la venditrice aveva insistentemente preteso il pagamento del prezzo della compravendita in contanti, in banconote da lire centomila, e, durante i periodi di degenza in ospedale, ricorrendo a fonti esterne alla struttura ospedaliera, si era procurata farmaci di cui abusava all’insaputa dei medici.

Sono state considerate circostanze ininfluenti, ai fini della valutazione della capacità della venditrice: i) il fatto che avesse conservato una buona grafia e ii) che avesse fatto testamento pubblico, poiché la grafia non dimostra integrità delle funzioni intellettive e volitive e l’eventuale apprezzamento del notaio rogante in ordine alla sua capacità non è coperto dall’efficacia probatoria dell’atto pubblico[20].

Caso 3: Cass. 27 febbraio 2023, n. 18848

La sorella, ha venduto al fratello la nuda proprietà di un immobile e successivamente ha rinunciato al diritto di usufrutto. Nei due atti il notaio aveva dato conto che la venditrice/rinunciante era un soggetto parzialmente privo dell’udito ma capace di leggere e scrivere.

La venditrice/rinunciante ha chiesto al tribunale di accertare la nullità dei due atti poiché sosteneva di avere dichiarato di essere affetta da una grave forma di sordomutismo risultante da una certificazione e nei due atti non risultava tale dichiarazione né erano state osservare le formalità prescritte dalla legge notarile a favore del sordo (lettura dell’atto e dichiarazione di conformità del contenuto alla volontà del soggetto minorato). Le domande sono state respinte dal tribunale e la sentenza è stata confermata dalla corte d’appello, per la ragione principale che l’attrice non aveva proposto querela di falso per rimuovere l’efficacia probatoria dei due atti, con conseguente legittimo esonero del notaio dall’obbligo di adottare le formalità di cui agli articoli 56 e 57 l. not.

Il problema principale affrontato dalla sentenza riguarda la contestazione da parte dell’attrice della menzione con cui il notaio dava conto della dichiarazione della venditrice/rinunciante di essere soggetto parzialmente privo dell’udito ma capace di leggere e scrivere. La Cassazione ha confermato l’interpretazione della Corte d’appello secondo cui il notaio non ha accertato la condizione fisica della parte (l’atto pubblico non fa piena prova di affermazioni del pubblico ufficiale che si risolvono in suoi personali apprezzamenti o giudizi[21]), al contrario è stata la parte stessa a dichiarare di essere parzialmente priva dell’udito ma di sapere leggere e scrivere, con la conseguenza che la dichiarazione della parte documentata nell’atto pubblico è coperta da fede privilegiata che può essere superata solamente con la querela di falso, non trattandosi di una valutazione personale del professionista (art. 2700 c.c.).

La sentenza ha inoltre rilevato che dalle risultanze istruttore era emerso che la ricorrente era capace di gestirsi normalmente con apparecchio acustico e che aveva reso la stessa dichiarazione contenuta negli atti impugnati ad altro notaio nell’atto di acquisto dello stesso immobile pochi mesi prima; che l’immobile era stato venduto per l’acquisto di un altro immobile con l’aiuto paterno, sicché nessun raggiro era stato compiuto ai suoi danni dal fratello.

Caso 4: Trib. Milano 2 settembre 2010 [22]

Un medico specialista responsabile dell’unità operativa di urologia di una casa di cura privata stipulava un contratto di locazione finanziaria avente a oggetto l’acquisto di un macchinario. All’atto della stipula del contratto il medico non versava in condizioni di salute di normalità psichica, come accertato nel corso della consulenza medico legale, essendo affetto da esuberanza maniacale, all’interno di un disturbo bipolare.

Il tribunale rigettava la domanda di annullamento del contratto rilevando che la condotta dell’attore, nella fase delle trattative ed all’atto della stipula del contratto di leasing era priva di elementi o connotazioni oggettive idonee ad ingenerare nella controparte, secondo le nozioni di comune esperienza, il sospetto di una incapacità, ancorché transitoria o parziale, di intendere e di volere del proprio interlocutore. In particolare, il tribunale ha valutato la circostanza della pertinenza del bene rispetto all’attività professionale esercitata dall’attore, per cui doveva escludersi che la convenuta fosse in grado, adoperando l’ordinaria diligenza, di avvedersi della sussistenza di un pregiudizio a carico dell’utilizzatore all’atto del perfezionamento del contratto. Nella fattispecie il tribunale ha ritenuto che mancasse la mala fede della convenuta, in qualità di concedente.

4. L’incapacità naturale del testatore

L’annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza del significato dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, con il conseguente onere, a carico di chi quello stato di  incapacità assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere[23]. Non ogni anomalia o alterazione delle facoltà intellettuali implica incapacità di testare ma occorre, a tale effetto, che l’anomalia incida totalmente sulla coscienza dei propri atti[24]

Non ricorre l’incapacità naturale idonea ad invalidare il testamento ex art. 591 c.c. la presenza di un minimo decadimento delle facoltà mentali, desumentesi da mere anomalie comportamentali, non compromettente le funzioni volitive e la capacità critica[25].

È stato ulteriormente precisato che per aversi incapacità naturale non è sufficiente che il processo di formazione e di estrinsecazione della volontà sia un qualunque modo alterato o turbato, come frequentemente avviene nel caso di grave malattia, ma è necessario che lo stato psicofisico del soggetto sia in quel momento tale da sopprimere l’attitudine a determinarsi coscientemente e liberamente, essendo la regola la capacità di agire del soggetto e dovendo, pertanto, la sua incapacità, che costituisce un’eccezione, essere provata in modo serio e rigoroso[26].

Né lo stato d’ira né l’ostilità versi la persona pretermessa dal testatore possono determinare l’invalidità del testamento, se essi non tolgono in modo completo la capacità di intendere e di volere, se cioè essi restano limitati alla sfera affettiva, senza spiegare alcuna efficace azione sulla coscienza e sulla volontà[27]. È stato negato carattere patologico a manifestazione di ira e di rancore connesse all’apprendimento da parte del testatore di notizie inattese che lo inducano a mutare le disposizioni testamentarie a favore di precedenti beneficiari[28].Gli stati passionali non costituiscono di per sé causa di riduzione della capacità psichica, tranne che provochino nel soggetto un disordine mentale di tale intensità da privarlo, sia pure temporaneamente, della capacità di intendere[29].

Lo stato di incapacità di testare deve essere valutato con particolare rigore, essendo necessario fornire la prova che il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della facoltà di concepire ed esprimere liberamente la propria volontà[30]. È stato precisato che “l’incapacità di testare ai sensi dell’art. 591, n. 3, c.c. è quindi una totale obnubilazione della mente del testatore, da renderlo totalmente incapace di intendere il significato della sua condotta e di assumerne volontariamente le conseguenze”[31].

Quanto all’onere della prova, si distingue tra infermità permanente e abituale, cui presuntivamente si ricollega uno stato di incapacità naturale, e infermità a carattere intermittente, per la quale non opera una presunzione di incapacità, con conseguente onere, a carico di chi quello stato assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere[32].

Nel caso di provata infermità mentale tipica, permanente o abituale, insuscettibile di alcun miglioramento, è posta a carico di chi afferma la validità del testamento la prova della compilazione del testamento in un momento di lucido intervallo, poiché in quel caso la normalità che si si presume è l’incapacità. Nei casi diversi dall’incapacità mentale tipica, permanente o abituale non è consentito affermare l’incapacità del testatore sulla base dell’accertamento che costui, in tempo anteriore o posteriore alla data del testamento, si sia trovato in stato di infermità mentale, dovendo in tal caso accertarsi le condizioni mentali del testatore nel momento in cui redasse il testamento[33].

Nessuna disposizione di legge impone di accertare, mediante consulenza psichiatrica, le condizioni mentali del testatore, al fine di giudicare sulla validità o meno del suo testamento, quando dalle altre prove in atti risultano elementi sufficienti a convincere il giudice della sanità o infermità di mente del testatore stesso, sì da rendere la consulenza superflua o inutile[34].

Non sono privati della capacità di testare l’inabilitato e il soggetto al quale è stato nominato un amministratore di sostegno il quale, come regola generale, conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedano la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno (art. 409, comma 1, c.c.). Il giudice tutelare può prevedere d’ufficio, sia con il provvedimento di nomina dell’amministratore, sia mediante successive modifiche, la limitazione della capacità di testare o donare del beneficiario, ove le sue condizioni psico-fisiche non gli consentano di esprimere una libera e consapevole volontà[35].

5. Casistica Caso 5: App. Milano 6 maggio 2022, n. 1515

Nel caso deciso da App. Milano 6 maggio 2022, n. 1515 si chiedeva l’annullamento di un testamento segreto con il quale l’anziana testatrice aveva disposto del suo patrimonio in difformità a tutte le disposizioni precedenti.

Non sono stati ritenuti elementi determinanti per giudicare l’incapacità naturale della testatrice, in assenza di documentati elementi di segno contrario di natura medico-legale, l’età avanzata della de cuius in sé considerata né la sua infermità fisica, seppur tale da rendere necessaria un’assistenza continuativa, sottolineando come la difficoltà di deambulazione o persino condizioni di allettamento non siano di per sé significative di carenza o di incapacità di intendere e di volere. 

È stata ritenuta ininfluente, ai fini della prova dell’incapacità, la documentazione medica allegata alla richiesta di riconoscimento dell’invalidità civile trasmessa all’INPS circa un anno dopo la redazione del testamento impugnato, trattandosi di certificazione specificatamente finalizzata all’ottenimento di agevolazioni amministrative e, come tale, non rilevante ai fini dell’accertamento dello stato di capacità della testatrice, ed essendo successiva di oltre un anno rispetto alla data di redazione della scheda testamentaria. 

La Corte ha infine ritenuto opportuno anche non ignorare il contenuto intrinseco dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle disposizioni in esso espresse, con riferimento ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Il contenuto del testamento risultava significativo di una volontà lucida e determinata, assolutamente avulsa da espressioni eccentriche, incomprensibili o addirittura farneticanti.

Caso 6: Corte d’appello Torino 28 marzo 2022, n. 340

Il tribunale di Torino ha annullato un testamento olografo della de cuius redatto in data 11 marzo 2013 per incapacità di intendere e di volere della testatrice al momento della redazione dell’atto in quanto era affetta, a partire dal novembre 2012, da un “quadro di deterioramento cognitivo ingravescente nell’ambito del quale si sono evidenziati temi deliranti di tipo persecutorio incentrati sui familiari accusati di volersi impossessare dei suoi beni”. Il testamento impugnato conteneva disposizioni confermative di un testamento anteriore redatto il 10 luglio 2006, sempre favorevoli agli attori mentre la testatrice aveva redatto un testamento il 14 luglio 2012 favorevole ai parenti che agivano in giudizio, e alcuni testi avevano riferito di uno sfogo della testatrice “di essere stata costretta da certi altri parenti serpenti alla redazione di un nuovo testamento”.

L’accertamento della incapacità naturale della testatrice si è basato sugli esiti del secondo ricovero ospedaliero svoltosi nel dicembre 2012 mentre nella relazione di un medico psichiatra del dipartimento di salute mentale redatta il 12 luglio 2013, a distanza di quattro mesi dalla redazione del testamento, all’esito di una visita personale domiciliare, la paziente era stata descritta come “vigile, lucida, orientata nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone…”, il medico aveva trovato la donna curata nell’aspetto, nell’abbigliamento e attenta alla gestione domestica, oltre che disponibile al dialogo. La relazione riferiva ancora che “le abilità della paziente e il suo funzionamento globale sono superiori a quanto attendibile in relazione alla sua età”. La buona condizione della donna era confermata anche da una relazione dell’assistente sociale redatta in occasione di una visita domiciliare pochi giorni dopo. Inoltre, dal dicembre 2012 all’aprile 2014 la testatrice aveva vissuto da sola e in piena autonomia, in grado di badare a se stessa ed ai propri interessi. Rileva la Cassazione che in tutte le attestazioni mediche si segnala l’insorgenza di uno stato emotivo di agitazione e di confusione unicamente in dipendenza del timore di essere depredata dai familiari, che volevano appropriarsi dei suoi beni prima della sua morte.

La Cassazione ha affermato che non è stata provata l’incapacità di intendere e di volere della testatrice al momento della redazione del testamento. Ha, inoltre, ritenuto che deponessero a favore della capacità della testatrice alcuni elementi della scheda testamentaria: il testamento è privo di cancellature o abrasioni, è redatto con una grafia ordinata e corretta, è privo di errori e la grafia risulta invariata dal 2006; ha valorizzato anche la pluriennale frequentazione tra la famiglia beneficiaria delle disposizioni testamentarie e la de cuius, comprovata dalla perfetta coerenza delle schede testamentarie del 2006 e del 2013. La Cassazione ha riformato integralmente la sentenza impugnata ed ha respinto la domanda azionata nel primo grado di giudizio.

6. Conclusione

Esaminando la problematica dal punto di vista notarile, si può osservare che l’incapacità di intendere o di volere implica un decadimento molto grave delle capacità psichiche del soggetto che non è più in grado di autodeterminarsi oppure di valutare criticamente le conseguenze delle proprie scelte oppure di determinare in maniera consapevole il contenuto del regolamento negoziale. Assumono particolare importanza la correttezza del regolamento negoziale e l’equilibrio tra le prestazioni indicate nel contratto e le obbligazioni reciproche delle parti. Infatti l’atto può essere annullato se ne deriva un grave pregiudizio per la parte e il contratto può essere annullato se risulta la mala fede dell’altro contraente.

Altro aspetto da tenere in considerazione è il rapporto tra le parti: con il reato di circonvenzione d’incapace una parte abusa dello stato di debolezza psichica dell’altra parte, che non coincide necessariamente con l’incapacità di intendere o di volere; la situazione di debolezza della parte lesa può derivare da varie cause che diminuiscano notevolmente la sua capacità di critica ed i suoi poteri di difesa, quali l’età, la debolezza di carattere, la carenza di cultura e di rapporti interpersonali. Le circostanze del caso concreto possono far trasparire una situazione relazionale anomala dove una parte abusa della condizione di difficoltà dell’altra parte per trarne un vantaggio economico.

L’incapacità naturale del testatore è l’aspetto più delicato nella professione notarile: l’incapacità del testatore deve essere notevole, il soggetto deve risultare privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza del significato dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi; non ogni anomalia o alterazione delle facoltà intellettuali implica incapacità di testare ma occorre, a tale effetto, che l’anomalia incida totalmente sulla coscienza dei propri atti; non è sufficiente a determinare incapacità un minimo decadimento delle facoltà mentali, desumentesi da mere anomalie comportamentali, non compromettente le funzioni volitive e la capacità critica.

Si consideri che la capacità di testare è la regola e l’incapacità del testatore al momento della redazione del testamento deve essere provata da chi voglia far valere l’incapacità. Il notaio non può privare il testatore della facoltà di disporre mortis causa del suo patrimonio se non a fronte di una incapacità evidente e conclamata, ad esempio nel caso che la persona non sia più orientata nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone oppure manifesti delle volontà confuse o bizzarre. La prassi giudiziaria dimostra che, in molti casi, le azioni volte a far annullare un testamento per incapacità del testatore non vengono accolte dalla giurisprudenza per il mancato assolvimento dell’onere della prova. Un elemento di pericolosità sono le relazioni mediche redatte al momento della dimissione del paziente dopo un ricovero ospedaliero; è opportuno chiedere se esistano delle relazioni mediche e, in caso positivo, richiedere una relazione aggiornata perché, come emerge dalla giurisprudenza, è possibile che un anziano appaia confuso e disorientato in seguito al ricovero ospedaliero ma che abbia un miglioramento nelle condizioni psico fisiche dopo il rientro nel suo ambiente domestico familiare.

Di regola, non determina incapacità di intendere o di volere lo stato d’ira o l’ostilità verso persone pretermesse dal testatore, salvo che non comportino vere e proprie turbe psichiche e sfocino nella incapacità di intendere o di volere.

In ultima analisi, si può affermare che al notaio non è richiesta una valutazione delle condizioni di salute del cliente ma l’accertamento che lo stesso, anche se anziano oppure malato, ha conservato una residua capacità di comprendere il contenuto e gli effetti dell’atto che sta per sottoscrivere, tenendo in attenta considerazione la serietà e la coerenza delle volontà manifestate dalla persona, la compatibilità con la sua situazione familiare e personale, la correttezza e l’equilibrio del regolamento contrattuale e i rapporti tra le diverse persone che intervengono nell’atto[36]

Poiché al notaio non compete un esame medico del cliente né è obbligato dalla legge a richiedere certificati medici sulle sue condizioni di salute[37], né può impedire al testatore di redigere in forma pubblica il suo “atto di ultima volontà” in attesa di una perizia medico-specialistica la cui produzione può richiedere lunghi tempi di attesa, non sussiste alcuna responsabilità civile né professionale del notaio che abbia ricevuto un testamento di un soggetto che, al momento della redazione del testamento, risulta essere al colloquio con il notaio lucido, orientato nel tempo, nello spazio e rispetto alle persone, e che esprime delle volontà serie e coerenti rispetto ai sentimenti ed ai fini che le ispirano.

Note

[1] Caracciolo, L’incapacità naturale tra questioni di sostanza e problemi di prova, in Nuova giur civ. comm., 2007, 11061.

[2] Cass. 10 novembre 1960, n. 3010, in Giur. it., 1961, I, 1, 1304.

[3] Pescara, La figura dell’incapacità naturale, in Trattato Rescigno, 4, Utet, 1997, 873 ss.

[4] Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale: la prova dei presupposti nel giudizio di annullamento, in Nuova giur. civ. comm., 2012, 10035 ss.

[5] Cass. 8 marzo 2005, n. 4967; Cass. 26 maggio 2000, n. 6999.

[6] Sulla disputa se, oltre alla mala fede dell’altro contraente, occorra, anche per i contratti, la sussistenza di un grave pregiudizio per il suo autore si veda Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale, cit.

[7] Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1982, 141.

[8] Cass. pen. 4 marzo 1970, n. 439; Cass. 20 settembre 1979, n. 4824.

[9] Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 1994, 338.

[10] Cfr. Cass. 19 maggio 2016, n. 10329, in Giur. it., 2017, 40 ss.

[11] Cass. n. 36424/2015.

[12] Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale, cit.; Spangaro, in Comm. cod. civ., diretto da Gabrielli, Utet, 2009, sub. art. 428, 446, nota 17.

[13] Cass. 20 aprile 2016, n. 7785; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2680, in Giust. civ., 2009, I, 1094; Cass. pen. 23 aprile 2008, n. 27412.

[14] Cfr. Amendola, Circonvenzione di incapaci e violazione di norme imperative, in Giur. it., 2017, 43 ss.; Riva, Sulla sorte del contratto concluso per effetto di circonvenzione d’incapace, in Giur. it., 2017, 50 ss.

[15] Cfr. Cass. 19 maggio 2016, n. 10329; Cass. 7 febbraio 2008, n. 2860; Cass. 23 maggio 2006, n. 12126; Cass. 27 gennaio 2004, 1427.

[16] Amendola, Circonvenzione di incapaci e violazione di norme imperative, cit., 47.

[17] Riva, Sulla sorte del contratto concluso per effetto di circonvenzione d’incapace, cit., 50.

[18] Commentata in Nuova giur. civ. comm., 2012, 10035, con nota di Bartolini, Il contratto dell’incapace naturale: la prova dei presupposti nel giudizio di annullamento, cit.

[19] Commentata in Nuova giur civ. comm., 2007, 11061, con nota di Caracciolo, L’incapacità naturale tra questioni di sostanza e problemi di prova, cit.

[20] Sul punto è stato affermato in giurisprudenza che l’attestazione del notaio circa lo stato di piena capacità mentale del presentatore della scheda di un testamento segreto, pur non impedendo ai soggetti interessati di provare il contrario con qualsiasi mezzo di prova, rappresenta tuttavia un fatto da cui è lecito dedurre almeno la mancanza di segni apparenti d’incapacità del testatore all’atto della presentazione della scheda al pubblico ufficiale (Cass. 4 maggio 1982, n. 2741) e che le attestazioni del notaio circa la sanità mentale del testatore costituiscono un valido elemento di prova circa il vero atteggiamento assunto e mantenuto dal testatore durante la redazione dell’atto e accertato dal notaio stesso (Cass. 2 agosto 1986, n. 2152).

[21] La pubblica fede non si estende alla dichiarazione del notaio circa il possesso, da parte di uno dei contraenti, della capacità di intendere e di volere (Cass. 27 aprile 2006, n. 9646; Cass. 9 marzo 2012, n. 3787; Cass. ord. 28 ottobre 2019, n. 27489).

[22] Commentata in I Contratti, 11, 2010, 1033, con nota di Amendolagine.

[23] Cass. 15 aprile 2010, n. 9081; Cass. 29 ottobre 2008, n. 26002; Cass. 6 maggio 2005, n. 9508; Cass. 18 aprile 2005, n. 8079; Cass. 30 gennaio 2003, n. 1444; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480.

[24] Cass. 29 ottobre 2008, n. 26002, cit.

[25] Cass. 11 aprile 2007, n. 8728.

[26] Cass. 22 marzo 1985, n. 2074.

[27] Cass. 10 gennaio 1967, n. 97; Cass. 21 gennaio 1957, n. 166.

[28] Cass. 19 marzo 1980, n. 1851.

[29] Cass. 7 luglio 1978, n. 3411.

[30] Cass. 11 aprile 2007, n. 8728, cit.; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480, cit.; Cass. 24 ottobre 1998, n. 10571; Cass. 23 gennaio 1991, n. 652.

[31] Tagliaferri, La capacità e l’incapacità di disporre per testamento, in Successioni e donazioni, diretto da Iaccarino, tomo primo, Utet, 2023, 568.

[32] Cass. 10 ottobre 2018, n. 25053; Cass. 6 dicembre 2001, n. 15480, cit.

[33] Cass. 29 luglio 1981, n. 4856.

[34] Cass. 18 novembre 1974, n. 3680; Cass. 24 ottobre 1969, n. 3496.

[35] Cass. 21 maggio 2018, n. 12460.

[36] Secondo la giurisprudenza, il giudice chiamato a pronunziarsi circa l’invalidità del testamento per incapacità di intendere e di volere del de cuius può e deve vagliare, in primo luogo, il contenuto dell’atto, al fine di acquisire utili elementi di giudizio attraverso l’indagine circa la serietà, la normalità e la coerenza delle disposizioni, nonché dei sentimenti e dei fini dai quali esso risulta ispirato (Cass. 10 novembre 1960, n. 3010; Cass. 22 maggio 1995, n. 5620).

[37] Cass. 21 maggio 2018, n. 12460, cit. ha escluso per il giudice l’esistenza di un obbligo di legge di accertare, mediante consulenza psichiatrica, le condizioni mentali del testatore, al fine di giudicare sulla validità o meno del suo testamento, quando dalle altre prove in atti risultano elementi sufficienti a convincere il giudice della sanità o infermità di mente del testatore stesso, sì da rendere la consulenza superflua o inutile.

La capacità di intendere e di volere nell’attività notarile. Osservazioni casistiche ultima modifica: 2024-01-24T08:30:00+01:00 da Redazione Federnotizie

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Decadenza da agevolazione prima casa per trasferimento nel quinquennio: il dubbio del privilegio fiscale

News Federnotizie - Ven, 12/22/2023 - 08:30
di Domenico Garofalo

Si presenta con una certa frequenza nella prassi il caso del trasferimento di immobili acquistati con l’agevolazione prima casa da meno di cinque anni, con conseguente decadenza dell’alienante dall’agevolazione richiesta in sede di acquisto degli immobili. In un simile caso,[1] occorre valutare le conseguenze – per l’acquirente degli immobili e i suoi aventi causa – che possono derivare dal privilegio speciale immobiliare che assiste il credito erariale per la maggior imposta di registro che, in conseguenza della decadenza dall’agevolazione, diviene dovuta sull’atto di acquisto agevolato degli immobili.

In queste note ci si propone di illustrare il quadro normativo e i principali orientamenti interpretativi, accennando a qualche soluzione operativa diffusa nella prassi.

1. Il privilegio fiscale immobiliare

Conviene muovere dalle disposizioni in tema di privilegio fiscale immobiliare.

Come noto, il privilegio è una causa legittima di prelazione (art. 2741, comma secondo c.c.), accordata dalla legge in considerazione della causa del credito (art. 2745 c.c.), che consente al creditore privilegiato – in deroga alla par condicio creditorum – di soddisfarsi, con preferenza rispetto ad altri creditori, sull’intero patrimonio mobiliare del debitore (c.d. privilegio generale) ovvero su determinati beni mobili o immobili (c.d. privilegio speciale).

Ai sensi dell’art. 56, comma 4 T.U.I.R. per il pagamento dell’imposta di registro “lo Stato ha privilegio speciale secondo le norme del codice civile”. Secondo l’art. 2772 c.c., in particolare, “i crediti dello Stato per ogni tributo indiretto” (e, dunque, anche per l’imposta di registro) hanno privilegio “sugli immobili ai quali il tributo si riferisce”.

Il privilegio in esame “non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti che i terzi hanno anteriormente acquistato sugli immobili”, mentre “per le imposte suppletive il privilegio non si può neppure esercitare in pregiudizio dei diritti acquistati successivamente dai terzi” (art. 2772, commi 4 e 5 c.c.).

2. Applicabilità del privilegio all’imposta complementare

Le disposizioni da ultimo citate richiamano la distinzione fra imposta di registro principale, suppletiva e complementare. Per ragioni di comodità espositiva, giova rammentare che ai sensi dell’art. 42 T.U.I.R.:

  1. è principale l’imposta applicata al momento della registrazione e quella richiesta dall’ufficio se diretta a correggere errori od omissioni effettuati in sede di autoliquidazione nei casi di presentazione della richiesta di registrazione per via telematica;
  2. è suppletiva l’imposta applicata successivamente se diretta a correggere errori od omissioni dell’ufficio;
  3. è complementare l’imposta applicata in ogni altro caso.

È complementare, secondo le Sezioni Unite, anche l’imposta dovuta in caso di decadenza da agevolazioni fiscali.[2]

Il riferimento, contenuto nelle disposizioni codicistiche riguardanti il privilegio in esame, alle sole imposte suppletive e non anche a quelle complementari ha generato il dubbio se il privilegio sia applicabile anche a queste ultime. Il dubbio origina probabilmente, più che dalla formulazione delle disposizioni codicistiche (invero piuttosto chiara), dalla prevalente interpretazione della corrispondente disposizione contenuta nel codice previgente.[3]

Secondo l’Amministrazione Finanziaria e la giurisprudenza, è assistito dal privilegio in esame anche il credito per l’imposta complementare (compresa, dunque, quella dovuta in caso di decadenza da agevolazioni).[4]

In effetti, i citati commi 4 e 5 dell’art. 2772 c.c. dettano due diverse disposizioni in materia di opponibilità del privilegio: una – speciale – applicabile alle sole imposte suppletive e l’altra – di carattere più generale – che (in quanto derogata dalla prima, non si applicherà certamente alle imposte supplettive, ma) parrebbe doversi applicare ad ogni altra imposta e, dunque, sia all’imposta principale che a quella complementare.

3. Opponibilità del privilegio per l’imposta principale e complementare

Si è visto che, quando non si tratti di imposte suppletive, il privilegio non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti che i terzi hanno anteriormente acquistato sugli immobili (art. 2772, comma 4 c.c.).

Da ciò si desume a contrario che esso può invece farsi valere in pregiudizio di coloro che abbiano acquistato diritti sugli immobili dopo la nascita del privilegio: i terzi acquirenti, anche se ignari dell’esistenza del privilegio, possono quindi subire l’azione esecutiva dello Stato sugli immobili acquistati.

Lo Stato vanta, pertanto, un vero e proprio diritto reale di garanzia, cui è connesso il diritto di seguito,[5] con facoltà di far espropriare gli immobili in quanto “vincolati a garanzia del credito” (art. 2910, comma secondo c.c.).

3.1 Momento genetico del privilegio e dell’obbligazione tributaria in generale

Ai fini dell’opponibilità del privilegio ai terzi acquirenti degli immobili, è dunque determinante stabilire il preciso momento in cui nasce il privilegio: solo chi acquisti diritti dopo tale momento, infatti, è esposto al rischio dell’azione esecutiva da parte dello Stato.

Al di fuori delle ipotesi in cui ai sensi dell’art. 2745 c.c. la costituzione del privilegio sia subordinata alla convenzione delle parti o a particolari forme di pubblicità (c.d. privilegi convenzionali o iscrizionali), il privilegio – trovando la propria fonte direttamente nella legge – si costituisce automaticamente col sorgere del credito,[6] che, quindi, nasce privilegiato fin dall’origine. Il privilegio fiscale immobiliare, pertanto, non rientrando tra i privilegi convenzionali o iscrizionali, nasce contestualmente al sorgere dell’obbligazione tributaria.[7]

La questione della nascita dell’obbligazione tributaria è stata a lungo discussa in dottrina nell’ambito della teoria generale del diritto tributario: alle teorie dichiarative, che collegano la genesi dell’obbligazione tributaria al verificarsi del presupposto d’imposta, si contrappongono le teorie costitutive, che invece la ricollegano all’atto di accertamento dell’amministrazione o alla dichiarazione del contribuente.[8]

Nella specifica materia dell’imposta di registro, l’opinione prevalente individua la fonte dell’obbligazione tributaria nella stessa formazione dell’atto soggetto a registrazione in termine fisso.[9] Se così è, si deve concludere che anche il privilegio si costituisce nel momento stesso in cui è stipulato l’atto di acquisto agevolato ed è quindi opponibile a chiunque acquisti diritti sugli immobili dopo tale momento.

3.2 Momento genetico del privilegio e dell’obbligazione tributaria nel particolare caso di decadenza da agevolazioni fiscali

Occorre a questo punto verificare se la conclusione cui si è giunti nel paragrafo precedente possa essere confermata anche nel caso in cui in sede di registrazione dell’atto di acquisto sia stata richiesta un’agevolazione fiscale e il contribuente successivamente decada dall’agevolazione. In tale caso, infatti, il prelievo fiscale si articola in una pluralità di fasi: dapprima, la redazione dell’atto e la sua registrazione con il versamento dell’imposta in misura agevolata e, successivamente, il verificarsi dell’ipotesi di decadenza e la notifica da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’avviso di liquidazione per la maggior imposta dovuta.[10]

Occorre, quindi, stabilire se a tale pluralità di fasi del prelievo fiscale corrisponda una pluralità di distinte obbligazioni tributarie (e, quindi, altrettanti autonomi privilegi) ovvero se l’obbligazione tributaria nasca e rimanga unitaria (e, quindi, unico sia il privilegio fiscale che assiste il relativo credito).

(i) Tesi dell’unitarietà dell’obbligazione tributaria e del privilegio

Secondo un orientamento della Suprema Corte risalente ma mai contrastato da pronunce di segno opposto (alla quale hanno aderito alcuni uffici regionali dell’Amministrazione Finanziaria[11]), “il credito dello Stato per imposta di registro – anche quando si tratti di imposta dovuta in misura ordinaria a seguito della decadenza da agevolazioni concesse all’atto della registrazione – nasce, in una al connesso privilegio immobiliare di cui all’art. 2772 c.c., al momento e per effetto della confezione dell’atto soggetto a tributo”.[12] La Corte di Cassazione ha precisato che “il debito di imposta preesiste nella sua interezza alla decadenza dal beneficio, per la ragione che quando un atto, invocante le agevolazioni, viene presentato alla registrazione si configura – sì – una situazione condizionante, la quale, però, sospende (non gli effetti del negozio e, con essi, la tassazione, con conseguente differimento del sorgere della obbligazione tributaria, bensì) la concessione stessa del beneficio, talché, caduta la condizione, la situazione deve riportarsi all’origine”.

La concessione dell’agevolazione sarebbe quindi soggetta alla condizione (che parrebbe doversi qualificare come risolutiva) del verificarsi della decadenza, con la conseguenza che, avverandosi la condizione, sarebbe caducata retroattivamente l’agevolazione e l’imposta sarebbe dovuta in misura ordinaria sin dal tempo della formazione dell’atto.[13] In quest’ottica può comprendersi un’altra massima della Suprema Corte, secondo cui “il fatto che determina la decadenza dai benefici fa rivivere ‘ex tunc’ la pretesa tributaria … con il contenuto originario che avrebbe presentato se il beneficio non fosse stato concesso”.[14]

Aderendo a tale impostazione, il privilegio sarebbe sempre opponibile a chiunque acquisti diritti sugli immobili dopo la formazione dell’atto di acquisto agevolato.

(ii) Tesi della pluralità delle obbligazioni tributarie e dei privilegi

Secondo una diversa tesi, dall’atto di acquisto agevolato nascerebbe una prima obbligazione tributaria per l’imposta di registro in misura ridotta e solo dall’eventuale successiva decadenza discenderebbe una distinta obbligazione tributaria per la maggior imposta dovuta. Ciascuno dei due crediti sarebbe assistito da autonomo privilegio, che nascerebbe contestualmente al relativo credito. L’evento che dà luogo a decadenza costituirebbe quindi uno degli elementi costitutivi della fattispecie complessa da cui originano la seconda obbligazione tributaria ed il relativo privilegio.[15]

In tale prospettiva, ai terzi che acquistino diritti sugli immobili sarebbe sempre opponibile il privilegio che assiste il credito per l’imposta di registro in misura ridotta (in quanto sorto al tempo dell’acquisto agevolato degli immobili e quindi prima che i terzi abbiano acquistato diritti su di essi). Il distinto privilegio che assiste il credito per la maggior imposta dovuta in caso di decadenza, invece, non sarebbe opponibile ai terzi che abbiano acquistato diritti sugli immobili prima del verificarsi dell’evento che dà luogo a decadenza.

(iii) (Segue): Individuazione dell’evento che dà luogo a decadenza dall’agevolazione nel caso di trasferimento nel quinquennio

La ricostruzione da ultima illustrata – è bene precisarlo – non trova riscontro né in giurisprudenza né tanto meno in documenti di prassi dell’Amministrazione. Ove si intenda comunque aderire a tale orientamento, diverrebbe rilevante l’individuazione dello specifico evento che determina la decadenza dall’agevolazione prima casa nel caso inizialmente prospettato di trasferimento di immobili entro cinque anni dal loro acquisto agevolato.

Si ricorda al riguardo che l’art. 1, nota II-bis), comma 4 della Tariffa – Parte Prima allegata al T.U.I.R. prevede che “in caso … di trasferimento per atto a titolo oneroso o gratuito degli immobili acquistati con i benefici di cui al presente articolo prima del decorso del termine di cinque anni dalla data del loro acquisto, sono dovute le imposte di registro, ipotecarie e catastale nella misura ordinaria” e che la disposizione non si applica “nel caso in cui il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile acquistato con i benefici …, proceda all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale”.

Si può ipotizzare che la decadenza dall’agevolazione si verifichi (e, quindi, l’obbligazione tributaria per la maggior imposta dovuta ed il relativo privilegio sorgano):

  1. nel momento in cui il contribuente trasferisca gli immobili acquistati con l’agevolazione prima di cinque anni dalla data del loro acquisto (salvo venir meno in caso di riacquisto entro l’anno successivo di altro immobile da adibire ad abitazione principale);
  2. al decorso del termine annuale dall’alienazione compiuta nel quinquennio senza che il contribuente abbia acquistato altro immobile da adibire a propria abitazione principale oppure, in caso di acquisto di altro immobile entro il predetto termine annuale, al decorso del termine di tre anni da tale acquisto senza che il contribuente abbia adibito l’immobile ad abitazione principale;[16]
  3. nel momento della notifica dell’avviso di liquidazione o in quello della successiva iscrizione a ruolo.

La soluzione sub a) potrebbe sostenersi in base al tenore letterale della legge, che pare ricollegare la decadenza direttamente al trasferimento infraquinquennale (“in caso … di trasferimento … sono dovute le imposte … in misura ordinaria”), salvo poi prevedere che tale regola non trovi applicazione in caso di riacquisto entro l’anno. La decadenza sarebbe quindi soggetta alla condizione risolutiva del riacquisto entro l’anno.[17]

Le soluzioni sub c), che pure sono state sostenute[18] riecheggiando le teorie costitutive cui si è fatto cenno sopra, parrebbero al contrario poco aderenti alle disposizioni di legge, che non subordinano la debenza dell’imposta ad un atto dell’amministrazione.

La soluzione sub b) parrebbe quella maggiormente in linea con l’interpretazione prevalente, che ricollega la definitiva perdita dell’agevolazione da parte del contribuente allo spirare del termine annuale senza aver effettuato il nuovo acquisto.[19]

Si noti che, seguendo l’impostazione sub a), non pare potersi escludere l’opponibilità del privilegio all’acquirente degli immobili. Il privilegio, infatti, non può esercitarsi in pregiudizio dei diritti che i terzi hanno anteriormente acquistato sugli immobili. Nell’ipotesi sub a), invece, mancherebbe l’anteriorità dell’acquisto del terzo, ma vi sarebbe anzi perfetta coincidenza temporale fra tale acquisto e la nascita dell’obbligazione tributaria (e, quindi, del relativo privilegio), originando entrambi gli effetti dal medesimo fatto giuridico (l’atto di trasferimento degli immobili compiuto prima di cinque anni dall’acquisto agevolato).

Le soluzioni sub b) e sub c), invece, renderebbero il privilegio non opponibile al terzo acquirente degli immobili, dal momento che l’obbligazione tributaria ed il relativo privilegio nascerebbero successivamente all’acquisto del terzo.

3.3 Opponibilità del privilegio e certezza dei traffici giuridici

Non sfuggono certamente al lettore le implicazioni di quanto si è sinora detto per la sicurezza dei traffici giuridici.

L’applicabilità del privilegio anche all’imposta complementare e la tesi (sostenuta dalla Suprema Corte e dall’Amministrazione) secondo cui esso nascerebbe sin dalla formazione dell’atto comportano che il privilegio, finché esiste, sia in concreto sempre opponibile a chiunque acquisti diritti sugli immobili. I critici di tale tesi non hanno mancato di evidenziare l’incertezza giuridica che deriverebbe da una simile interpretazione.

Il terzo che voglia mettersi al riparo dal rischio dell’azione esecutiva sugli immobili che intende acquistare dovrà pertanto:

  1. premurarsi di verificare se il trasferimento possa dar luogo a decadenza dall’agevolazione (e, quindi, se l’alienante abbia acquistato gli immobili con l’agevolazione prima casa da meno di cinque anni); e
  2. in caso positivo, assicurarsi che, dopo il trasferimento, l’alienante tenga il comportamento richiesto per evitare la decadenza (e, quindi, proceda entro un anno all’acquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale) o altrimenti provveda al versamento della maggior imposta dovuta.

È evidente che, anche a voler ammettere che la verifica sub a) rientri nell’ordinaria diligenza richiesta all’acquirente (o al professionista da questi incaricato), le circostanze sub b) sono del tutto estranee alla sfera di controllo dell’acquirente.

Ma v’è di più. Allargando l’analisi oltre il caso prospettato della decadenza dall’agevolazione per trasferimento nel quinquennio, il terzo dovrebbe altresì verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti per l’agevolazione prima casa dichiarati nell’atto di acquisto e l’inesistenza di altre possibili cause di decadenza. L’indagine dovrebbe quindi estendersi ad esempio:

  1. alla categoria catastale degli immobili al tempo dell’acquisto agevolato (art. 1 della Tariffa Parte Prima);
  2. al luogo di residenza della parte che ha richiesto l’agevolazione prima casa al tempo dell’acquisto agevolato o nei diciotto mesi successivi (lettera a) del comma 1 della nota II-bis) della Tariffa Parte Prima);
  3. alla verifica dell’impossidenza, al tempo dell’acquisto agevolato, di altra abitazione nel comune ove si trovano gli immobili o di altra abitazione acquistata con l’agevolazione prima casa su tutto il territorio nazionale (lettere b) e c) del comma 1 della nota II-bis));
  4. all’alienazione, entro un anno dall’acquisto agevolato, dell’abitazione acquistata con l’agevolazione di cui il contribuente fosse eventualmente già titolare (comma 4-bis della nota II-bis)).

A tal fine sarebbe necessario estrarre visure catastali storiche degli immobili (quanto al punto 1), ottenere un certificato storico di residenza dal comune ove si trovano gli immobili (quanto al punto 2) nonché, infine, effettuare ispezioni ipotecarie sul nominativo del contribuente in tutte le conservatorie d’Italia ed esaminare i relativi titoli d’acquisto (quanto ai punti 3 e 4).

Simili verifiche parrebbe eccedere l’ordinaria diligenza anche dell’acquirente più scrupoloso.

4. L’estinzione del privilegio

I problemi sopra evidenziati sono in qualche misura temperati dalla limitata durata del privilegio.

Ai sensi dell’art. 56, comma 4 T.U.I.R.”; il privilegio in esame “si estingue con il decorso di cinque anni dalla data di registrazione”. La stessa Amministrazione ha riconosciuto che si tratta di termine di decadenza e non di prescrizione (che, pertanto, non è soggetto ad interruzione o prescrizione ai sensi dell’art. 2964 c.c.)[20] e che, entro il termine di decadenza, occorre non solo che siano state avviate le procedure di recupero, ma anche che sia stato eseguito il pignoramento.[21] Se così è, una volta trascorsi cinque anni dalla registrazione dell’atto di acquisto, ove non risulti trascritto alcun pignoramento sugli immobili, si può ragionevolmente escludere che sussista ancora il privilegio.

È pure irrilevante, sempre secondo l’Amministrazione, che, al decorso del termine di cinque anni dalla registrazione, il credito non sia ancora divenuto esigibile.[22] Non dovrebbe destare preoccupazione, quindi, l’ipotesi di trasferimento di immobile acquistato con l’agevolazione dopo più di quattro anni dalla registrazione dell’atto di acquisto, in quanto, quando – decorso il termine annuale per il riacquisto di altro immobile da adibire ad abitazione principale – dovesse essere notificato l’avviso di liquidazione, il privilegio (in qualunque momento si ritenga sorto) sarà comunque ormai estinto.

5. Conclusioni

Il panorama interpretativo che si è cercato di delineare dovrebbe indurre l’operatore ad una certa prudenza.

Si deve, infatti, prendere atto dell’orientamento della giurisprudenza e dell’Amministrazione, secondo cui il privilegio fiscale – anche in relazione all’imposta dovuta in caso di decadenza dall’agevolazione prima casa – nasce sin dal momento della formazione dell’atto di acquisto agevolato, con la conseguenza che esso è sempre opponibile a chi successivamente acquisti diritti sugli immobili. La limitata durata del privilegio senz’altro riduce il numero dei casi in cui il problema concretamente si pone e la scarsa casistica giurisprudenziale lascerebbe pensare che l’esercizio del privilegio in danno dei terzi non avvenga con molta frequenza. Tutto ciò, peraltro, non elimina la gravità delle possibili conseguenze per il terzo acquirente degli immobili.

Una soluzione elaborata dalla prassi per tutelare l’acquirente da tale rischio consiste nell’affidamento in deposito fiduciario al notaio di somma corrispondente a quanto sarebbe eventualmente dovuto in conseguenza della decadenza dall’agevolazione.[23] È anzi interessante segnalare che uno dei documenti di prassi nei quali un ufficio periferico dell’Agenzia delle Entrate ha preso posizione in merito all’opponibilità del privilegio[24] nasce dall’interpello di un contribuente interessato a conoscere l’orientamento dell’ufficio in quanto, essendo intenzionato a vendere un immobile acquistato con l’agevolazione da meno di cinque anni, aveva ricevuto dall’acquirente richiesta di affidare una parte del prezzo in deposito al notaio.

In prospettiva de jure condendo, si può dubitare dell’opportunità – in termini di efficienza del sistema giuridico – di un istituto che, a fronte di una tutela assai limitata del credito dello Stato (anche in considerazione del breve termine di decadenza del privilegio), risulta potenzialmente pregiudizievole per la sicurezza dei traffici giuridici. Alle esigenze di tutela di quest’ultima, sempre più avvertite nell’economia moderna (e ancor più nella circolazione immobiliare), il legislatore ha mostrato in passato di non restare del tutto indifferente: così, ad esempio, in occasione della riforma della disciplina dell’azione di restituzione nel 2005 (che, come noto, nelle intenzioni – invero non del tutto realizzate – si proponeva di agevolare la circolazione degli immobili di provenienza donativa).

Anche nella materia che ci occupa, d’altronde, da lungo tempo si sollecita, sia da parte dell’Agenzia delle Entrate[25] sia da parte dell’ufficio studi del CNN[26], un intervento del legislatore volto a trovare una composizione più equilibrata dei contrapposti interessi in gioco.

Note

[1] Si è presa in considerazione una fattispecie che nella prassi solleva spesso l’attenzione degli operatori. È evidente, tuttavia, che il problema si pone in termini simili anche in altri casi, che possono consistere in altre ipotesi di decadenza dall’agevolazione prima casa, nella decadenza da altre agevolazioni o ancora in fattispecie nelle quali vengono in rilievo altre imposte o altri privilegi fiscali.

[2] Cass. Sez. Un. 21 novembre 2000 n. 1196.

[3] L’art. 1962, comma 2 del codice civile del 1865 disponeva che il privilegio dello Stato per i tributi indiretti non poteva “farsi valere contro i terzi possessori dell’immobile per supplemento di tassa”. Nel vigore di tale disposizione la nozione di supplemento di tassa comprendeva, secondo la dottrina prevalente, tutte le imposte richieste in tempo successivo alla registrazione. Si veda Studio CNN n. 80/2001/T, P. Puri, Decadenza prima casa di abitazione e privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti, nota 1.

[4] Risoluzione Min. Finanze n. 251475 del 31 marzo 1977; App. Palermo 6 settembre 1991.

[5] A. Patti, I privilegi, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da Antonio Cicu, Francesco Messineo e Luigi Mengoni e continuato da Piero Schlesinger, 2003, p. 27. Nella Risoluzione Min. Finanze n. 101 del 13 luglio 1984 si è ritenuto che l’acquirente dell’immobile sia “esposto per legge … ad un’azione persecutoria ‘reale’ da parte dell’Amministrazione Finanziaria”. Secondo Cass. 26 aprile 2005 n. 8678, “il privilegio previsto dall’art. 2772 c.c. consente al creditore, al pari dell’ipoteca, di perseguire l’immobile su cui grava anche se sia passato in proprietà di persona diversa dal debitore dell’imposta”.

[6] C.M. Bianca, Diritto civile, vol. 7, Le garanzie reali. La prescrizione, 2012, p. 19.

[7] S. Ghinassi, Operatività del privilegio speciale immobiliare per tributi indiretti nell’ipotesi di decadenza da agevolazioni fiscali, in Riv. not., 2005, pp. 952 s.

[8] Per una sintesi dell’articolato dibattito si vedano P. Russo, L’obbligazione tributaria, in A. Amatucci (diretto da), Trattato di diritto tributario, II, 1994, 3 ss. e A. Fantozzi, Il diritto tributario, 2003, 244 ss.

[9] Secondo altra parte della dottrina, invece, dalla redazione dell’atto soggetto a registrazione in termine fisso deriverebbe unicamente l’obbligo di richiederne la registrazione e solo da questa, in un secondo momento, sorgerebbe l’obbligazione tributaria. Si vedano gli autori citati in Studio CNN n. 31/2005/T – M. Basilavecchia, Problemi interpretativi ed applicativi concernenti il privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti alla nota 3..

[10] A. Busani, L’imposta di registro, 2022, p. 503 e Studio CNN n. 31/2005/T – M. Basilavecchia, paragrafo B2), i quali sembrerebbero più precisamente ipotizzare un’autonomia fra imposta principale, suppletiva e complementare, nel senso che si costituirebbero distinte obbligazioni per ciascuna di tali imposte.

[11] Direzione Regionale Toscana dell’Agenzia delle Entrate, Nota n. 911-9060 del 14 febbraio 2013, che, richiamando, fra l’altro, la giurisprudenza della Corte di Cassazione citata nel testo, conclude che “il credito dello Stato per la maggior imposta di registro dovuta, così come il privilegio speciale immobiliare che lo assiste, sorgono al momento della confezione dell’atto, e non al verificarsi dei presupposti di decadenza dai benefici previsti dalla legge”. Nello stesso senso si sarebbe espressa (ma non si è potuto reperirne il testo) la Direzione Regionale Lazio dell’Agenzia delle Entrate, Nota n. 55538/02 del 14 maggio 2002, citata nello Studio CNN n. 80/2001/T nel testo pubblicato in Riv. not., 2002, p. 1065, nota 1.

[12] Cass. civ. sez. I, 11 maggio 1978, n. 2294, in Riv. Not., 1979, 179 ss; nello stesso senso si veda Cass. civ. sez. I, 3 aprile 1979, n. 1878, in Riv. not., 1980, pp. 868 ss., riguardante lite fra le medesime parti.

[13] In questi termini sembra ricostruire la posizione della Suprema Corte S. Ghinassi, Operatività del privilegio speciale immobiliare per tributi indiretti nell’ipotesi di decadenza da agevolazioni fiscali, in Riv. not., 2005, pp. 954.

[14] Cass. civ. Sez. I 28 luglio 1977 n. 3369, in Vita not., 1978, p. 502, ripresa da Comm. Trib. Centr. 31 luglio 1989 n. 3910, in Vita not., 1988, pp. 1276-1277.

[15] Studio CNN n. 80/2001/T, P. Puri, Decadenza prima casa di abitazione e privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti; S. Ghinassi, Operatività del privilegio speciale immobiliare per tributi indiretti nell’ipotesi di decadenza da agevolazioni fiscali, in Riv. not., 2005, pp. 954.

[16] Secondo la Circolare n. 18/E del 29 maggio 2013, paragrafo 3.11.3, “la normativa non fissa … un limite temporale entro il quale il contribuente è tenuto a fissare nel nuovo immobile la propria abitazione principale. In ogni caso, l’acquirente non deve dilazionare eccessivamente il suo proposito di trasloco … comunque non oltre i tre anni previsti per l’accertamento ed il recupero delle eventuali imposte”.

[17] In tal senso si veda A. Busani, L’imposta di registro, 2022, p. 508. Secondo la Circolare n. 18/E del 29 maggio 2013, paragrafo 3.11, l’acquirente decade dall’agevolazione se “trasferisce … l’abitazione prima che sia decorso il termine di 5 anni dalla data di acquisto, a meno che entro un anno non proceda al riacquisto di altro immobile da adibire a propria abitazione principale” (enfasi aggiunta).

[18] Studio CNN n. 31/2005/T – M. Basilavecchia, paragrafo B2).

[19] Cass. 12 aprile 2017 n. 9495. Nel senso che il privilegio sorga allo spirare del termine annuale per il riacquisto Studio CNN n. 75/99/T, P. Puri, Considerazioni critiche sul privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti.

[20] Risoluzione Min. Finanze n. 1270 del 30 giugno 1981 e Risoluzione Min. Finanze n. 101 del 13 luglio 1984.

[21] Risoluzione Min. Finanze n. 25055610 del 10 novembre 1986 (“affinché possa validamente esercitarsi il [privilegio], non basta iniziare l’azione esecutiva entro il termine di decadenza, occorrendo, altresì, che venga notificato atto di pignoramento immobiliare”); Comm. Trib. Centr. 9 aprile 1997 n. 1461 (“la decadenza … può essere evitata soltanto con un atto di esercizio del diritto che, nella particolare specie … deve consistere nell’esecuzione del pignoramento”) nonché il parere dell’Avvocatura Generale dello Stato del 19 febbraio 1991 n. 13273, in Boll. trib., 1991, p. 851 s. (“il Ministero propende per la soluzione secondo cui, per l’esercizio del privilegio speciale, è indispensabile, nei cinque anni, … il pignoramento immobiliare. Questa Avvocatura Generale condivide l’opinione del ministero”). Si veda anche lo Studio CNN n. 40/2002/T, A. Lomonaco, Privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti e sua estinzione e gli autori ivi citati alla nota 16 per la diversa posizione di una parte della dottrina.

[22] Risoluzione Min. Finanze n. 1270 del 30 giugno 1981.

[23] A. Reschigna, Decadenza da agevolazioni tributarie e privilegio speciale immobiliare, in Federnotizie, 1999; S. GHINASSI, Operatività del privilegio speciale immobiliare per tributi indiretti nell’ipotesi di decadenza da agevolazioni fiscali, in Riv. not., 2005, pp. 957 ss..

[24] Direzione Regionale Toscana dell’Agenzia delle Entrate, Nota n. 911-9060 del 14 febbraio 2013.

[25] Risoluzione Min. Finanze n. 4343 del 14 luglio 1978 (“per quanto riguarda … il problema delle imposte non esigibili a causa di ricorso di parte, che, non sospendendo il termine decadenziale, vanifica, in fatto, la garanzia del privilegio, esso non può essere risolto che con proposte de iure condendo, per cui lo scrivente si riserva di promuovere le opportune iniziative in quella sede”).

[26] Studio CNN n. 75/99/T, P. PURI, Considerazioni critiche sul privilegio speciale immobiliare per i tributi indiretti (“potrebbe ipotizzarsi un intervento normativo finalizzato ad attualizzare l’istituto del privilegio speciale pur facendo salve le esigenze di garanzia dell’Erario che avrebbe il pregio di venire incontro alle stesse esigenze da tempo manifestate dall’Amministrazione finanziaria”).

 

Decadenza da agevolazione prima casa per trasferimento nel quinquennio: il dubbio del privilegio fiscale ultima modifica: 2023-12-22T08:30:59+01:00 da Redazione Federnotizie

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Quella modale è un particolare tipo di donazione che impone al beneficiario il rispetto di un determinato onere avente natura non economica.

Assemblee in telecomunicazione: storia di una rivoluzione*

News Federnotizie - Ven, 12/15/2023 - 08:30
di Filippo Laurini

* Testo aggiornato della relazione presentata al Convegno organizzato dal Consiglio Notarile di Potenza il 16 giugno 2023

 

1. All’attuale sviluppo e diffusione della partecipazione virtuale alle assemblee delle società di capitali si è giunti, com’è noto, partendo dal dibattito, sorto verso la fine degli anni ’90 a seguito dell’evoluzione dei sistemi di teleconferenza, che aveva visto la giurisprudenza onoraria contraria[1] al loro utilizzo in tale ambito[2], ma con il passaggio delle omologazioni al notariato, invece aperture positive soprattutto della dottrina e della prassi notarile. Aperture culminate con la Massima del Consiglio Notarile di Milano I/2000, che ne ammetteva la legittimità, condizionandola però al pieno rispetto del metodo collegiale e dei principi di buona fede e di parità di trattamento dei soci[3]. Posizione poi fatta propria dalla riforma del diritto societario del 2003, che – con la novella dell’art. 2370 c.c. – ha legittimato l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione, purché previsto espressamente dallo statuto sociale [4].

In considerazione del grado di avanzamento e diffusione della tecnologia di telecomunicazione, che ancora non consentiva a chiunque un accesso agevole in ogni tempo e da ogni luogo a meno di dotarsi di mezzi costosi e sofisticati ed avere la capacità di utilizzarli, l’intervento telematico all’epoca era tuttavia pensato, nella massima notarile prima e nella riforma poi, come mera possibilità per soci, amministratori e sindaci di collegarsi ad un’assemblea convocata (o comunque tenuta, se totalitaria) in un determinato luogo fisico ed in effetti questa era la prassi operativa fino allo stato di emergenza provocato dall’arrivo della pandemia Covid.

L’obbligo di distanziamento sociale imposto dalla pandemia, a fronte dell’esigenza indifferibile di tenere comunque le assemblee delle società di capitali, pose l’interprete dinanzi all’urgente necessità di valutare se fosse possibile una riconsiderazione del tema della partecipazione virtuale alle adunanze, anche alla luce di alcune posizioni dottrinali maturate nel frattempo, in particolar modo circa la possibilità per presidente e notaio o segretario di esplicare legittimamente, ma anche efficacemente, le proprie funzioni fisicamente distanziati tra loro e di non essere singolarmente o entrambi nel luogo di convocazione dell’assemblea.

2. I primi nodi da sciogliere per assicurare la regolare tenuta delle assemblee apparvero immediatamente essere (i) la legittimità dell’intervento in assemblea con mezzi di telecomunicazione in assenza di una specifica previsione statutaria o addirittura in presenza di un espresso divieto e (ii) della possibilità che presidente e segretario/notaio si trovassero in luoghi diversi, (iii) l’individuazione di chi tra loro dovesse essere presente nel luogo di convocazione (iv) se fosse possibile derogare alla clausola che richiede espressamente la compresenza di presidente e segretario o notaio nel medesimo luogo.

Il primo (e tempestivo) intervento in materia fu quello della Commissione Società del Consiglio Notarile di Milano che, con la Massima 187, cercò di risolvere almeno alcune di tali questioni affermando:

  1. come già sostenuto più volte in dottrina, è possibile che presidente e segretario/notaio si trovino in luoghi diversi[5];
  2. la compresenza di presidente e segretario/notaio, anche se imposta dallo statuto, è richiesta solo ove il verbale sia redatto contestualmente e debba essere firmato da entrambi[6];
  3. dev’essere presente nel luogo di convocazione solo il segretario/il notaio, che deve documentare anche quanto vi avviene, non necessariamente anche il presidente[7].

Le affermazioni contenute nella Massima si fondavano sostanzialmente:

  1. sull’idoneità degli attuali mezzi tecnologici a garantire un’adeguata interazione tra gli intervenuti, compresi ovviamente presidente e verbalizzante, e dunque ad assicurare la collegialità perfetta anche ove questi ultimi siano distanti tra loro[8];
  2. sull’assunto ormai pacifico che il verbale possa essere firmato dal solo notaio, sia se contestuale sia se differito (fermo restando che in caso di verbale non notarile la verbalizzazione differita richiederebbe la firma di entrambi, ma non la presenza nello stesso luogo durante l’adunanza).

Pochi giorni dopo la pubblicazione della Massima veniva emanato il D.L. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. decreto Cura Italia), che all’art. 106, comma 2[9], tra le altre cose, confermava l’impostazione della Massima (anche compiendo degli ulteriori passi in avanti) e stabiliva che durante il periodo emergenziale per le società di capitali e cooperative:

  1. anche in deroga (o anche in difetto va inteso) a difformi disposizioni statutarie, l’avviso di convocazione può prevedere l’intervento mediante mezzi di telecomunicazione (risolvendo l’unico problema che la massima notarile non poteva risolvere stante la lettera dell’art. 2370 c.c.);
  2. l’avviso di convocazione può prevedere che l’assemblea si svolga esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione purchè questi garantiscano:
    1. la partecipazione di chi è legittimato all’intervento;
    2. l’identificazione dei partecipanti;
    3. l’esercizio del diritto di voto[10];
  1. non vi è necessità che il presidente, il segretario o il notaio si trovino nello stesso luogo, anche ove previsto dallo statuto.

Infine con una nuova Massima, la n. 200, la Commissione Milanese tornava ancora sulla materia, affermando, in estrema sintesi, la legittimità di una clausola statutaria che preveda la possibilità di un’adunanza interamente virtuale, cioè con tutti gli aventi diritto collegati da remoto e senza un luogo fisico di riunione[11], in quanto ciò non rappresenta una deroga eccezionale al sistema, ma è semplicemente il portato dello sviluppo tecnologico, che consente un’interazione tra gli intervenuti da remoto ormai pari, almeno nella maggior parte delle circostanze, a quella fisica  e tale da rispettare il principio di collegialità.

Ne consegue la legittimità di una lettura estensiva dell’articolo 2370 c.c., che permetta non solo ai singoli aventi diritto di intervenire a distanza, ma anche che l’intera riunione si tenga esclusivamente a distanza, come peraltro già di fatto accade nelle assemblee totalitarie in cui tutti si avvalgano di tale facoltà, come si era rilevato nella Massima n. 187.

La deroga introdotta dal legislatore emergenziale, che già di per sé presuppone l’ammissione che lo svolgimento in modo esclusivamente virtuale dell’adunanza non pregiudica il pieno rispetto del metodo collegiale, ha quindi ad oggetto solo la possibilità che in assenza di una espressa previsione statutaria l’avviso di convocazione disponga che la riunione debba tenersi esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione[12].

La Massima argomenta ulteriormente rappresentando tra l’altro che questa interpretazione non è ostacolata:

  • né dal disposto dell’articolo 2363 c.c. (che impone di convocare l’assemblea nel comune del luogo ove ha sede la società), in quanto lo stesso consente la deroga statutaria;
  • né da quello dell’art. 2366 c.c., che impone di indicare un luogo di svolgimento dell’adunanza nell’avviso di convocazione al solo fine di consentire al socio di recarvisi, problema che non si pone in un’assemblea totalmente virtuale.

Tra l’altro, osserva ancora la Massima, è certamente più agevole accedere ad una riunione che si tiene su di una piattaforma telematica che recarsi in un luogo fisico ubicato anche molto lontano, magari all’estero, come molti statuti prevedono, in genere a vantaggio del gruppo di comando[13].

In definitiva tali norme sono chiaramente frutto di un’epoca in cui non erano immaginabili le attuali possibilità tecnologiche: pertanto è oggi possibile interpretarle in una visione evolutiva del diritto dalla quale si desume che non sussiste, sotto il profilo sistematico, un diritto del socio alla partecipazione fisica all’adunanza; rimane fermo che la società deve assicurare la parità di trattamento nell’intervento assembleare, utilizzando collegamenti telematici fruibili da tutti gli aventi diritto e alle medesime condizioni[14].  La Massima raccomanda infine, solo prudenzialmente (affinché gli amministratori possano avere la certezza di agire in un quadro di regole condivise), una espressa previsione statutaria per consentire la convocazione delle assemblee in modalità esclusivamente virtuale.

A questi interventi normativi ed interpretativi si sono infine aggiunti, in modo decisivo per l’effettivo sviluppo della prassi della telecomunicazione nell’ambito societario, il perfezionamento nel corso del primo lock down di numerose piattaforme digitali di teleconferenza che hanno cominciato ad essere utilizzate agevolmente quasi da chiunque in tutti i settori della vita sociale (dallo smart working, alla scuola, alle riunioni di lavoro, alla socialità in genere, famiglia, amici etc.), rendendo pertanto tali strumenti familiari a larghe fasce della popolazione[15].

3. A tre anni dal termine del primo lock down cosa si può dunque registrare circa lo sviluppo della prassi operativa e dell’elaborazione dei principi di diritto in materia di assemblee in telecomunicazione?

Le assemblee tenute con il ricorso alle piattaforme di telecomunicazione, in particolare, ma non solo, delle società che hanno capitale, management, organo di controllo e consulenti collocati in luoghi geograficamente diversi dalla sede sociale, sono diventate più agevoli in termini di risparmio di tempo e di costi e soprattutto molto più partecipate e finalmente presiedute dal soggetto in via principale indicato dallo statuto e non da un delegato inviato ad hoc presso il notaio e che di fatto solo formalmente riveste la funzione presidenziale (in genere il commercialista o l’avvocato più giovane degli studi che assistono la società) come spesso avveniva in passato[16]. In definitiva oggi alle assemblee partecipano tutti i reali interessati o larga parte di essi, in virtù dell’efficacia della teleconferenza e della facilità di servirsene: questo consente a tutti gli intervenuti di interagire in tempo reale tra loro discutendo, scambiandosi documenti e votando, e rende in molti casi non necessario per i soci ricorrere alle deleghe oltre che più semplice la partecipazione per amministratori e sindaci che ad esse non possono ricorrere.

La possibilità di un intervento da remoto, parziale o esclusivo, ha indotto i commentatori a coniare per l’assemblea in telecomunicazione le definizioni di ibrida e virtuale[17] intendendo per:

  • ibrida l’adunanza che si svolge in un luogo fisico, ma alla quale è consentito partecipare anche attraverso mezzi di telecomunicazione;
  • virtuale l’adunanza che si tiene esclusivamente attraverso mezzi di telecomunicazione senza che vi sia un luogo fisico di svolgimento dell’assemblea[18].

In punto di diritto possiamo rilevare che, in realtà, il decreto emergenziale non ha introdotto alcuna novità destinata a permanere nel sistema: ha solo consentito la provvisoria deroga all’articolo 2370 c.c. nel caso in cui lo statuto non preveda espressamente la possibilità di intervenire con strumenti di telecomunicazione; viceversa, le previsioni relative alla non necessaria compresenza di presidente e segretario/notaio e all’ammissibilità di adunanze in full conference (virtuali ) affrontano temi già positivamente risolti in parte prima dell’emergenza Covid ed in parte sulla spinta della stessa, interpretando il diritto vigente in modo da tener conto dell’assimilabilità dell’intervento virtuale a quello fisico sotto il profilo sistematico in generale e del rispetto del principio di collegialità piena in particolare (in virtù dell’enorme sviluppo tecnologico delle piattaforme di telecomunicazione).

In questo senso, dopo le massime milanesi[19] e numerosa dottrina[20] stimolata ad intervenire o a tornare su di un tema divenuto attuale, si sono espressi anche lo Studio Assonime 2/2022[21], la Massima 82/2022 del Consiglio Notarile di Firenze[22] e, infine, il recente studio del Consiglio Nazionale del Notariato[23].

Alla luce delle interpretazioni consolidatesi sulla legittimità dell’assemblea virtuale e della conseguente non necessaria compresenza di presidente e notaio/segretario, la proroga del decreto emergenziale al 31 luglio 2023 (e così qualsiasi ulteriore proroga venisse decisa, come ventilato da alcune voci), non presentava in realtà alcuna effettiva utilità se non quella temporanea e limitata di consentire la deroga all’art. 2370, comma 4, c.c. alle società i cui statuti non prevedono o vietano l’intervento in telecomunicazione, nonché quella, ove si voglia seguire la tesi più prudente, di consentire la convocazione di assemblee in full conference (cioè non in un luogo fisico) anche in assenza di un’espressa previsione statutaria[24].

4. La diffusione e l’affinamento della prassi delle adunanze in telecomunicazione hanno posto in evidenza la necessità di (ri)considerare alcuni profili operativi, in particolare circa la formulazione dell’avviso di convocazione, la puntuale modulazione delle clausole statutarie che regolano la partecipazione virtuale, le conseguenze del malfunzionamento della piattaforma telematica, l’accertamento dell’identità del presidente distante dal notaio verbalizzante, la competenza territoriale di quest’ultimo.

L’avviso di convocazione evidentemente dovrà indicare la scelta del sistema d’intervento almeno nel caso in cui si opti per l’assemblea virtuale (in quest’ipotesi  ovviamente non dovrà indicare un luogo fisico dove tenere l’assemblea); è estremamente opportuno che la scelta del sistema di collegamento sia rimessa alla società e dunque all’organo amministrativo per consentire un ordinato svolgimento dell’adunanza, e l’avviso potrà già indicare la piattaforma che si intende utilizzare ed il link per accedervi o rinviare ad una successiva comunicazione che dovrà essere sufficientemente tempestiva[25].

Le clausole statutarie potranno richiedere qualche intervento di aggiornamento o manutenzione ove ci si voglia avvalere delle possibilità concesse dalla full conference, considerato che quelle che ad oggi si rinvengono più di frequente in materia di telecomunicazione prevedono  genericamente l’ammissibilità di tale forma di partecipazione[26], quale mera facoltà, o viceversa altre volte enunciano, in maniera tralatizia, i requisiti necessari per assicurare collegialità e parità di trattamento tra i quali spesso la compresenza di presidente e notaio/segretario verbalizzante.

Al fine di una più puntuale regolazione della materia è invece utile immaginare clausole statutarie che contemplino l’assemblea a distanza aventi contenuto più articolato rispetto al passato, ad esempio che prevedano:

  • la possibilità d’intervenire con mezzi di telecomunicazione, come modalità aggiuntiva all’intervento di persona: i soci in questo caso sono titolari del diritto di scegliere tra l’intervento di persona e l’intervento mediante telecomunicazione;
  • la facoltà degli amministratori di stabilire se convocare l’assemblea solo mediante mezzi di telecomunicazione oppure se convocare l’assemblea indicando anche un luogo fisico di convocazione;
  • la facoltà di scelta degli amministratori, stabilendo però sempre il diritto dei soci d’intervenire in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione;
  • la facoltà di convocare l’assemblea fuori dal comune della sede sociale solo a condizione che la convocazione consenta d’intervenire a distanza.

Un altro tema, già affrontato in precedenza, ma che oggi acquisisce maggiore attualità, considerato l’uso notevolmente più diffuso della telecomunicazione, anche integrale, è quello delle disfunzioni che all’inizio dell’assemblea o nel corso della stessa possono manifestarsi nell’accesso o nelle funzionalità della piattaforma utilizzata per l’audio-videoconferenza.

Le relative conseguenze possono così schematizzarsi:

  1. nell’ipotesi di malfunzionamento verificatosi ab origine, prima dell’avvio dei lavori:
    1. se è imputabile alla società, l’assemblea non può cominciare in quanto non si costituirebbe correttamente, non fornendo ad alcuni dei legittimati la possibilità di intervento in assemblea;
    2. se è riferibile al socio (ad esempio, per problemi di connessione alla rete Internet), il Presidente può accertare il quorum costitutivo (tenendo conto dell’assenza di detto socio) e avviare l’adunanza;
  1. nell’ipotesi di malfunzionamento verificatosi nel corso dell’assemblea:
    1. se è imputabile alla società, l’assemblea dev’essere sospesa dal presidente fino alla risoluzione del problema, pena l’illegittimità delle delibere adottate (annullabilità);
    2. se è riferibile al socio, l’assemblea può proseguire e il socio verrà annoverato solo nel quorum costitutivo (se già accertato) e non anche nel deliberativo.

Naturalmente, in un’ottica di collaborazione, il presidente può proporre di proseguire l’assemblea su altra piattaforma se ciò è sufficiente per superare il problema occorso al socio, ma si rende necessaria a tal fine una delibera a maggioranza dei soci[27].

La possibile (o certa, in caso di assemblea virtuale) collocazione in luoghi fisicamente distanti di presidente e notaio ha fatto sorgere inizialmente in ambito notarile qualche incertezza circa l’obbligo e le modalità di accertamento dell’identità del presidente: è possibile affermare con certezza in proposito che il notaio dovrà identificare il presidente nel modo che riterrà in concreto più opportuno e con ancora maggior prudenza del solito, ma comunque non ricorre l’obbligo dell’attestazione formale della certezza dell’identità personale richiesta dall’art. 51, comma 2, L.N., non essendo questi tecnicamente parte dell’atto[28].

Peraltro già l’indicazione nel verbale che “l’assemblea della società Alfa è presieduta da Tizio, nato a… il… in qualità di…, il quale richiede al notaio la redazione del verbale”, è un’attestazione proveniente da quest’ultimo che si fonda su accertamenti fatti sotto la sua responsabilità, per cui non riterrei occorra aggiungere altro, anche circa il modo in cui si sia raggiunta tale certezza[29].

5. Infine qualche considerazione sulla competenza territoriale del notaio che verbalizzi a distanza e sui possibili squilibri che questa prassi secondo alcuni potrebbe comportare nell’assetto complessivo dell’attività notarile in campo societario.

Se è vero che attualmente le maggiori fruitrici delle assemblee in telecomunicazione ibride, ma soprattutto virtuali, sono le società cui accennavo in precedenza, in genere imprese in cui terzi investitori (quali fondi d’investimento, Cassa Depositi e Prestiti, sviluppatori di start up o club deal) abbiano acquistato partecipazioni di controllo o comunque rilevanti o società che siano interamente possedute da multinazionali estere, è anche vero che i vantaggi della partecipazione digitale (piena e non solo limitata a casuali e sporadici interventi in telecomunicazione) possono estendersi a tutte le società di capitali e in particolare a quelle che abbiano una struttura societaria ed organizzativa o una posizione geografica tali per cui sia molto più facile per soci, amministratori, sindaci e consulenti vari ritrovarsi in un’adunanza virtuale piuttosto che muoversi fisicamente.

Naturalmente il ricorso allo strumento digitale, che inevitabilmente diverrà più agevole, frequente e comune anche per i privati e per le piccole realtà imprenditoriali, resta un’opportunità, ma non un obbligo, a maggior ragione in modalità full conference: pertanto deve sempre essere valutato con apprezzamento molto prudente da parte del notaio in relazione sia al grado di conoscenza diretta del presidente e più in generale della società, dei suoi soci, organi e consulenti, sia dell’opportunità ed efficacia del suo utilizzo, in particolare nel caso di assemblee con molti soci la cui gestione potrebbe essere più complessa e richiedere una adeguata organizzazione soprattutto riguardo all’identificazione degli intervenuti e all’esercizio del voto[30].

Prescindendo dall’apprezzamento manifestato dagli operatori circa la possibilità di sfruttare i vantaggi della telecomunicazione piena anche nelle assemblee che richiedono l’intervento notarile, in una prospettiva interna al notariato possiamo osservare come non sia necessariamente vero, come taluno ha adombrato, che essa favorisca solo il notaio dei grandi centri e ciò perché la digitalizzazione dell’assemblea consente al notaio del piccolo centro:

  • non solo di continuare ad assistere i suoi clienti imprenditori radicati nel territorio del suo distretto che abbiano consentito l’ingresso nel capitale di investitori provenienti da altre zone d’Italia o dall’estero, ai quali ultimi magari spetta la presidenza dell’assemblea e la nomina di alcuni componenti degli organi di amministrazione e controllo, fatta ricadere, com’è frequente, su soggetti geograficamente lontani;
  • ma anche (nel caso più ordinario e frequente, in cui si trovi in una sede lontana da quella dei suoi clienti o magari disagiata dal punto di vista delle vie di comunicazione) di verbalizzare a distanza, senza sottrarre troppo tempo all’assistenza allo studio, a maggior ragione nel caso in cui, ad esempio, per eventi atmosferici non sia possibile o consigliabile muoversi (per il notaio, ma anche per soci, amministratori e sindaci)[31].

Tutto ciò sul presupposto, ormai ampiamente condiviso, che la competenza territoriale del notaio vada verificata rispetto al luogo dal quale, attraverso la piattaforma telematica, il notaio assiste all’assemblea e nel quale svolge e completa, con la redazione e la sottoscrizione del verbale, l’attività di documentazione dello svolgimento dell’adunanza perché in questo si concreta la sua funzione e perché è qui che la esercita[32].

Conseguentemente nel verbale si darà conto del luogo dal quale il notaio accede alla piattaforma telematica e se, come in genere accade nelle assemblee virtuali, il verbale sia differito, del luogo dove lo completa e lo sottoscrive.

D’altra parte, per incardinare la competenza rispetto alla singola assemblea, che senso avrebbe fare riferimento (i) alla sede sociale se in quel luogo potrebbe non trovarsi nessuno o (ii) al luogo dove si trova il presidente se tutti gli altri partecipanti sono altrove?

Sino ad oggi nessuno ha mai dubitato che il notaio potesse verbalizzare, nell’ambito della propria competenza territoriale, assemblee tenutesi in presenza ove la società abbia sede al di fuori degli stessi confini territoriali, così come nessuno ha mai dubitato che nelle assemblee ibride il notaio potesse verbalizzare la partecipazione e l’intervento di chi si collega telematicamente dal di fuori del suo Distretto, oggi della sua Regione.

In definitiva l’attività di verbalizzazione si concretizza nel documentare ciò che il notaio percepisce e in un’assemblea virtuale la percezione si esplica mediante lo strumento telematico, dalla località in cui egli si trova, a prescindere dai luoghi fisici (potenzialmente e di norma molteplici) da cui accedono alla piattaforma utilizzata i vari partecipanti. Quello che c’è da vedere, sentire e documentare è quello che viene trasmesso sullo schermo del suo pc.

 

Note

[1] Trib. Milano, 15 marzo 1996, inedito; M. Notari, Fusioni, scissioni ed altre operazioni societarie nelle nuove massime del Tribunale di Milano, in Riv. soc., 1997, pp. 842 ss. e 847 ss.

[2] Ma favorevole, con orientamento innovativo, per le riunioni del consiglio di amministrazione, in tal senso Trib. Bologna, 13 luglio 1999, inedito, ed una massima del Tribunale di Milano del 29 novembre 2000.

[3] Principi reputati necessari, anche a seguito dell’evoluzione tecnologica, da F. Magliulo, Le nuove tecnologie informatiche e il rispetto del metodo collegiale, in Notariato, 4/2019, p. 380.

[4] Norma dettata per le sole società per azioni, ma reputata applicabile anche alle società a responsabilità limitata secondo l’orientamento ampiamente prevalente. Si veda in particolar modo la Massima n. 14 del Consiglio Notarile di Milano, “Uso di mezzi telematici e del voto per corrispondenza nelle assemblee di s.r.l.”, in cui si afferma che “Nella s.r.l. devono ritenersi ammissibili le assemblee tenute con mezzi di telecomunicazione e i voti per corrispondenza alle stesse condizioni in presenza delle quali tali modalità di svolgimento delle riunioni assembleari e di partecipazione alle decisioni dei soci sono ammesse nella s.p.a. che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio”, argomentando anche sulla base del fatto che “Detti mezzi […] sono più facilmente praticabili e praticati in società con pochi soci, reciprocamente ben noti, che non in società dalle assemblee affollate: sicché non si giustificherebbe un orientamento restrittivo al riguardo anche alla luce delle aperture all’autonomia statutaria e delle semplificazioni organizzative introdotte nella s.r.l.”; più recentemente si sono espressi sul punto anche N. Atlante, M. Maltoni, C. Marchetti, M. Notari, A. Roveda, Le disposizioni in materia societaria nel Decreto-legge COVID-19, in Federnotizie.it, 30 marzo 2020, p. 7; F. Magliulo, Le nuove tecnologie informatiche e il rispetto del metodo collegiale, in Notariato, 4/2019, p. 380.

[5] Ancora contrari a questa tesi, in tempi recenti, M. Stella Richter jr., Art. 2370, in Le società per azioni. Codice civile e leggi complementari, diretto da P. Abbadessa e G.B. Portale, Milano, Giuffrè, 2016, p. 946; G. Visentini, L’assemblea della società per azioni, Dike giuridica, Roma, 2017, p. 83.

[6] F. Magliulo, La (non) necessaria compresenza del presidente e del segretario degli organi societari, in Riv. Not., 2020, I, pp. 3 ss.; si rammenta che è ormai pacifica l’ammissibilità della redazione non contestuale del verbale degli organi societari: ex multis Massime nn. 45 e 46 del Consiglio Notarile di Milano, rispettivamente intitolate Tempi e regole per la formazione del verbale di assemblea e Tempi e regole per la formazione del verbale notarile di organi collegiali diversi dall’assemblea; Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari – Comitato Triveneto dei Notai, massima A.A.1, Verbalizzazione in data successiva alla riunione.

[7] Inizialmente contrario, reputando necessaria e sufficiente la presenza del solo presidente, F. Magliulo, Art. 2370, in Commentario Romano al Nuovo Diritto delle Società, diretto da F. D’Alessandro, Piccin, Padova, 2011, p. 689, il quale ha mutato opinione, allineandosi all’orientamento sostenuto nella massima sopra citata, in Id., La (non) necessaria compresenza del presidente e del segretario degli organi societari, cit., pp. 3 ss. (sebbene, a ben vedere, questo Autore sostenga che sia indifferente la presenza del presidente o del notaio nel luogo fisico di convocazione; è prevalente, invece, la tesi secondo cui almeno il notaio, al fine di espletare correttamente le sue funzioni di verbalizzazione, debba essere presente: sul punto C. Marchetti – M. Notari, Diritti dei soci, interesse sociale e funzionamento dell’assemblea: spunti dalle norme di emergenza, in Riv. Soc., 2020, p. 444, nota 26). Dello stesso parere della massima citata anche gli appena menzionati C. Marchetti – M. Notari, Diritti dei soci, interesse sociale e funzionamento dell’assemblea: spunti dalle norme di emergenza, cit., p. 436.

[8] Della stessa opinione, ex multis, Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 5 (scaricabile al link https://www.assonime.it/attivita-editoriale/studi/Pagine/Note-e-Studi-2_2022.aspx), ove si legge che “L’evoluzione tecnologica mette ormai a disposizione un metodo di gestione delle riunioni flessibile e di facile utilizzo, il quale non solo non sembra menomare la piena partecipazione dei soci all’assemblea, ma anzi ne facilita una maggiore presenza”; A.M. Luciano, La riunione assembleare e il diritto d’intervento nella S.p.a. alla luce delle “nuove tecnologie”, in Le Società, 2/2023, p. 140.

[9] Tra i primi commenti alla normativa citata si può ricordare N. Atlante, M. Maltoni, C. Marchetti, M. Notari, A. Roveda, Le disposizioni in materia societaria nel Decreto-legge COVID-19 (Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18). Profili applicativi, disponibile al link https://www.federnotizie.it/le-disposizioni-in-materia-societaria-nel-decreto-legge-covid-19-decreto-legge-17-marzo-2020-n-18-profili-applicativi/Assonime, Q&A sulle assemblee “a porte chiuse”, disponibile al link http://www.assonime.it/attivita-editoriale/news/Pagine/News-Faq-QeA-sulle-assemblee-a-porte-chiuse.aspx.

[10] Proprio per il fatto che vi è un’assoluta equivalenza delle modalità di partecipazione fisica e a distanza dal punto di vista dei soci, lo Studio n. 41-2023/I pubblicato dal Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, pp.6-7, ha sottolineato che “l’inserimento successivo di una clausola siffatta, in sede cioè di modificazione statutaria, non altera, meno che meno in senso peggiorativo, alcun diritto di partecipazione e dunque non legittima il socio assente o dissenziente a recedere ai sensi dell’art 2437, comma 1, lett. g), c.c.”; conformi Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 27, e C. Marchetti – M. Notari, Diritti dei soci, interesse sociale e funzionamento dell’assemblea: spunti dalle norme di emergenza, cit., p. 432; favorevole alla sussistenza del recesso ai sensi della predetta norma, invece, E. Pederzini, Intervento del socio mediante mezzi di telecomunicazione e democrazia assembleare, in Giur. comm., I, 2006, p. 122.

[11] Della stessa opinione A. Busani, Assemblee e Cda in audio-video conferenza prima e dopo il Covid-19, in Società, 2020, p. 401; L. Schiuma, L’assemblea in via esclusivamente telematica nel diritto ante e post-emergenza Covid19, in Riv. dir. comm., 2020, p. 419 ss.; Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 29. Ritengono invece necessaria l’indicazione di un luogo fisico di convocazione dell’assemblea; Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari – Comitato Triveneto dei Notai, massima H.B.39, Intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione in relazione alle possibili diverse clausole statutarie, che riconosce che in ogni caso rimane “fermo il diritto del socio di intervenire fisicamente in assemblea”; M. Palazzo, Cosa resta della disciplina in materia di riunioni assembleari contenuta nella legislazione dell’emergenza?, in Nuove leggi civ. comm., 2020, p. 917; M. Stella Richter jr., La collegialità nelle società di capitali al tempo della pandemia, reperibile al link https://giustiziacivile.com/societa-e-concorrenza/articoli/la-collegialita-nelle-societa-di-capitali-al-tempo-della-pandemia, 12 maggio 2020, p. 8; Federnotizie, Gli strumenti informatici a servizio del diritto societario – Video-teleconferenze, pubblicazioni e diffusioni di informazioni via Web, a cura di M. Agostini, in I notai nel web, Assonotailombardia, 2015, p. 21; solo inizialmente F. Magliulo, Quel che resterà del verbale assembleare dopo il Covid-19, in Riv. Not., 3/2020, p. 251, il quale ha successivamente mutato opinione reputando non necessaria l’individuazione di un luogo fisico, in Id., Il verbale assembleare in teleconferenza: le regole applicabili dopo la scadenza delle norme emergenziali, in Notariato, 4/2022, p. 319.

[12] Studio n. 41-2023/I, Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, cit., p. 6.

[13] C. Marchetti – M. Notari, Diritti dei soci, interesse sociale e funzionamento dell’assemblea: spunti dalle norme di emergenza, cit., p. 434, ove viene mossa l’osservazione secondo la quale “il diritto ad essere convocato in un luogo fisico rischia di divenire in realtà un pesante onere, qualora il luogo di convocazione venisse stabilito a grande distanza dal proprio domicilio e qualora non fosse consentito l’utilizzo di mezzi di telecomunicazione”; Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 22.

[14] Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 23 evidenzia che un ruolo integrativo nella disciplina dell’intervento in videoconferenza può essere rivestito dal regolamento assembleare di cui all’art. 2364 n. 6 c.c., che operando “nei limiti delle previsioni statutarie, ben potrebbe definire concretamente tutti quei profili di dettaglio idonei a rendere possibile l’intervento mediante mezzi di telecomunicazione”, nonché dall’avviso di convocazione e da eventuali comunicazioni successive ad esso connesse.

[15] Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, p. 19, evidenzia che questi sistemi di videoconferenza dispongono di varie funzionalità (partecipazione attiva, condivisione di documenti, chat contestuali) e richiedono soltanto di essere dotati di una connessione internet e di una casella di posta elettronica.

[16] Federnotizie, Assemblee in teleconferenza oltre l’emergenza, 26 novembre 2021, reperibile al link https://www.federnotizie.it/assemblee-in-teleconferenza-oltre-lemergenza/, ove si sottolinea inoltre che “i mezzi di telecomunicazioni [sic!] permettono al notaio di verbalizzare assemblee senza allontanarsi dalla propria sede e quindi rendendo più effettiva l’assistenza alla sede stessa” e così “garantendo parità di opportunità al notaio della sede produttiva e a quello della sede disagiata”; Studio 41-2023/I, Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, cit., p. 4, in cui si afferma che l’esperienza dimostra che, quantomeno dal punto di vista del risparmio dei costi e di tempo, la partecipazione a distanza è più agevole di quella in presenza, a fronte dell’incontroversa giurisprudenza e prassi notarile, che ritengono pacificamente legittime le clausole che permettono di convocare l’assemblea in Italia, in Europa e talvolta anche negli USA.

[17] Riguardo questa distinzione si può rinviare ad Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, pp. 9 ss., che ammette l’assoggettamento della partecipazione a distanza a limiti e condizioni per l’assemblea ibrida, solo a condizioni per la virtuale, sempre nel rispetto dei principi di parità di trattamento e di buona fede; Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 82/2022 – Clausole statutarie per le assemblee telematiche; Consob, Gli sviluppi tecnologici del diritto societario, in Quaderni Giuridici, n. 23, maggio 2022, a cura di M. Bianchini, G. Gasparri, G. Resta, G. Trovatore, A. Zoppini, p. 48; Studio 41-2023/I, Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, cit.. Per un’analisi comparata del fenomeno delle assemblee virtuali all’interno dei vari Paesi UE si veda Better Finance, The future of general shareholder meetings – Study on the 2020 virtual shareholder meetings in the EU, 2020, reperibile al link: https://betterfinance.eu/wp-content/uploads/Virtual-AGMs-in-the-EU-FINAL-2.pdf.

[18] C. Marchetti – M. Notari, Diritti dei soci, interesse sociale e funzionamento dell’assemblea: spunti dalle norme di emergenza, cit., p. 444, che ne deducono la non necessità della presenza di alcun soggetto in alcun determinato luogo; Massima n. 200 del Consiglio Notarile di Milano, Clausole statutarie che legittimano la convocazione delle assemblee esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione,

[19] Cioè le già citate Massime 187 e 200 del Consiglio Notarile di Milano.

[20] Ex multis: Federnotizie, Assemblee in teleconferenza con la fine dell’emergenza, 29 luglio 2022, reperibile al link https://www.federnotizie.it/consigli-di-amministrazione-da-remoto-con-la-fine-dellemergenza/; A. Busani, Assemblee e Cda in audio-video conferenza prima e dopo il Covid-19, cit., p. 403; Consiglio Nazionale del Notariato, Le riunioni con mezzi di telecomunicazione dopo la cessazione delle norme emergenziali, in CNN Notizie n. 144 del 29 luglio 2022 – Segnalazioni novità.

[21] E precisamente Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive.

[22] Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 82/2022 – Clausole statutarie per le assemblee telematiche.

[23] Studio 41-2023/I, Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, cit.

[24] Federnotizie, Assemblee in teleconferenza con la fine dell’emergenza, cit., in cui si evidenzia che, terminato il periodo di vigenza della norma emergenziale, tornerà, quantomeno per le S.p.A., ad essere necessaria un’apposita clausola per far sì che l’intervento possa avvenire con un mezzo di telecomunicazione (contrari gli Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari – Comitato Triveneto dei Notai, massima H.B.39, Intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione in relazione alle possibili diverse clausole statutarie, secondo cui “Nelle società per azioni “chiuse”, anche in assenza di una specifica previsione statutaria, deve ritenersi possibile l’intervento in assemblea mediante mezzi di telecomunicazione, a condizione che siano in concreto rispettati i principi del metodo collegiale”; Federnotizie, Assemblee full digital: una proroga di cui non si sentiva la mancanza, a cura di G. De Marchi, 27 febbraio 2023, reperibile al link https://www.federnotizie.it/assemblee-full-digital-una-proroga-di-cui-non-si-sentiva-la-mancanza/; contra A.M. Luciano, La riunione assembleare e il diritto d’intervento nella S.p.a. alla luce delle “nuove tecnologie”, cit., pp. 143 ss., secondo cui, esauritosi il portato della norma emergenziale, “impedire un intervento fisico alla [assemblea] – integrerebbe piuttosto una menomazione (riduzione) delle prerogative del socio, che contraddirebbe i principi fondanti dell’ordinamento azionario”: l’adunanza esclusivamente virtuale è consentita solo se tutti gli aventi diritto sono d’accordo.

[25] R. Viggiani, Le riunioni con mezzi di telecomunicazione nelle società di capitali chiuse: disciplina legale e autonomia statutaria, in Il societario, Focus del 07 settembre 2020, reperibile al link https://ilsocietario.it/articoli/focus/le-riunioni-con-mezzi-di-telecomunicazione-nelle-societ-di-capitali-chiuse-disciplina; Assonime, Q&A sulle assemblee “a porte chiuse”, 3 aprile 2020, reperibile al link https://www.assonime.it/attivita-editoriale/news/Pagine/News-Faq-QeA-sulle-assemblee-a-porte-chiuse.aspx; Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 82/2022 – Clausole statutarie per le assemblee telematiche, ove si legge che “b) l’avviso di convocazione dia conto delle scelte [relative ai mezzi di telecomunicazione] effettuate dall’organo amministrativo, anche precisando in modo puntuale la piattaforma di collegamento da utilizzare; ciò peraltro non è un requisito di validità, potendo quest’ultima essere fornita ai soci mediante una successiva comunicazione (o, al ricorrere di certe condizioni, sul sito della società)”. La stessa massima evidenzia invece l’inopportunità della scelta di individuare nello statuto o nel regolamento assembleare la tipologia di piattaforma informatica sulla quale tenere l’assemblea virtuale o ibrida, in quanto “produce un inutile irrigidimento che rischierebbe di obbligare la società ad adeguamenti continui per stare al passo del progresso tecnologico”, mentre reputa ben più ragionevole una previsione che dettasse alcuni parametri tecnico/giuridici. Viene infine messo in luce il fatto che i soci non hanno alcun diritto di ottenere un determinato tipo di collegamento, così come non possono interferire in caso di assemblea tradizionale sulla scelta del luogo della riunione.

[26] Come rammentato nel testo, pur reputando utile una previsione statutaria espressa circa la possibilità di convocare l’assemblea in modalità esclusivamente virtuale, la Massima 200 del Consiglio Notarile di Milano, in motivazione, asserisce che “pare ragionevole giungere ad affermare che, in presenza di una clausola statutaria che consenta genericamente [enfasi nostra] l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione – alla stregua di quanto prevede l’art. 2370, comma 4, c.c., eventualmente richiamando i principi di collegialità, buona fede e parità di trattamento – l’organo amministrativo (o comunque il soggetto che effettua la convocazione) possa legittimamente indicare nell’avviso di convocazione che l’assemblea si terrà esclusivamente mediante mezzi di telecomunicazione, omettendo l’indicazione del luogo fisico di convocazione e indicando le modalità di collegamento (con facoltà beninteso di fornire le specifiche tecniche anche in momenti successivi, prima della riunione)”; la sopra citata massima 82/2022 del Consiglio Notarile di Firenze da parte sua  sostiene che “è opportuno che: a) lo statuto non si limiti ad una generica previsione” dell’ammissibilità dell’intervento mediante mezzi di telecomunicazione. Nel senso dell’obbligatorietà dell’espressa previsione statutaria per consentire l’assemblea virtuale: G.LAURINI, Assemblea “virtuale” solo se espressamente prevista nello statuto o totalitaria” in Notariato 5/2023 pp.501 ss.

[27] A.M. Luciano, La riunione assembleare e il diritto d’intervento nella S.p.a. alla luce delle “nuove tecnologie”, cit., p. 142; Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 82/2022 – Clausole statutarie per le assemblee telematiche suggerisce che “d) lo statuto/il regolamento assembleare individui le soluzioni da adottare in caso di malfunzionamento del collegamento, prevenendo così la possibilità di impugnative”, aspetto particolarmente importante in quanto “i) il problema di (ed il conseguente mancato) collegamento che riguarda anche un solo socio, determinante ai fini del raggiungimento della soglia minima partecipativa di legge o statutaria, non permette la regolare costituzione dell’assemblea e quindi impedisce l’avvio dei lavori […]; ii) quando invece il quorum costitutivo risulti verificato, seppure i lavori non siano ancora stati avviati, il medesimo problema riguardante uno o più soci collegati impone già di effettuare una distinzione circa la sua causa: se essa dipendesse dalla piattaforma predisposta dalla società l’impossibilità di partecipare anche di un solo soggetto impedirebbe il regolare svolgimento della riunione, in quanto rappresenterebbe un vizio che, pur cedendo alla prova di resistenza, renderebbe possibile l’annullamento delle deliberazioni in sede contenziosa; se invece la causa del mancato collegamento fosse ascrivibile al singolo socio, purché ciò fosse “certificabile” ex post…è evidente che l’assemblea sarebbe validamente costituita ed i lavori potrebbero essere avviati regolarmente, risolvendosi questa ipotesi in una situazione analoga all’impossibilità del singolo di raggiungere la sede “fisica” di un’assemblea tradizionale”. Ove il problema sorgesse nel corso dell’assemblea e fosse imputabile al singolo socio, ciò assumerebbe rilevanza solo se in sua assenza non fosse raggiunto il quorum deliberativo; ove non fosse imputabile al singolo socio, bisognerebbe rinviare l’assemblea.

[28] Federnotizie, Le disposizioni in materia societaria nel Decreto-legge COVID-19 (Decreto legge 17 marzo 2020, n. 18). Profili applicativi, 30 marzo 2020; F. Magliulo, Il controllo notarile sugli atti societari: incoerenze del sistema e prospettive di riforma, in Notariato, 5/2013, p. 532; F. Magliulo, Quel che resterà del verbale assembleare dopo il Covid-19, cit., pp. 255 ss.; F. Magliulo, Il verbale assembleare in teleconferenza: le regole applicabili dopo la scadenza delle norme emergenziali, cit., p. 320; A. Busani, Assemblee e Cda in audio-video conferenza prima e dopo il Covid-19, cit., pp. 404 ss.

[29] Sulla tematica della verbalizzazione si rinvia, ex multis, a C. Clerici – F. Laurini, L’assemblea tra partecipazione virtuale e voto elettronico dopo il D.lgs. 27/2010: clausole statutarie e tecniche di verbalizzazione, in Notariato, 6/2010, p. 677; Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, pp. 43 ss.; Massima n. 45 del Consiglio Notarile di Milano, Tempi e regole per la formazione del verbale di assemblea; Comitato Notarile della Regione Campania, Massima n. 37, ART. 106, II co., D.L. 18/2020.

[30] Sulla rilevanza di un’idonea identificazione, ex multis, di recente Osservatorio sul diritto societario del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Firenze, Pistoia e Prato, Massima 82/2022 – Clausole statutarie per le assemblee telematiche, nella cui motivazione si afferma che i tratti salienti della modalità di collegamento biunivoca a distanza “postulano che tutti i partecipanti: i) devono poter essere facilmente identificabili, meglio se in video, soprattutto in contesti potenzialmente numerosi e di soggetti che possono non conoscersi; ii) devono poter interagire tra loro, potendo in tempo reale ascoltare il dibattito, intervenire in esso, scambiare documenti – ricevendoli, visionandoli e inviandoli – ed esprimere il voto. Solo così si attua una piena collegialità, che rende la riunione telematica in tutto e per tutto equiparabile alla riunione fisica tradizionale, poiché il soggetto collegato da remoto può esercitare le stesse prerogative di cui avrebbe goduto se fosse stato fisicamente presente”; Assonime, Note e Studi 2/2022 – La riunione assembleare con mezzi di telecomunicazione. Questioni e prospettive, pp. 32 ss., che osserva (p. 34) che “[l]a dottrina ha avanzato diverse soluzioni al problema dell’identificazione, quali: i sistemi di identificazione basati sull’utilizzo della PEC, della firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, abbinati all’inoltro di copia di un documento di identità in corso di validità utilizzati ai fini del rilascio della delega alla partecipazione in assemblea; l’attribuzione di pin e/o credenziali di identificazione personali al socio da parte della società. La complessità di tali sistemi […] implica una valutazione caso per caso e deve essere adeguata alle dimensioni e alle caratteristiche della società nonché al numero dei soggetti legittimati alla partecipazione”.

[31] Sul punto si rinvia alla nota 16.

[32] Studio 41-2023/I, Consiglio Nazionale del Notariato, La riunione assembleare a distanza, a cura di G. Ferri jr. – J. Sodi, cit., p. 8, che precisa che delocalizzare la riunione assembleare non significa delocalizzare la funzione notarile, che dovrà continuare ad essere svolta sul territorio, e osserva che il notaio, come può ricevere atti che hanno ad oggetto immobili / aziende / partecipazioni dislocati in qualsiasi parte del territorio nazionale, così può anche ricevere verbali di adunanze di organi sociali di società aventi sede al di fuori del territorio di competenza; aggiunge inoltre che ““delocalizzare” l’assemblea non significa in alcun modo “delocalizzare” la società: la sede sociale rimarrà come luogo rilevante a molteplici fini (come, ad esempio, ai fini della […] competenza giurisdizionale in ordine all’impugnazione delle deliberazioni), senza per questo rendere necessario, salvo che lo si voglia nell’esplicazione dell’autonomia statutaria, un’indicazione che “localizzi” l’assemblea riunita a distanza”; R. Viggiani, Le riunioni con mezzi di telecomunicazione nelle società di capitali chiuse: disciplina legale e autonomia statutaria, cit.; F. Magliulo, Il verbale assembleare in teleconferenza: le regole applicabili dopo la scadenza delle norme emergenziali, cit., p. 320.

Assemblee in telecomunicazione: storia di una rivoluzione* ultima modifica: 2023-12-15T08:30:14+01:00 da Redazione Federnotizie

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Il termine di decadenza del danno da emotrasfusione

News Notai.it - Gio, 12/14/2023 - 19:10

Il danno da emotrasfusione è quel danno che deriva dalla menomazione al diritto alla salute a seguito di trasfusione di emoderivati non conformi.

L’Agenzia delle Entrate finalmente cambia idea sul coacervo

News Federnotizie - Mer, 12/13/2023 - 08:30
di Ugo Friedmann, notaio in Milano

L’attuale sistema di tassazione delle donazioni e degli atti mortis causa in Italia prevede cospicue franchigie a favore dei figli, del coniuge e dei fratelli. Sovente orienta scelte che vanno nel senso di anticipare dei trasferimenti nel timore che la tassazione ritorni a essere tale da rendere difficile il pagamento delle imposte da parte degli eredi.

Se si compara, infatti, il nostro sistema fiscale con quello dei Paesi a noi più vicini, è facile rendersi conto di come la tassazione di donazioni e successioni incida in detti ordinamenti in maniera davvero notevole, mentre attualmente il nostro sia un sistema assolutamente premiale sia per le aliquote sia per le franchigie.

Per evitare che il contribuente, non pago, approfitti del sistema, il legislatore ha costruito un meccanismo anti elusivo che viene denominato “coacervo”.

Il coacervo è oggi per l’Amministrazione Finanziaria uno strumento volto a “sterilizzare” la franchigia di cui già si sia fruito rispetto alla tassazione di altre donazioni e, sino alla Circolare 29, del 19 ottobre 2023 (.PDF), anche  per il caso di morte del donante.

Il percorso normativo relativo al coacervo

Nel testo normativo manca un riferimento esplicito al termine “coacervo”, che compare soltanto in una Risoluzione del 1997[1].

Le norme sul coacervo prevedevano, in origine, sia in caso di successione sia in caso di donazione, che “ai soli fini dell’aliquota” dovesse tenersi conto, sia nella tassazione della successione sia di eventuali donazioni, delle donazioni precedentemente fatte ai medesimi soggetti con valore attualizzato al momento del decesso e/o della nuova donazione.

Nel caso di successione, poi, la donazione di nuda proprietà deve essere considerata come donazione di piena proprietà (venendosi a consolidare l’usufrutto per effetto della morte).

Successivamente la materia dell’imposizione successoria ha subito una fondamentale e drastica modifica con la Legge 342/2000, che ha soppresso l’imposizione sulla globale, lasciando la sola imposizione per quote e ha sostituito la tassazione con aliquote progressive, con una tassazione proporzionale, istituendo una franchigia generalizzata di 350 milioni di lire.

A seguito di tale novella è parso discutibile che la norma sul coacervo, nata per contrastare manovre elusive riferite alle aliquote progressive allora applicabili, continuasse a trovare applicazione.

Peraltro il disposto dell’articolo 7 del D.Lgs. 346/90, quale allora modificato, prevedeva esplicitamente che non si applicasse la franchigia in caso di successione sino a concorrenza di quella eventualmente goduta in sede di donazione, con ciò legittimando una lettura che, nonostante l’infelice formulazione della successiva norma dell’articolo 8, spostava l’attenzione dalle aliquote alla franchigia e che, in pratica, intendeva evitare che si potesse fruire della franchigia più di una volta tra i medesimi soggetti, prima in vita e poi in sede di successione.

In seguito, la Legge 383/2001, che, come è noto, ha soppresso l’imposta sulle successioni, ha creato un sistema ibrido di tassazione per le donazioni a seconda di chi ne fossero i destinatari.

Per quanto riguardava peraltro il coniuge, i discendenti e gli ascendenti in linea retta, i parenti entro il quarto grado, non vi era tassazione alcuna, indipendentemente dall’importo della donazione, e la stessa Amministrazione finanziaria aveva avuto occasione di confermare che detti atti venivano registrati gratuitamente (senza applicazione nemmanco della tassa fissa), mentre per quanto riguardava gli altri soggetti si era in presenza di un “ircocervo” fiscale in quanto la donazione era soggetta a imposta sulle donazioni sino a un dato importo e poi, per l’eccedenza, era soggetta alle norme sui trasferimenti a titolo oneroso, con conseguenze di non semplice applicabilità.

A distanza di pochi anni, la Legge 286/2006 ha modificato ulteriormente il regime delle successioni, “istituendo” l’imposta sulle successioni e donazioni, nel testo in vigore al 24 ottobre 2001, con le modifiche apportate dal D.L. 3 ottobre 2006, convertito nella suddetta legge e abrogando l’articolo 7 nella parte in cui prevedeva il coacervo.

Questa norma allargava le fattispecie colpite dall’imposizione in esame anche agli atti a titolo gratuito, alle rinunce e a quelli portanti costituzione di vincoli di destinazione.

La norma, tra le modifiche apportate al testo originariamente in vigore alla data del 24 ottobre 2001, prevede:

  1. la soppressione della franchigia generalizzata (di 350 milioni di lire);
  2. la creazione di franchigie “mirate” a favore di determinati soggetti che sono:
    – di 1 milione di euro per il coniuge e i parenti in linea retta;
    – di 100.000 euro per i fratelli;
    – di 1,5 milioni di euro per i soggetti disabili, quali indicati dalla legge 342/2000 a prescindere dal grado di parentela.

Questo è, in brevissima sintesi, lo scenario nel quale dovrebbe trovare applicazione oggi la norma sul coacervo, evidentemente nei soli casi in cui la successione o la donazione sia a favore di soggetti che fruiscono della franchigia quale oggi applicabile.

Le sentenze di Cassazione in materia

Sulla complessa vicenda che qui stiamo trattando, e in particolare sulla problematica della operatività del coacervo tra donazione e successione, la Cassazione [2], con le motivazioni a suo tempo sostenute nello Studio 168-2006 T della Commissione Studi tributari del C.N.N. (.PDF), e sopra sinteticamente riportate, ha affermato che detto istituto, nella materia de quo, non ha più cittadinanza nel nostro sistema giuridico.

La stessa Cassazione, con altra sentenza[3], ha ribadito l’operatività del coacervo per quanto riguarda le donazioni (ovvero per quanto riguarda la necessità di tenere conto in una donazione attuale di tutte le donazioni pregresse al fine di verificare se la franchigia è stata erosa), ma ha sposato la discutibile tesi dell’Amministrazione Finanziaria che riteneva fossero da considerare anche (e in particolare) le donazioni “esenti”, ovvero fatte nel periodo in cui l’imposta di successione era stata eliminata.

Da ultimo, però, l’orientamento della Suprema Corte, favorevole al contribuente, si è consolidato con due ordinanze[4] nelle quali il Supremo Collegio ha sottolineato che le modifiche normative intervenute non consentono più di ritenere applicabile il coacervo tra donazioni e successioni.

La Circolare AgE del 2023 sul coacervo

Finalmente l’amministrazione con Circolare 29/R della Divisione Contribuenti, in data 19 ottobre 2023, si è allineata alla posizione della Cassazione e ha specificamente affermato che “… ai fini dell’applicazione dell’imposta di successione, l’istituto del coacervo ‘successorio’, di cui all’Art. 8, comma 4, del TUS, deve ritenersi ‘implicitamente abrogato’, con la conseguenza che lo stesso non può essere applicato né per determinare le aliquote, né ai fini del calcolo delle franchigie”.

Il che, in parole semplici, significa che all’apertura della successione i chiamati che abbiano ricevuto donazioni in vita dal de cuius mantengono la totale fruibilità delle franchigie che il TUS prevede a loro favore.

Per quanto riguarda poi il cosiddetto coacervo “donativo”, di cui all’articolo 57 del TUS, un’altra importante precisazione contenuta nella prassi qui citata è che “…l’istituto del coacervo ‘donativo’ non trova applicazione con riferimento alle donazioni poste in essere nel periodo (ndr.2001-2006) in cui la disciplina relativa all’imposta sulle successioni e donazioni risultava abrogata”.

Resta quindi esclusivamente il coacervo donativo (salvo per i casi di seguito indicati), che prevede un’erosione della franchigia in caso di nuova donazione per un valore pari al valore “attuale” delle donazioni pregresse (sempre che le stesse in tutto o in parte non siano state assoggettate a tassazione).

E’ utile, al proposito, ricordare alcuni casi di esclusione dal coacervo, nonché soffermarsi su altre ipotesi di dubbia.

Donazioni indirette ed esclusioni

L’articolo 57 del D.Lgs. 346/90 esclude dal coacervo le donazioni rimuneratorie o di modico valore, nonché quelle registrate gratuitamente (Art. 3) e quelle registrate a tassa fissa (Art. 59). Quanto alla qualificazione delle donazioni “di modico valore” vi sono, in dottrina, due orientamenti che vanno a definire tali donazioni da un punto di vista “soggettivo” (ovvero con una valutazione relativa al patrimonio complessivo del donante) ovvero “oggettivo” (basandosi sul valore delle stesse astrattamente considerato).

Quanto a quelle “registrate gratuitamente” occorre avere ben presente quando le donazioni rientrano nei casi di esenzione a sensi dell’Art. 3, comma 4ter, (ricorrendo i presupposti che, di volta in volta, la norma richiede) e quando, invece, le stesse abbiano fruito esclusivamente della franchigia (per cui l’esclusione del coacervo non opererebbe come precisato sopra).

Nella prassi si è andata diffondendo – anche su sollecitazione delle banche, che temono gli effetti dell’articolo 563 del Codice Civile sulle donazioni pregresse – la prassi della stipulazione dei cosiddetti atti di “mutuo dissenso o risoluzione delle donazioni precedenti”. Tali atti hanno funzione di annichilire/cancellare l’atto precedente e gli effetti prodotti, ricostituendo la situazione “quo ante” in capo al donante.

Dopo un lungo periodo di incerte soluzioni proposte dalla prassi, l’Amministrazione Finanziaria, da ultimo, con la Risoluzione n. 20/E del 14 febbraio 2014 dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Centrale Normativa (.PDF), ha riconosciuto tale natura, superando la tesi del cosiddetto “contrarius actus“, assoggettando l’atto a tre imposte fisse.

Se quindi tale atto ha come effetto l’annichilimento della donazione originaria della stessa non dovrebbe più tenersene conto ai fini dell’articolo 57 del D.Lgs 346/90.

Come è noto, le donazioni indirette sono previste e regolate nel D.Lgs. 346/90, all’Art. 56 e all’Art. 1, comma 4bis. Tale norma prevede che non siano soggette a tassazione le donazioni/liberalità “collegate” ad atti di acquisto di immobili o cessioni di aziende per cui sia dovuta l’IVA, ovvero l’imposta di registro in misura proporzionale.

Senza entrare nel merito della qualificazione della donazione indiretta e ricordando solo alcune fattispecie di più frequente applicazione – come il pagamento del prezzo da parte del padre, con intervento in atto ed esplicitazione della rinuncia alla restituzione, la cointestazione di conti ecc. – è, ad avviso di chi scrive e di dottrina notarile[5], esclusa l’applicazione del coacervo nel caso di donazioni indirette (anche se la norma sopra citata non richiama il relativo dato normativo e cioè il comma 4bis dell’articolo 1) quando le stesse siano escluse da tassazione in quanto collegate ad atti concernenti il trasferimento di diritti immobiliari o la cessione di aziende per cui sia prevista applicazione dell’imposta di registro proporzionale, ovvero dell’IVA.

Non sembra pensarla così l’Amministrazione Finanziaria, che in un recente caso ha ritenuto di tenere conto di una donazione indiretta enunciata in atto e richiamata nella successiva donazione al fine di ritenere erosa la franchigia. Ma anche questa rondine, che speriamo non faccia primavera, dovrà essere valutata alla luce dell’esito del contenzioso al riguardo aperto dal contribuente.

D’altra parte la semplice logica impone di ritenere irrilevanti le donazioni ex Art. 1, comma 4-bis, che non hanno alcun limite di importo (in caso contrario, sarebbero esenti solo fino alla franchigia) e la cui esenzione è applicabile anche in assenza di alcun vincolo di parentela.

Non pare ancora vi sia dubbio circa la non assoggettabilità a coacervo delle donazioni esenti a termini dell’Art.3, D. Lgs. 346/90, anche se il comma 4 ter dell’Art. 3 è stato introdotto in un momento successivo.

Riguardo alle donazioni di Titoli di Stato occorre fare attenzione perché, alla luce della posizione dell’Amministrazione Finanziaria, consolidata dalla Cassazione, solo le donazioni di Titoli di Stato fatte prima della cosiddetta “Manovra Prodi” del 1996 non costituiscono materia per il coacervo, essendo quelle successive imponibili e pertanto da considerare a tale fine. Bisognerà capire se questo orientamento rimarrà confermato anche dopo la recente Circolare.

Formano oggetto di “coacervo” le donazioni anteriori (ovvero anche quelle di pari data, se nulla, indicata nelle stesse donazioni) al valore “attuale”, al momento della nuova donazione, ed è tale valore che erode la franchigia.

Attualizzazione del valore delle donazioni pregresse

Cosa si intende per “valore attuale” e come determinarlo?

Un recente (anche se isolato) orientamento dell’Amministrazione Finanziaria ha visto alcuni uffici procedere in modo alquanto indiscriminato all’accertamento e aumento del valore dichiarato per le donazioni pregresse nel senso che per le stesse non varrebbe il limite del valore catastale come limite all’accertamento sancito dall’articolo 34 del TU Successioni, né la regola dell’Art. 16 relativamente alle partecipazioni (cosiddetto “valore contabile”, ricorrendone i presupposti).

Premesso il fatto che – secondo il parere personale di chi scrive, ma che ritengo suffragato da una lettura coerente del sistema e dalla dottrina prevalente – le mutazioni soggettive del bene donato (come nel caso, per esempio, in cui è stato donato un terreno sul quale il donatario ha successivamente costruito un grattacielo) non rilevano e che, di conseguenza, formano oggetto di coacervo i valori “attuali” di quanto “allora donato” (aprendosi, in caso contrario, una casistica sconfinata e ingovernabile), non si riesce davvero a comprendere come possa esservi un criterio diverso di valutazione della donazione nel momento in cui viene posta in essere e in quello in cui deve essere conteggiata ai fini del coacervo.

Si ritiene, pertanto, pienamente applicabile il limite del “valore catastale” (valore risultante dalla moltiplicazione dei coefficienti per la rendita catastale) e quindi l’indicazione di un valore per le donazioni pregresse che tenga presenti eventuali modifiche dei coefficienti, ma che non consenta la valutazione sul valore venale dei beni.

Per quanto riguarda le partecipazioni poi il problema può essere ancora più sottile in un senso o in un altro.

Se il donatario ha ricevuto una partecipazione in una società che, grazie alle sue doti, ha valorizzato immensamente dovrà paradossalmente vedere erosa la franchigia dal suo operato, ma nel caso contrario, se ha operato male e la partecipazione che era stata donata a un valore cospicuo oggi non vale più nulla, deve potersi affermare che il valore “attuale” è “nulla”!

La posizione dell’Amministrazione finanziaria sembra andare nella direzione di non poter considerare la donazione pregressa a un valore inferiore a quello dell’originaria donazione anche se tale tesi contrasta con la lettera della norma. E ciò senza spingersi ad affrontare il tema delle fusioni e/o scissioni che abbiano interessato la partecipazione donata.

Concludo, quindi, queste mie brevi riflessioni chiedendomi: le norme sono scritte per essere applicate o soltanto interpretate? Si apre – vi ricordo – la stagione delle richieste di rimborso, il cui esito è incerto, ma che certamente andranno coltivate dagli operatori di buona volontà…

 

Note

[1] Risoluzione del 23/04/1997 n. 82 – Min. Finanze – Dip. Entrate Aff. Giurigidici Serv. IV che segna il discrimine tra la non tassabilità delle donazioni di titoli di stato e il loro assoggettamento a tassazione. Tale risoluzione infatti prevede che non siano soggette a “coacervo” le donazioni di titoli di stato registrate prima della entrata in vigore del DL 20 giugno 1996 n.323 (c.d. “manovra Prodi”) perché le stesse sino a quel momento erano registrate a tassa fissa, mentre a seguito di tale manovra, non rientrando più tra tale categoria ad avviso della AF sono sottoposte a tassazione ordinaria e rilevano ai fini del suddetto perverso meccanismo.

[2] Cassazione, Sezione Civile 5, n. 24940/2016 (.PDF) e n. 26050/2016 (.PDF), entrambe in data 24 novembre 2016, ma depositate rispettivamente il 6 e 16 dicembre 2016.

[3] Cassazione, Sezione Tributaria, n. 11677/2017 (.PDF) in data 11 maggio 2017.

[4] Cassazione, Sezione Tributaria, n. 12779/2018 (.PDF) del 23 maggio 2018 e n. 758/2019 (.PDF) del 15 gennaio 2019.

[5] Michele Labriola, Il Coacervo delle donazioni. Casi pratici, Fondazione Italiana del Notariato.

 

L’Agenzia delle Entrate finalmente cambia idea sul coacervo ultima modifica: 2023-12-13T08:30:36+01:00 da Redazione Federnotizie

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